Io e Greta

Com’è possibile che una ragazzina abbia dato vita a un movimento internazionale con solo un cartello in mano?

Parliamo dei precedenti. Prendiamone 2.

Tunisia. 2011. Un venditore ambulante decide di darsi fuoco – suicidandosi – perchè gli revocano la licenza per il carretto, dando con questo gesto avvio alle primavere arabe. Di lì a pochi mesi, in Egitto, un’altro ragazzo si suiciderà alla stessa maniera.
Le primavere arabe rovesciarono dittatori – capi di stato – al potere da 30 o 40 anni.

Turchia. 2013. Dopo gli eventi di Gezy Park si sviluppa una violenta repressione che da un capo all’altro scuote tutta la Turchia lasciando molte vittime fra i manifestanti. Un anonimo sconosciuto ad Ankara decide di iniziare una singolare forma di resistenza: stare fermo in silenzio, in piedi, senza rispondere a nessuno. Verrà imitato da centinaia di persone in tutto il paese. Fermando un’escalation repressiva che in un paese come la Turchia si sarebbe potuta trasformare in un bagno di sangue senza precedenti.

Così ci raccontano le cose le cronache televisive.

È irreale? È impossibile?

Dalle mie scarse reminescenze di quando seguivo alle superiori un corso di giornalismo, mi ricordo come si doveva fare ad individuare una notizia.
Una notizia non è mai un fatto quotidiano, una cosa che tutti fanno, ma sempre qualcosa di strano, qualcosa che inverte il senso normale della routine.

Un cane che insegue un uomo per morderlo, non fa notizia. Ma se è l’uomo a inseguire il cane per morderlo, si.

Una zanzara che punge un uomo non fa notizia, ma un uomo che si mette gambe all’aria per farsi pungere, si.

Un venditore ambulante che non protesta se subisce un sopruso non fa notizia, ma uno che si sacrifica, si.

Un movimento politico che sbraita contro la violenza della polizia non fa notizia, ma… insomma s’è capito.

Una ragazzina che va a una manifestazione per il clima non fa notizia, ma se sciopera dalla scuola, si.

Non è strano questo.

Non è strano neanche che venga manipolata.

Greta è una ragazzina di 17 anni, in piena pubertà, che pensa che ci stiamo autodistruggendo. Pensa che questo succeda perchè c’è un manipolo di manigoldi che fanno troppi affari col petrolio per rinunciarci. E pensa che il resto delle persone, persone comuni, siano assoggettate a questo gruppo di manigoldi.

Quindi protesta. È sano ed è giusto.

Certo Greta è una ragazzina. Probabilmente di famiglia buona, sennò non avrebbe chiesto alla “Legge” di fare qualcosa, ma si sarebbe appellata alle masse. Forse il dibattito sul clima avrebbe arrancato un po’ di più, ma lei ne avrebbe sicuramente tratto molta più felicità.

Certo, forse è un po’ strano che una ragazzina con solo qualche amica sia riuscita, da sola, a dare vita a un movimento internazionale. Forse è strano, anche, che abbia trovato qualche amica disposta a fare sciopero con la stessa leggerezza con cui i bambini allestiscono un’avventura creando un mercatino delle pulci all’angolo di una strada.

Forse hanno un grande sponsor dietro.

Chissà.

Ma chi se ne importa alla fin fine? Siamo o non siamo scienziati marxisti? Da quando in qua sono gli individui o i gruppi di potere a fare la storia?

E chi ci dice poi che questa storia finirà bene? Che anche questa non sia solo una di quelle esplosioni popolari come ci sono state per i gay (o per chi cavolo era la bandiera della pace); contro il terrorismo o altre pagliacciate simili?

L’importante è la notizia. Non la realtà.

Nella realtà di Greta si può dire questo: viene attaccata così come tutti i negazionisti fanno con gli scienziati che sostengono che c’è il cambiamento climatico.

Il riscaldamento terrestre.

Non attaccano però ideologhi borghesi che dicono che le politiche climatiche vanno ordinate in base al concetto di rischio.


Una storia interessante anche questa.
C’è infatti da chiedersi chi abbia messo in testa a Greta l’idea che ci restino solo 9 anni di tempo per fermare l’apocalisse. L’IPCC, la commissione dell’ONU istituita per studiare i fenomeni del cambiamento climatico, cioè gli scienziati che lei chiama sempre in campo, non si esprimono in termini così perentori. Dicono invece: nella migliore delle ipotesi, cioè se limitiamo drasticamente il consumo di combustibili fossili entro la fine del secolo la temperatura sarà aumentata di circa 2,5 gradi (centigradi); nella peggiore delle ipotesi, cioè se si continua senza cambiare niente, di 6 gradi; in quello più probabile, cioè se almeno qualche stato si ravvede, di 4 gradi. Chi le ha messo dunque in testa che ci sia ancora tempo per fermare il surriscaldamento globale? Che poi, questi ideologhi borghesi, hanno soluzioni divertenti da proporre, in tipico stile del cambiare tutto per non cambiare niente: maledicono e denigrano l’esperienza sovietica, ma sono costretti a riconoscere che la pianificazione è l’unico strumento attuabile per regolare il passaggio dall’economia industriale a quella post-industriale. Sanno benissimo infatti che se si lascia la libertà a ogni impresa di fare quello che cavolo gli pare, la soluzione al cambiamento climatico, non sarà solo improbabile, ma assolutamente impossibile. Quindi – a malincuore – sono disposti a rimettere tutto nelle mani dei decisori internazionali per risolvere la questione, infarcendo il tutto di ottimi consigli. Grazie al cielo, a questo punto, che Trump è un petroliere!!

Nella realtà le grandi corporation del cemento – gli istituti finanziari – infatti si stanno sfregando le mani per il cambiamento climatico: vogliono costruire dighe del mare. Hanno rinunciato all’idea di costruire macchine efficienti puntando sul risparmio energetico e deciso di difendere le grandi città di mare con strutture al cui confronto il MOSE di Venezia sembra una catasta da castori.

Greta lo sa che vogliono costruire dighe del mare? E che ne penserebbe? Penserebbe che sia fattibile o che sia solo un’illusione da capitalisti?

