Sconfinamenti in un campo del sapere che non mi appartiene

Qualche tempo fa per l’edizione Einaudi è uscito un libro che si chiama “Prolet Kult” di tale Wu Ming. La presentazione, ingannevole, era quella di un libro di fantascienza. L’ho comprato e l’ho letto. Non mi è piaciuto tanto.

Però è un libro che ha un qualche valore perchè parla di un altro libro, più vecchio di cento anni, di Lenin, che si intitola “materialismo ed empiriocriticismo”.

A parlare di Lenin si rischia sempre di sbagliare, perchè i leninisti sono persone terribili che se sbagli anche solo una virgola di citazione sono capaci di rinfacciartelo per il resto della vita. Però mi arrischio, perchè Lenin è stata una delle persone più importanti della storia e bisognerà pur parlarne o, come in questo caso, scriverne.

Anche se ancora non l’ho finito, posso dire che il libro è bello, seppure un po’ complicato al primo approccio, come tutti i libri di Lenin, perchè scritto non solo come critica, ma anche in polemica con gli avversari del marxismo. Quindi un po’ difficile da interpretare.

Parla infatti di questi “empiriocritiscisti” che già un addetto ai lavori farebbe fatica a dire chi sono, per le persone normali la cosa diventa veramente ardua da capire. Ma se ci si tira un attimo fuori dallo scontro storico e politico che all’epoca si viveva e lo si prende effettivamente come un testo di filosofia, per chi non ha mai studiato filosofia o ci si è solo avvicinato, chiarisce tante cose.

Io ho seguito qualche corso alle superiori e all’università, come tutti coloro che si interessano agli studi sociali avranno fatto, ma secondo me la filosofia è insegnata male. Il modello di insegnamento è infatti quello storico: si parte dagli albori della filosofia, dai greci, e poi via via si va avanti fino ad arrivare ad oggi. Il povero liceale è costretto a studiarsi tutti gli avanti e indietro della scolastica o della filosofia patristica (quella del medioevo e della Chiesa), concetti che non servono a niente se non come documenti storici. E anche quando ci si avvicina ai tempi moderni la musica non cambia tanto: sullo stesso piano mettono Hobbes e Heidegger; Kant e Cartesio; Schopenahuer e Marx. Tutti uguali. Tutti a fare un minestrone di idee di cui è molto difficile capire l’oggetto della discussione.

Questo perchè in filosofia si vuole seguire a tutti i costi il metodo storico, ma la filosofia non è come la storia. La storia, senza dubbio, la si insegna meglio dal passato al presente e quella dei tempi antichi ha, se non proprio un’utilità, almeno una sua attrattiva. Sapere come vivevano, si organizzavano e si sviluppavano gli uomini prima dell’invenzione di internet, dell’industria, degli acquedotti, prima della nascita delle nazioni, prima del cristianesimo, prima delle città-stato; come si muovevano da un continente all’altro, cosa coltivavano, in che dio credevano, ha comunque un suo fascino. È qualcosa che si può capire facilmente, in cui si può riconoscere anche l’uomo moderno. La filosofia invece non ha uno sviluppo logico, salta di palo in frasca ed è, in fondo, la storia delle idee di qualche – pochi – dotto pensatore. Qualche volta può capitare che risponda alle domande o interessi l’uomo moderno, ma per lo più è caotica.

Questa almeno è la mia opinione.

Il libro di Lenin, invece, aiuta a sgomberare il campo da tante cose. È estremista, ovviamente, però spazza via tanti dubbi riguardo le varie correnti e attualizza i problemi all’oggi. In particolare riguardo al concetto di essere, di sostanza e di materia. Quando scrivono i filosofi sembra sempre che parlino di Dio senza volerlo nominare, invece con Lenin la materia diventa una cosa concreta, che si capisce e si può afferrare. Certo per Lenin è importante principalmente in chiave rivoluzonaria, quindi è importante per capire il materialismo storico, passando magari per quello naturalista. Ma almeno si capisce di che si parla.

Quindi questo è il primo punto importante di questo libro: insegnare la filosofia a partire dei problemi del presente e non come un reperto da museo.

Poi, però, se voglio dire le cose che per me sono state importanti di questa lettura sono tutte cose un po’ bizzare, che col libro di Lenin c’entrano poco o niente. Ne dico alcune.

Intanto, il libro di Lenin è una polemica con alcuni personaggi dell’epoca che si definiscono empiriocriticisti. Questa parola: “empiriocriticismo” trae in inganno, perchè richiama all’esperienza pratica e quindi alla realtà e alla materia, quando in realtà Lenin dimostra che questa corrente filosofica è puramente idealistica. Un idealismo che si traveste da materialismo e per questo pericoloso per la rivoluzione, ma anche per la teoria della conoscenza.