È poi giusto che una ragazzina si ponga di questi problemi?

E poi… bellissimo che dei tredicenni scendino in piazza a manifestare, ma ci sarà poi davvero questo cambiamento sociale conseguente negli stili di vita?

Per ora il cambiamento in atto è ancora quello di Amazon e delle consegne a domicilio. I miei colleghi e le mie colleghe pensano di aver trovato l’Eldorado in Amazon e si fanno spedire tutto a casa. Dal mobilio ai vestiti… ci compreranno anche le mutande? E quando me lo raccontano gioiose, sono certa, non capiscono perchè ascoltandole mi incupisco. E mi verrebe da prenderle a schiaffi: 30 anni, laureate, vegane e non hanno ancora capito un cazzo di come gira il mondo??

Certo se potessi andrei da Greta, la prenderei e le imporrei di fermarsi. Di riprendersi la sua vita privata in mano.

Le direi che la società non è frutto di scelte individuali e che non si cambia il mondo cambiando le coscienze da un palcoscenico.

Le direi che non è poi un gran male l’estinzione del genere umano: che il genere umano, come specie dominante del pianeta, ha il diritto di scegliersi il proprio futuro. Che morire e estinguersi tutti insieme non è poi una cosa così terribile, giacchè alla fine è comunque lì che ci dirigiamo.

Le direi che coi compromessi il mondo, se lo si vuole cambiare, non si cambia. Che se ci sono i capitalisti buoni o anche lo Stato buono, per forza di cose ci sono anche quelli cattivi e che se tutti e due possono esistere, allora è normale che in un’economia libera sono quelli che fanno danni che continueranno comunque a farli.

Le ripeterei che la società e l’economia non hanno niente a che vedere con le scelte individuali.

Ma cosa potrei dirle per consolarla?

Che cosa potrei assicurarle che faccio io e che funziona?

Quindi… la lascio in pace. E ne ho compassione. Spero che si fermi. Che non parli più. Spero che scriva una lettera agli adulti, come fece un anno fa. E che si fermi.

Ma oltre a questo, cos’è che posso fare?

Sinceramente non lo so, ma tanto vale farlo piuttosto che stare in attesa con le mani in mano.

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Luana sbaglia analisi

Per questo motivo Luana si mise a studiare il famoso capolavoro di Marx. “Il Capitale”. La prima domanda che si fece fu: “ma perchè Marx ha perso tanto tempo a spiegare come funzionava il capitalismo e non invece si era applicato per abbatterlo?” Non c’era una risposta a questa domanda e Luana si diceva: “tanto ormai è cosa fatta, indietro non si torna, approfittiamone almeno per capire in che mondo viviamo e studiamo Marx”.

La cosa non era così facile. In questo libro che Marx aveva scritto non ci si capiva niente, ma niente proprio. Il mondo, l’economia, la storia era tutta ribaltata. Luana sapeva che Marx pensava di averla messa coi piedi per terra, ma a lei sembrava ribaltata lo stesso. “Non è possibile” pensava. “Non è possibile che Marx si sia sbagliato mentre tutti dicono che ha avuto ragione”. E provava allora a mettersi nei panni di Marx, che le stavano tutti larghi e lei ci scompariva dentro ad indossarli.

La prima cosa che c’è scritta nel Capitale è la teoria del valore. Proprio c’è scritta subito, che in due pagine scarse è riassunta tutta la morale dell’economia politica secondo Marx.

In sintesi Marx diceva che la ricchezza (delle nazioni) è misurabile solo come un grande ammasso e accumulo di merci, cioè di beni materiali prodotti che non si danno naturalmente, e che queste merci hanno un valore d’uso e un valore di scambio. Solo il valore di scambio è quello che si può esprimere in soldi ed è un valore in termini “economici” propri.

Questo era facile da capire. Dopo Marx tutti sapevano che le cose hanno un doppio tipo di valore: il primo e più importante è per l’uso che se ne fa, l’altro che storicamente e logicamente si afferma solo in un momento successivo è quello monetario. Ma ai tempi di Marx la cosa non era affatto chiara e gli economisti quando parlavano mischiavano l’uno e l’altro tipo di valore e allora Marx per prima cosa spiegò questa differenza.

Luana faceva degli esempi molto semplici per capire cosa intendesse Marx. Per esempio: una sedia. Una sedia la puoi comprare al mercato a 20 o 30 o 50 o anche 500 soldi, dipende di che materiale è fatta, se è più o meno carina e comoda, se chi l’ha prodotta è più o meno famoso e altre variabili. Quindi una sedia al momento dell’acquisto ha un valore di scambio tot.

Dopo di che, te la metti in casa, ti ci siedi sopra 20 mila volte e la sedia mantiene sempre lo stesso valore d’uso. Il valore d’uso non è una cosa che si consuma, se non quando la sedia si rompe. Ed è un concetto completamente diverso da quello del valore di scambio. Facile. Questo Marx l’aveva spiegato bene e dopo Marx fu molto difficile che un’economista confondesse i due tipi di valore.

Da dove arrivava il valore di scambio? E qui era dove Marx ribaltava il mondo. Lo ribaltava perchè:

1- dopo averti detto alla pagina prima che il valore d’uso e quello di scambio son due cose diverse a un certo punto le fa diventare una cosa sola a nome “valore”, generico, detto così.

2- diceva che questo valore dipendeva tutto dal lavoro.

Ora Marx, a onor del vero, diceva che a lui di stare a questionare sul significato di valore non ne aveva più voglia, che lui ci aveva passato tutta la sua vita a rispondere a queste domande e che, a lui (noi), interessava studiare il capitalismo, che nel capitalismo il valore principale è quello di scambio, perchè è di lì che si ricava il profitto, e che non lo scocciassero più con questa storia del valore d’uso, che ormai s’era capito che nella vita quotidiana era l’uso importante, ma che la guerra al capitalismo, non la si fa con le sedie, ma con le idee.

Luana un po’ imbambolata continuava a studiare. Quello che non gli tornava era però questa storia del valore che derivava dal lavoro. A Luana non gli tornava proprio… “come – gli diceva – lo chiami di scambio? Dici che dipende dallo scambio e poi a un certo punto, invece, affermi che dipende dal lavoro… a me mi pari grullo”.

Però aveva scoperto una cosa, aveva scoperto che Marx dava la legge della domanda e dell’offerta per scontata. Questa era una legge base dell’economia politica, così definita, “classica” che diceva, classicamente, che il valore nasce dall’incontro del produttore che esprime l’offerta e del compratore che esprime la domanda. Questi due si mettono d’accordo sul prezzo di una merce e quello diventa il suo valore.

Ampliando l’analisi si sapeva che la domanda era fatta da due regole, più o meno regolari, che dicevano: “più una merce è scarsa, più aumenta il suo valore”, e anche se questo non lo diceva, intendeva solo se è scarsa in natura, cioè se è difficile da reperire. E diceva anche “più una cosa è richiesta, cioè più ce n’è bisogno, più aumenta il suo valore”. Scarsità e bisogno per l’economia classica dettavano i tempi e i modi della domanda e secondo alcuni del mercato interno.

Mentre l’offerta era così fatta: “più una cosa è disponibile, meno vale, cioè più diminuisce il suo valore”.

Si sapeva che l’economia classica, con Adam Smith in particolare, diceva che questo incontro di offerta e domanda al mercato si chiamava “mano invisibile” e che pertanto non c’era alcun bisogno di preoccuparsi di regolare l’economia che quella si regolava da sè.

Marx dava questa legge per scontata. Non nel senso che pensava che fosse una legge funzionante sul serio come una legge fisica è spinta dalla sola forza degli elementi, che anche un cieco si accorge che nel capitalismo non funziona un bel niente da sè; la dava per scontata nel senso che pensava che tutti la conoscessero… E invece Luana aveva scoperto che nel partito non la conosceva proprio nessuno questa legge base dell’economia classica e quindi alla fine risultava che Marx aveva scritto il suo libro di critica per nulla, perchè a parte un paio di intellettuali da salotto, di come funzionava il capitalismo non gli importava un bel niente a nessuno.

Luana però era contenta perchè Marx gli aveva spiegato la differenza fra valore d’uso e valore di scambio anche se lo aveva fatto parlando di questo abito di tela o di tela a forma di abito… che poi, pensava Luana, doveva essere almeno un abito da sposa, o da carnevale, perchè era un abito formato non da 1, ma da ben 10 braccia di tela! E insomma era giunta a svelare il mistero, che uso e scambio non c’entrano nulla l’uno con l’altro. Chi era dunque che si era inventato lo stesso termine per dire due cose completamente diverse? Boo… Non era importante.

Tornando però al valore, che oramai non era più un valore di scambio, ma solo un semplice valore, dato che il valore d’uso era ormai rimasto alle spalle per sempre, Marx sosteneva che questo era dato solo dal lavoro e che in realtà era il lavoro incorporato all’interno di ogni singola merce che decideva il suo valore di scambio.

E la scarsità e il bisogno?

E l’abbondanza e il materiale pregiato?

Ah già, quelle son cose date per scontate e quindi si tende a dimenticarsene.

Luana pensava che avrebbe anche voluto spiegare l’altra cosa che aveva scoperto da Marx, sull’accumulazione e la proprietà privata, ma giunta a questo punto, a cui molti pure non erano neanche arrivati tutta una vita, si era assai stancata di Marx e aveva deciso di tornare a studiare Lenin che nei suoi testi seppure non la citava mai si sapeva che proponeva almeno un po’ d’azione e così sembrava un po’ più un libro d’avventura.

Però un amico suo gli disse che piuttosto era meglio occuparsi di letteratura e così si propose di fare Luana nei prossimi mesi: solo libri belli, che mi svuotino la testa dall’economia e dalla politica.

“Ah si?” Gli chiedeva l’amico suo “e il partito? e il fidanzato comunista dove intendi dimenticarli?”

“Ah, non lo so davvero!” Rispondeva Luana.

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La leggenda dei 35 anni

Tag: “Luana spiega cose”

Una volta Luana, da ragazza, dopo averci a lungo pensato, era partita per un viaggio.

Il suo paese e l’occidente intero attraversavano uno dei tanti periodi di oscurità che la tradizione clericale stendeva di tanto in tanto come un manto sulla testa della gente. Così che persone perfettamente normali che solitamente riuscivano ad appassionarsi solo agli andamenti del campionato di calcio di colpo iniziavano a inveire contro una qualche etnia di origine non italica. Che Luana si ricordasse erano già state promosse crociate razziste contro albanesi, filippini (ma non tanto perchè pulivano le case dei signori per bene), rumeni (faticando non poco a distinguerli dagli zingari), marocchini, zingari veri e propri (gitani) e al tempo del viaggio di Luana, islamici, in genere.

Siccome a differenza delle faide precedenti, quest’ultima era frutto di un contrasto religioso vero e proprio, Luana faticava molto a capire qual era l’oggetto del contendere e quale fosse la fonte dell’odio. Così, dopo averci a lungo pensato, decise e partì per 6 mesi e andò a visitare un paese mussulmano.

Questa però non è la storia del suo viaggio, degli incontri che fece e delle scoperte che fece sui come e i perchè la religione islamica si era sviluppata in un certo modo piuttosto che in un altro. Questa è invece la storia della leggenda dei 35 anni.

Luana pur volendo capire le cose del mondo, in quell’epoca lontana, non si fidava molto dei libri e preferiva di gran lunga vedere le cose coi propri occhi, parlare con le persone con la propria bocca e ascoltarle parlare con le proprie orecchie.

Così era partita e dopo i primi approcci con gli autoctoni del luogo aveva capito che l’unico argomento di cui avevano interesse a parlare i mussulmani era solo Dio. Dopo il “come ti chiami?”, “da dove vieni?” la terza domanda era sempre e inevitabilmente “credi in Dio?”. Immaginatela davanti a una domanda del genere! Le prime volte aveva provato, imbarazzatissima, a dire che “no, non voglio offendere nessuno, ma io sono atea”, ma immancabilmente la conversazione languiva e non c’era argomento in grado di riportarla in vita. Così si era preparata una risposta particolare. Diceva “Si, credo in Dio, ma non nel Dio delle religioni monoteiste”. Questa risposta, aveva scoperto, era la risposta migliore che potesse dare, scatenava infatti la discussione sulle similitudini e le differenze fra la religione cristiana e quella mussulmana e spalancava la porta a tutto quello che ai ragazzi della sua età, di quel bel paese straniero, era stato insegnato sulla religione del loro Dio.