Lenin, riprendendo una importante definizione introdotta da Engels, sostiene che in filosofia esistono due scuole principali: l’una è il materialismo, l’altra l’idealismo. Nella prima si riconosce la prevalenza dell’elemento materiale su quello spirituale; nell’altra la prevalenza dell’elemento spirituale su quello materiale e che nel mezzo esiste una terza scuola di pensiero che è quella agnostica, la quale non nega l’esistenza della cosa materiale, ma afferma che non la si può conoscere; rappresentanti di quest’ultima teoria sono Hume e Kant.

Partiamo da quest’ultima scuola di pensiero. Gli agnostici. Lenin supera la distinzione che Engels aveva fatto, quando li aveva definiti una terza via chiamandoli “materialisti che si vergognano” e, di fatto li assimila agli idealisti tout-kourt. In particolare Kant, crea dei problemi. Io Kant non l’ho mai letto, quindi sono portata a ritenere che abbia ragione Lenin: se si vedono i tomi dei libri scritti da Kant, alti almeno un palmo di mano e si viene a sapere che in tutte quelle pagine si prova a sostenere che è impossibile conoscere la realtà, “la cosa in sè”, il noumeno, allora anche io concorderei di considerarlo un idealista. Però non è così che a scuola insegnano Kant. Kant viene insegnato come l’ultimo degli illumisti, il rappresentante più alto e coerente della Dea Ragione. Colui che non si interessa di spirito trascendente, ma solo di metodo speculativo. L’uomo dell’imperativo categorico. “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me” ha fatto scrivere sulla sua tomba. Kant scinde la realtà in due campi: il primo fenomenico che è quello in cui viviamo e agiamo, ma che è il prodotto dei nostri sensi; il secondo noumenico che è quello reale di cui non possiamo avere conoscenza alcuna e da cui derivano le azioni che poi impressionano i nostri sensi creando il fenomeno. La possibilità di avere una conoscenza realistica del mondo è delegata solo a degli a-priori logici che esisterebbero nella testa di ogni uomo (presupponendo pertanto che esista un unico tipo di intelligenza). Lenin sostiene che questi sono tutti escamotagè per evitare di dire che ormai il concetto di una realtà soprasensibile, dopo secoli di oscurantismo era stato spazzato via.

Non così Kant però, il quale, volente o nolente è per esempio diventato uno dei caposaldi della scienza politica delle finanze, tramite una trasmutazione dell’imperativo categorico cioè la parte più celebre del pensiero politico e morale di Kant che afferma un concetto di orientamento nell’azione pratica che recita più o meno “comportati sempre nei confronti degli altri e della società come se tutti gli altri si comportassero come tu ti comporti, valutando le conseguenze delle tue azioni” o più brevemente “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. In scienza delle finanze questa trasmutazione prende il nome di “criterio del maximin” il quale usa l’imperativo categorico come bussola di orientamento delle scelte politiche che uno Stato dovrebbe compiere: “se non è possibile chiedere a tutti i consociati cosa si deve fare in campo economico, si deve fare ciò che arreca il minor danno al minor numero di persone e i massimi vantaggi al maggior numero di persone”.
In conclusione: non voglio dire che Kant sia stato uno dei miei maestri ispiratori, perchè non è vero e lo conosco solo sommariamente, però anche Lenin sostiene che vada criticato da sinistra e non semplicemente rimosso, come invece incita a fare nei confronti di altri idealisti puri. E per criticarlo queste due o tre cose che insegnano come principali della sua filosofia a scuola, vanno conosciute, perchè fanno parte dell’armamentario del campo nemico.

Ma tralascindo la politica borghese e tornando al problema del libro di Lenin un’altra questione che mi è venuta in mente è quella di cercare di capire che cos’è la materia. Gli idealisti puri, infatti, negano che esista e non sapendo come risolvere la questione dell’opposizione fra materia e spirito, negano direttamente che esista la realtà.

Lenin dice invece che l’opposizione principale è proprio questa: la realtà esiste al di fuori di noi, al di fuori del soggetto senziente e a prescindere da questo. Cioè 1- la reatà esiste al di fuori dell’uomo ed è fatta di “sostanza”/ “materia” e dalle varie relazioni che fra le “sostanze” esistono a prescindere dal fatto che l’uomo le osservi o meno, o sia in grado o meno di spiegarle; e 2- che l’uomo stesso è parte della materia; è formato di materia ed esiste nella realtà.

Dunque, che cos’è la materia? Ad oggi la definizione più precisa di materia (detta, ovviamente in maniera approssimativa) è quella della definizione fisica che se ne può dare. La materia è cioè fatta da atomi. Le conoscenze scientifiche ci dicono che gli atomi sono formati principalmente di un vuoto, cioè la nube di elettroni, e di un piccolissimo spazio pieno, cioè il nucleo di neutroni e protoni. Questa cosa non è più un mistero o una speculazione teorica, ma un fatto dimostrato dalla possibilità di vedere attraverso la materia con la macchina a raggi X.