Molti erano bigotti. Molti erano atei pure. Ma un giorno trovò un ragazzo particolare: figlio di una maestra di scuola islamica integralista, era cresciuto tutto scombinato. Mezzo pacifista, amico della marjuana e libero di decidere se essere credente o meno.

Questa è la leggenda dei 35 anni, così come me l’ha raccontata quel ragazzo scombinato.

Lui diceva che il Corano, noto libro oscurantista fonte di molti dei mali della terra, in realtà non è come lo descrivono. Che non è un libro fatto di doveri ed obblighi, ma che il 70% del testo è tutto fatto di frasi che danno come uniche indicazione al fedele i precetti del: “pensa” e del “rifletti”. Che c’entrano i 35 anni? Bè, intanto 35 anni sarà l’età che avremo tutti per sempre nell’aldilà una volta che saremo morti. Il corpo che ci porteremo dietro non sarà infatti quello acciaccato dell’età della morte, ma quello dei 35 anni (non è dato sapere che età avremo se si muore prima). Poi lui diceva che nel Corano c’era scritto che non è bene per i giovani aderire alla fede islamica prima dei 35 anni, ma che questi dovessero piuttosto mettere in dubbio la dottrina, che dovevano girare, conoscere il mondo, domandare a tutti e cercare qualcos’altro in cui credere. Se però, in questi primi 35 anni della vita, il fedele nonostante i propri sforzi non avesse trovato niente di meglio della religione dell’Islam, allora poteva aderire e doveva farlo perchè significava che l’Islam era la religione della Verità.

Non sono mai andata a controllare se questa sia una storia vera o meno, né a dire il vero saprei dove cercare conferme. Ma il fatto che questa storia provenga da una fonte cresciuta a casa e madrasa mi induce a pensare che sia un discorso veritiero.

Probabilmente poi è un discorso che vale solo per i maschietti.

Comunque sia è una storia che mi è piaciuta tanto. Avevo infatti 27 anni quando me l’hanno raccontata e la sola idea di avere così tanto tempo davanti a me prima di dover diventare un’integralista islamica, mi faceva sorridere e piacere.

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Sconfinamenti in un campo del sapere che non mi appartiene

Qualche tempo fa per l’edizione Einaudi è uscito un libro che si chiama “Prolet Kult” di tale Wu Ming. La presentazione, ingannevole, era quella di un libro di fantascienza. L’ho comprato e l’ho letto. Un libro interessante per molti aspetti.

Uno di questi è che parla di un altro libro, più vecchio di cento anni, scritto da Lenin, che si intitola “materialismo ed empiriocriticismo”.

A parlare di Lenin si rischia sempre di sbagliare, perchè i leninisti sono persone terribili che se sbagli anche solo una virgola di citazione sono capaci di rinfacciartelo per il resto della vita. Però mi arrischio, perchè Lenin è stata una delle persone più importanti della storia e bisognerà pur parlarne o, come in questo caso, scriverne.

Anche se ancora non l’ho finito, posso dire che il libro è bello, seppure un po’ complicato al primo approccio, come tutti i libri di Lenin, perchè scritto non solo come critica, ma anche in polemica con gli avversari del marxismo. Quindi un po’ difficile da interpretare.

Parla infatti di questi “empiriocritiscisti” che già un addetto ai lavori farebbe fatica a dire chi sono, per le persone normali la cosa diventa veramente ardua da capire. Ma se ci si tira un attimo fuori dallo scontro storico e politico che all’epoca si viveva e lo si prende effettivamente come un testo di filosofia, per chi non ha mai studiato filosofia o ci si è solo avvicinato, chiarisce tante cose.

Io ho seguito qualche corso alle superiori e all’università, come tutti coloro che si interessano agli studi sociali avranno fatto, ma secondo me la filosofia è insegnata male. Il modello di insegnamento è infatti quello storico: si parte dagli albori della filosofia, dai greci, e poi via via si va avanti fino ad arrivare ad oggi. Il povero liceale è costretto a studiarsi tutti gli avanti e indietro della scolastica o della filosofia patristica (quella del medioevo e della Chiesa), concetti che non servono a niente se non come documenti storici. E anche quando ci si avvicina ai tempi moderni la musica non cambia tanto: sullo stesso piano mettono Hobbes e Heidegger; Kant e Cartesio; Schopenahuer e Marx. Tutti uguali. Tutti a fare un minestrone di idee di cui è molto difficile capire l’oggetto della discussione.

Questo perchè in filosofia si vuole seguire a tutti i costi il metodo storico, ma la filosofia non è come la storia. La storia, senza dubbio, la si insegna meglio dal passato al presente e quella dei tempi antichi ha, se non proprio un’utilità, almeno una sua attrattiva. Sapere come vivevano, si organizzavano e si sviluppavano gli uomini prima dell’invenzione di internet, dell’industria, degli acquedotti, prima della nascita delle nazioni, prima del cristianesimo, prima delle città-stato; come si muovevano da un continente all’altro, cosa coltivavano, in che dio credevano, ha comunque un suo fascino. È qualcosa che si può capire facilmente, in cui si può riconoscere anche l’uomo moderno. La filosofia invece non ha uno sviluppo logico, salta di palo in frasca ed è, in fondo, la storia delle idee di qualche – pochi – dotto pensatore. Qualche volta può capitare che risponda alle domande o interessi l’uomo moderno, ma per lo più è caotica.

Questa almeno è la mia opinione.

Il libro di Lenin, invece, aiuta a sgomberare il campo da tante cose. È estremista, ovviamente, però spazza via tanti dubbi riguardo le varie correnti e attualizza i problemi all’oggi. In particolare riguardo al concetto di essere, di sostanza e di materia. Quando scrivono i filosofi sembra sempre che parlino di Dio senza volerlo nominare, invece con Lenin la materia diventa una cosa concreta, che si capisce e si può afferrare. Certo per Lenin è importante principalmente in chiave rivoluzonaria, quindi è importante per capire il materialismo storico, passando magari per quello naturalista. Ma almeno si capisce di che si parla.

Quindi questo è il primo punto importante di questo libro: insegnare la filosofia a partire dei problemi del presente e non come un reperto da museo.

Poi, però, se voglio dire le cose che per me sono state importanti di questa lettura sono tutte cose un po’ bizzare, che col libro di Lenin c’entrano poco o niente. Ne dico alcune.

Intanto, il libro di Lenin è una polemica con alcuni personaggi dell’epoca che si definiscono empiriocriticisti. Questa parola: “empiriocriticismo” trae in inganno, perchè richiama all’esperienza pratica e quindi alla realtà e alla materia, quando in realtà Lenin dimostra che questa corrente filosofica è puramente idealistica. Un idealismo che si traveste da materialismo e per questo pericoloso per la rivoluzione, ma anche per la teoria della conoscenza.

Lenin, riprendendo una importante definizione introdotta da Engels, sostiene che in filosofia esistono due scuole principali: l’una è il materialismo, l’altra l’idealismo. Nella prima si riconosce la prevalenza dell’elemento materiale su quello spirituale; nell’altra la prevalenza dell’elemento spirituale su quello materiale e che nel mezzo esiste una terza scuola di pensiero che è quella agnostica, la quale non nega l’esistenza della cosa materiale, ma afferma che non la si può conoscere; rappresentanti di quest’ultima teoria sono Hume e Kant.

Partiamo da quest’ultima scuola di pensiero. Gli agnostici. Lenin supera la distinzione che Engels aveva fatto, quando li aveva definiti una terza via chiamandoli “materialisti che si vergognano” e, di fatto li assimila agli idealisti tout-kourt. In particolare Kant, crea dei problemi. Io Kant non l’ho mai letto, quindi sono portata a ritenere che abbia ragione Lenin: se si vedono i tomi dei libri scritti da Kant, alti almeno un palmo di mano e si viene a sapere che in tutte quelle pagine si prova a sostenere che è impossibile conoscere la realtà, “la cosa in sè”, il noumeno, allora anche io concorderei di considerarlo un idealista. Però non è così che a scuola insegnano Kant. Kant viene insegnato come l’ultimo degli illumisti, il rappresentante più alto e coerente della Dea Ragione. Colui che non si interessa di spirito trascendente, ma solo di metodo speculativo. L’uomo dell’imperativo categorico. “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me” ha fatto scrivere sulla sua tomba. Kant scinde la realtà in due campi: il primo fenomenico che è quello in cui viviamo e agiamo, ma che è il prodotto dei nostri sensi; il secondo noumenico che è quello reale di cui non possiamo avere conoscenza alcuna e da cui derivano le azioni che poi impressionano i nostri sensi creando il fenomeno. La possibilità di avere una conoscenza realistica del mondo è delegata solo a degli a-priori logici che esisterebbero nella testa di ogni uomo (presupponendo pertanto che esista un unico tipo di intelligenza). Lenin sostiene che questi sono tutti escamotagè per evitare di dire che ormai il concetto di una realtà soprasensibile, dopo secoli di oscurantismo era stato spazzato via.

Non così Kant però, il quale, volente o nolente è per esempio diventato uno dei caposaldi della scienza politica delle finanze, tramite una trasmutazione dell’imperativo categorico cioè la parte più celebre del pensiero politico e morale di Kant che afferma un concetto di orientamento nell’azione pratica che recita più o meno “comportati sempre nei confronti degli altri e della società come se tutti gli altri si comportassero come tu ti comporti, valutando le conseguenze delle tue azioni” o più brevemente “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. In scienza delle finanze questa trasmutazione prende il nome di “criterio del maximin” il quale usa l’imperativo categorico come bussola di orientamento delle scelte politiche che uno Stato dovrebbe compiere: “se non è possibile chiedere a tutti i consociati cosa si deve fare in campo economico, si deve fare ciò che arreca il minor danno al minor numero di persone e i massimi vantaggi al maggior numero di persone”.
In conclusione: non voglio dire che Kant sia stato uno dei miei maestri ispiratori, perchè non è vero e lo conosco solo sommariamente, però anche Lenin sostiene che vada criticato da sinistra e non semplicemente rimosso, come invece incita a fare nei confronti di altri idealisti puri. E per criticarlo queste due o tre cose che insegnano come principali della sua filosofia a scuola, vanno conosciute, perchè fanno parte dell’armamentario del campo nemico.

Ma tralascindo la politica borghese e tornando al problema del libro di Lenin un’altra questione che mi è venuta in mente è quella di cercare di capire che cos’è la materia. Gli idealisti puri, infatti, negano che esista e non sapendo come risolvere la questione dell’opposizione fra materia e spirito, negano direttamente che esista la realtà.

Lenin dice invece che l’opposizione principale è proprio questa: la realtà esiste al di fuori di noi, al di fuori del soggetto senziente e a prescindere da questo. Cioè 1- la reatà esiste al di fuori dell’uomo ed è fatta di “sostanza”/ “materia” e dalle varie relazioni che fra le “sostanze” esistono a prescindere dal fatto che l’uomo le osservi o meno, o sia in grado o meno di spiegarle; e 2- che l’uomo stesso è parte della materia; è formato di materia ed esiste nella realtà.

Dunque, che cos’è la materia? Ad oggi la definizione più precisa di materia (detta, ovviamente in maniera approssimativa) è quella della definizione fisica che se ne può dare. La materia è cioè fatta da atomi. Le conoscenze scientifiche ci dicono che gli atomi sono formati principalmente di un vuoto, cioè la nube di elettroni, e di un piccolissimo spazio pieno, cioè il nucleo di neutroni e protoni. Questa cosa non è più un mistero o una speculazione teorica, ma un fatto dimostrato dalla possibilità di vedere attraverso la materia con la macchina a raggi X.

Detto questo, però, e pur sapendo che ogni elemento è diverso l’uno dall’altro, ci sarebbe probabilmente da chiedersi dov’è che va a finire lo spirito e che cosa mai sia questo spirito. Se si sgombera il campo dal concetto di volontà divina; noumeno; dio e compagnia bella, lo spirito può essere solo il pensiero. La capacità stessa di pensare. Il pensiero, infatti, non mi sembra materia. Non è fatto cioè di atomi.

Bisognerebbe probabilmente porre il problema a un fisico, ponendogli la domanda se sia possibile inventare una macchina in grado di leggere il pensiero o meno. E io credo che a questa domanda un fisico risponderebbe di no. Giacchè, probabilmente, il pensiero è basato certamente sulla materialità del nostro corpo, materialità esistente al pari di qualunque altro oggetto, ma è la manifestazione di un’energia. La quale per la fisica scaturisce si dà una trasformazione della materia, ma non è fatta di materia esso stesso e si disperde.

Certo schierarsi coi materialisti non è facile, perchè se forse i fisici si sono risolti a non indagare il problema oltre quella che è la materialità delle relazioni fisiche e lasciano posto se non a uno spirito divino, almeno a un’ordine divino senza starsi a chiedere neanche dove esso sia posizionato, il materialista storico deve invece negarlo, non potendo rivolgersi nella spiegazione dei fatti umani a una volontà sovraumana o divina, o comunque a nessun tipo di volontà specifica.

Oggi in realtà è molto più facile, ma nella battaglia delle idee nel passato, quando le scoperte scientifiche erano limitate e dell’atomo non si sapeva niente, chi si imbarcava nell’impresa di imbrigliare il pensiero nei canali della scienza aveva il suo bel da fare a spiegare l’alterità di oggetto e soggetto e al contempo il loro “diritto” ad esistere entrambi. Prima che esistesse una macchina a raggi X, prima che esistesse il cannocchiale, prima che esistesse la cartina tornasole, era ben difficile spiegare perchè le nostre percezioni, effettivamente fonte di tanti inganni in quanto limitate, non fossero tutto il mondo.

Ai materialisti, incapaci di dare una spiegazione precisa di cosa fosse la realtà, veniva perciò rimproverato di porre sempre una spiegazione metafisica alla base dei fenomeni sociali e naturali, cioè una causa esterna al soggetto che si muoveva e mutava secondo dei rapporti di causa effetto. Una realtà esterna che però non potevano descrivere. E che cosa questi potevano opporre a riprova della loro pretesa oggettività se non l’adagio socratico del “io so di non sapere”? Un po’ poco, si penserebbe. Se non fosse che grazie a quello, oggi del mondo e dell’universo che ci circonda ne sappiamo molto di più.

Superato questo scoglio, veniamo ai problemi metodologici attuali in campo scientifico. Oggi infatti sembra ormai superata la possibilità di attaccare la scienza dal punto di vista idealistico, cioè di sostenere che tutto quello che si osserva della materia sia solo una nostra rappresentazione e che questa non esista al di là dei nostri sensi. E se anche qualcuno lo volesse sostenere basterebbe metterlo in un laboratorio di chimica, puntandogli una pistola alla testa, e invitarlo a mischiare le sostanze a proprio piacimento per vedere il soggetto in questione diventare un fervente materialista e rivolgersi con passione ai libri di chimica, prima di arrischiarsi a farsi saltare per aria. Nel campo delle scienze sociali però la questione è più complicata. In effetti, allo stato attuale è proprio a questa distinzione fra realtà materiale e realtà sociale che si ricorre per dividere le scienze in scienze hard e scienze soft. Almeno questa è la distinzione che propongono i manuali di scienze sociali. Le scienze hard hanno a che vedere con la materia, con la natura e la realtà e sono le scienze “vere”; quelle soft hanno a che vedere con gli uomini in società e quindi hanno difficoltà a definire leggi vere e proprie. Anzi, non si sa neanche se possono essere definite scienze e se invece quelle che propongono siano tutt’al più opinioni relativiste della realtà. Buone oggi e domani chissà… Ecco, qui non voglio entrare nel merito di questa divisione che attanaglia i metodologisti, ma preferisco affrontare la questione da un punto di vista più controverso ancora, che è la definizione del ruolo degli specialisti. Anche in questo caso, senza pretese di risolverlo, ma almeno accennarlo, si. Noi sappiamo o supponiamo che le scienze, e le professioni scientifiche che ne derivano, siano ormai vastissime: sia come numero di scienze particolari che come vastità di ognuna delle materie trattate. Seppure questa divisione fra scienze hard da un lato e scienze soft dall’altro in qualche modo continui ad essere la principale.

Il problema di dove si annidi la realtà a questo punto ovviamente può essere importante, perchè i due campi del sapere difficilmente dialogano fra loro. Così chi si interessa di materie fisiche e naturali non si occupa quasi mai di politica e viceversa chi si occupa di scienze sociali è solitamente un’ignorante totale rispetto al campo della fisica o delle scienze naturali. Intanto occorre dire che questi due campi hanno pari dignità e in secondo luogo che la specializzazione non è sbagliata. Non si può, infatti, a mio avviso, rimproverare a un medico (per esempio) di non occuparsi di politica, come si fa invece con un operaio, perchè il lavoro di un medico che studia bene la sua materia è già fondamentale di suo e sarebbe ingiusto chiedergli di prendersi a cuore i destini collettivi. Questo però non significa che fra i due campi debba esistere una chiusura ermetica e che ogni scienziato possa farsi solipsisticamente i fatti suoi nel chiuso del suo laboratorio. Primo perchè per quanto riguarda gli scienziati di scienze naturali non sarebbe molto democratico (anche questi hanno il diritto di voto e di interessarsi della vita sociale); secondo perchè, per quanto riguarda gli scienziati umanisti, finirebbero per vivere fra le nuvole se non si occupano anche delle conoscenze materiali naturalistiche dei loro studi sociali.

Altra problematica nota fin dai tempi di Galileo è poi quella fra il metodo induttivo e quello deduttivo, cioè per come lo declinano i marxisti, del problema teoria e pratica. Perchè i due piani esistono concretamente: quello dello studio della realtà, così come questa si manifesta agli occhi dell’osservatore e lo studio delle conoscenze raggiunte ed esposte da altri essere umani. Solitamente tutti concordano nel dire che principale è il metodo induttivo, cioè lo studio della realtà come questa è “nuda e cruda”, ma non si può neanche fingere di dimenticare che siamo esseri umani e che abbiamo bisogno di comunicare tra di noi e che quindi l’attività dello studio delle conoscenze pregresse, delle semplficazioni già fatte è importante e irrinunciabile e che in questo si ha a che fare con altri esseri umani e con i loro errori nell’analisi della realtà e con la mutevolezza della realtà stessa. Scopo delle materie scientifiche, che siano naturali o che siano sociali è quello di conoscere questa materialità, sapere di che è fatta e come funziona. E, abbiamo detto – Lenin ha spiegato- che la realtà non è quella che percepiamo direttamente coi nostri sensi e non è quella che insegnano direttamente le classi dominanti. La realtà è conoscibile – da tutti – ma non è proprio immediatamente accessibile, serve un metodo per conoscerla.

Di cose da dire e che mi sono venute in mente ce ne sarebbero ancora riguardo questo libro e la questione della conoscenza, però penso che queste siano state quelle principali.

Spero che la lettura sia stata di vostro gradimento e vi ringrazio per avermi seguito fino a qui.

Detto questo, chiudo con un paio di riflessioni finali e riassuntive.

Dallo studio della concezione materialista della realtà viene fuori perciò che la realtà esiste sul serio ed è esterna al soggetto. L’uomo ne fa comunque parte, e come uomo associato è anche in grado su scala ecosistemica di interferire pesantemente con l’ambiente circostante. Quindi scopo delle materie scientifiche, che siano naturali o che siano sociali è quella di conoscere questa materialità, sapere di che è fatta e come funziona, perchè che sia compatibile con la vita dell’essere umano è certo, ma che lo rimanga per sempre, invece è cosa dubbia. E anche volendosi affidare al caso, alla scommessa o alla volontà divina esiste comunque una scala temporale, che è quella della vita media di un essere umano, in cui i cambiamenti della realtà influiscono anche sull’esperienza e sulla materialità di ciascun essere umano. E, abbiamo detto – Lenin ha spiegato- che questa realtà non è quella che percepiamo direttamente coi nostri sensi e non è quella che insegnano direttamente le classi dominanti. La realtà è conoscibile – da tutti – ma non proprio immediatamente accessibile, serve un metodo per conoscerla. E questo è lo scopo della scienza. E della teoria della conoscenza materialista.

A cosa serve lo spirito allora? Questo Lenin non lo dice proprio, neanche lontanamente ne parla. Ma ne parlo io, che posso dire qualunque castroneria, nella più totale impunità. Lo spirito è il campo della fantasia. Una volta che il posto della materia e della realtà viene concettualmente delimitato e imbrigliato, la fantasia e lo spirito hanno il più ampio campo esistente in cui correre e ruzzolare. E anche questa non è una cosa da gettare via. L’arte, la letteratura e la fantasia non sono più solo testimonianza di epoche storiche; aridi reperti di epoche passate, ma la strada in cui le conoscenze si incontrano con il possibile e il non ancora scoperto. Penso alla fantascienza, ma penso anche ai romanzi veristi o a quelli di avventura; penso al teatro greco, penso ai quadri e ai dipinti; alle fotografie e alla musica. Non sono solo questo ovviamente, possono essere anche oziosità e estetismo puro, comunque sia hanno piena legittimità all’espressione e all’esistenza.

E ora, che ho letto anche “materialismo ed empiriocriticismo” e ne sono uscita senza diventare dogmatica, sarà anche bene di tornare a fare quello che Lenin dice di fare, cioè che mi concentri sulla realtà, che come detto non è che sia una cosa proprio comprensibile al primo sguardo.

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Ma sarà o non sarà una testa di cazzo?

Luana era comunista. Era una comunista atipica che ancora non aveva capito qual’era il suo posto nel mondo e che compito avesse nella vita, ma era comunista. Lo era diventata dieci anni prima e la prima cosa che aveva deciso una volta diventata comunista era stata che non sarebbe mai più stata nient’altro se non comunista.

Era però una comunista atipica, che un posto nel mondo non lo aveva e quindi lo cercava.

A quel tempo il suo paese era guidato da un establishment di destra. O meglio, più di destra di quello che c’era prima.

Questo specifico governo di destra aveva votato una legge (quasi votata) che si chiamava “decreto sicurezza”. Era il lontano 2018, l’Italia (il paese di Luana), dopo tanto averlo detto, aveva chiuso i confini e gli accessi via mare ai migranti. Ma aveva ancora da gestire circa 6 milioni di stranieri presenti sul suo territorio. Alcuni erano arrivati solo pochi anni prima ed erano in attesa di un documento particolare che si chiamava “protezione internazionale”.

Questa è la storia della legge che voleva cancellare la protezione internazionale, così come a Luana l’aveva raccontata una bellissima ragazza argentina, scura di pelle, coi capelli neri come la notte, di nome Salomè. Una ragazza appassionata che aveva un ufficio legale con le antenne contro la discriminazione.

Allora… la protezione internazionale era distinta in tre istituti. Il primo è quello della protezione internazionale che viene data solo a chi scappa dalla guerra o è vittima di gravi persecuzioni politiche, religiose, di razza, di sesso, di etnia. Il secondo è quello della protezione sussidiaria che viene data nel caso in cui nel proprio paese, nonostante non ci sia una guerra aperta o civile dichiarata, né ci siano vessazioni contro i diritti democratici, potrebbe darsi che si diano situazioni di violenza generale o di violenza specifica familiare o di clan o altre lesioni dei diritti umani, tipo l’applicazione della pena di morte o l’inesistenza di un sistema penale che garantisce la possibiltà di difesa agli imputati, talmente tanto gravi da essere meritevoli di tutela internazionale ugualmente.

L’ultima, quella della protezione umanitaria, poteva essere data per i motivi più vari, per situazioni nelle quali uno Stato sovrano decideva che la negazione di una protezione internazionale a un migrante avrebbe potuto porre lo stesso migrante in una situazione umanitaria insostenibile sotto vari profili. Perchè, per esempio, minore non accompagnato; perchè per esempio poteva essere stato vittima di torture; perchè per esempio poteva esser stato vittima di sfruttamento lavorativo; perchè per esempio poteva provenire da un paese devastato da una catastrofe naturale; perchè per esempio era ormai presente da tanto tempo in Italia e qui aveva costruito i suoi legami primari; eccetera… Questo visto umanitario poteva essere dato o dalle commissioni che si occupavano di assegnare i visti della protezione internazionale, o anche dal questore locale.

Due notazioni importanti al riguardo sono che: 1- la corte costituzionale aveva detto, quando non è importante, che il diritto d’asilo tutelato dalla Costituzione italiana all’articolo 10 trovava piena espressione in queste 3 forme di protezione e quindi non c’era bisogno di nient’altro, né poteva essere riconosciuta una forma di “asilo costituzionale”; 2- esisteva una convenzione internazionale, ormai recepita in tutte le leggi europee e italiane sull’immigrazione che diceva che chi presentava domanda d’asilo o anche solo esprimeva il timore di tornare nel proprio paese doveva essere ascoltato da un giudice o da una commissione in merito al fatto se sussisteva o meno il requisito della protezione e che non poteva per questo essere mai rimpatriato direttamente nel proprio paese, men che mai in un paese non sicuro.

Il decreto Salvini cancellava però l’ultimo istituto, cioè quello della protezione umanitaria. Al suo posto introduceva altre forme speciali di tutela, scrivendo che “là dove era scritto protezione umanitaria bisognava sostituire con le suddette diciture”, protezione per motivi sociali, protezione per sfruttamento, protezione per catastrofi naturali, protezione per motivi sanitari e categoria residuale “protezione speciale” che però in nulla si differenziava dal primo istituto se non nel fatto che la protezione internazionale classica dà diritto a un permesso di soggiorno di 5 anni, rinnovabile e convertibile in qualunque altro titolo (lavoro; familiare; ecc..), quello speciale dà diritto a un permesso di un anno con nessuna possibilità di conversione. Tutte le altre forme introdotte però, a parte quello per catastrofe naturale che dura solo 6 mesi e non è convertibile, sono, al pari della vecchia protezione umanitaria, convertibili in permesso di soggiorno per motivi di lavoro (oltre che rinnovabili) e durano 2 anni.

Quindi non proprio questo grandissimo stravolgimento, solo complicazioni ulteriori. Ma… la storia non finisce qui.

Infatti il decreto Salvini introduceva nuovi motivi che diventavano ostativi al rilascio di un permesso di protezione internazionale. Se, infatti, fino ad allora, erano compresi come gravi motivi solo reati che il migrante poteva aver commesso quali genocidio; reati di terrorismo; tratta di uomini e donne; venivano aggiunti nuovi reati penali alla lista, quali per fare un esempio il furto o la resistenza a pubblico ufficiale.

Inoltre il decreto Salvini dava diritto alle questure di rimpatriare i migranti, una volta che le commissioni (quelle incaricate dell’accertamento dei requisiti), avessero respinto il permesso nel caso di procedimenti già aggravati perchè presentati da soggetti sottoposti a procedimenti giudiziari che potevano dare l’impressione di presentare domanda di protezione solo per scampare alla condanna che comunque sarebbe consistita nella maggior parte dei casi in un rimpatrio, senza lasciare il tempo al migrante di presentare il ricorso; di cui formalmente manteneva comunque il diritto.

Inoltre il decreto Salvini introduceva norme sulla cittadinanza acquisita, secondo cui, allo straniero che avesse acquisito la cittadinanza italiana, ma che venisse poi condannato per gravi reati penali (per ora solo di terrorismo e genocidio), veniva revocata la suddetta cittadinanza… lasciando la persona come? Apolide? Si domandava la bella Salomè dalla doppia cittadinanza italiana ed argentina.

Inoltre il decreto Salvini cancellava la norma del suo predecessore Minniti che nello snellire le procedure per il rilascio dei permessi, aveva però previsto che nel frattempo ai suddetti stranieri fosse garantito il diritto di residenza nei CAS e l’accesso ai diritti a questa connessi.

Inoltre il decreto Salvini prevedeva norme più restrittive per l’accoglienza dei rifugiati ai quali veniva vietato di circolare per le strade fuori dai CAS dopo le ore 20.00, pena, dopo due infrazioni, di essere esclusi dal percorso di accoglienza.

Inoltre il decreto Salvini estendeva la possibilità del trattenimento anche nei confronti dei richiedenti protezione internazionale nei centri per il rimpatrio per un totale di 180 giorni.

Inoltre il decreto Salvini dimezzava i fondi destinati ai progetti dello SPRAR (i percorsi di accoglienza del circuito dei comuni) e stornava quelli destinati ai CAS (i percorsi di accoglienza straordinari delle prefetture) verso i centri per il rimpatrio.

Infine il decreto Salvini non prevedeva nessuna normativa chiara rispetto alle domande in attesa di risposta, cosicchè si stava verificando che le commissioni applicavano le nuove leggi alle domande che stavano esaminando; mentre i tribunali, nei casi di appello, applicavano le vecchie leggi.

Insomma la bella Salomè ci invitava a non disperare. Diceva sì che il decreto Salvini cancellava il lavoro fatto negli ultimi dieci anni dalla giurisprudenza, per riempire le vacue leggi precedenti di contenuti e dare una tutela ai migranti che nelle maglie di questo sistema restavano invischiate. Che riportava indietro le lancette della storia. Ma che già ci eravamo passati e che il sistema era solido e sarebbe riuscito a smuovere la conquista dei diritti anche questa volta. Che era importante però la pratica della disobbedienza civile; che era importante al riguardo dare un’informativa chiara; che era importante che tutta la società civile si muovesse e che insomma sempre in marcia siamo.

Luana era scettica…

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