Detto questo, però, e pur sapendo che ogni elemento è diverso l’uno dall’altro, ci sarebbe probabilmente da chiedersi dov’è che va a finire lo spirito e che cosa mai sia questo spirito. Se si sgombera il campo dal concetto di volontà divina; noumeno; dio e compagnia bella, lo spirito può essere solo il pensiero. La capacità stessa di pensare. Il pensiero, infatti, non mi sembra materia. Non è fatto cioè di atomi.

Bisognerebbe probabilmente porre il problema a un fisico, ponendogli la domanda se sia possibile inventare una macchina in grado di leggere il pensiero o meno. E io credo che a questa domanda un fisico risponderebbe di no. Giacchè, probabilmente, il pensiero è basato certamente sulla materialità del nostro corpo, materialità esistente al pari di qualunque altro oggetto, ma è la manifestazione di un’energia. La quale per la fisica scaturisce si dà una trasformazione della materia, ma non è fatta di materia esso stesso e si disperde.

Certo schierarsi coi materialisti non è facile, perchè se forse i fisici si sono risolti a non indagare il problema oltre quella che è la materialità delle relazioni fisiche e lasciano posto se non a uno spirito divino, almeno a un’ordine divino senza starsi a chiedere neanche dove esso sia posizionato, il materialista storico deve invece negarlo, non potendo rivolgersi nella spiegazione dei fatti umani a una volontà sovraumana o divina, o comunque a nessun tipo di volontà specifica.

Oggi in realtà è molto più facile, ma nella battaglia delle idee nel passato, quando le scoperte scientifiche erano limitate e dell’atomo non si sapeva niente, chi si imbarcava nell’impresa di imbrigliare il pensiero nei canali della scienza aveva il suo bel da fare a spiegare l’alterità di oggetto e soggetto e al contempo il loro “diritto” ad esistere entrambi. Prima che esistesse una macchina a raggi X, prima che esistesse il cannocchiale, prima che esistesse la cartina tornasole, era ben difficile spiegare perchè le nostre percezioni, effettivamente fonte di tanti inganni in quanto limitate, non fossero tutto il mondo.

Ai materialisti, incapaci di dare una spiegazione precisa di cosa fosse la realtà, veniva perciò rimproverato di porre sempre una spiegazione metafisica alla base dei fenomeni sociali e naturali, cioè una causa esterna al soggetto che si muoveva e mutava secondo dei rapporti di causa effetto. Una realtà esterna che però non potevano descrivere. E che cosa questi potevano opporre a riprova della loro pretesa oggettività se non l’adagio socratico del “io so di non sapere”? Un po’ poco, si penserebbe. Se non fosse che grazie a quello, oggi del mondo e dell’universo che ci circonda ne sappiamo molto di più.

Superato questo scoglio, veniamo ai problemi metodologici attuali in campo scientifico. Oggi infatti sembra ormai superata la possibilità di attaccare la scienza dal punto di vista idealistico, cioè di sostenere che tutto quello che si osserva della materia sia solo una nostra rappresentazione e che questa non esista al di là dei nostri sensi. E se anche qualcuno lo volesse sostenere basterebbe metterlo in un laboratorio di chimica, puntandogli una pistola alla testa, e invitarlo a mischiare le sostanze a proprio piacimento per vedere il soggetto in questione diventare un fervente materialista e rivolgersi con passione ai libri di chimica, prima di arrischiarsi a farsi saltare per aria. Nel campo delle scienze sociali però la questione è più complicata. In effetti, allo stato attuale è proprio a questa distinzione fra realtà materiale e realtà sociale che si ricorre per dividere le scienze in scienze hard e scienze soft. Almeno questa è la distinzione che propongono i manuali di scienze sociali. Le scienze hard hanno a che vedere con la materia, con la natura e la realtà e sono le scienze “vere”; quelle soft hanno a che vedere con gli uomini in società e quindi hanno difficoltà a definire leggi vere e proprie. Anzi, non si sa neanche se possono essere definite scienze e se invece quelle che propongono siano tutt’al più opinioni relativiste della realtà. Buone oggi e domani chissà… Ecco, qui non voglio entrare nel merito di questa divisione che attanaglia i metodologisti, ma preferisco affrontare la questione da un punto di vista più controverso ancora, che è la definizione del ruolo degli specialisti. Anche in questo caso, senza pretese di risolverlo, ma almeno accennarlo, si. Noi sappiamo o supponiamo che le scienze, e le professioni scientifiche che ne derivano, siano ormai vastissime: sia come numero di scienze particolari che come vastità di ognuna delle materie trattate. Seppure questa divisione fra scienze hard da un lato e scienze soft dall’altro in qualche modo continui ad essere la principale.

Il problema di dove si annidi la realtà a questo punto ovviamente può essere importante, perchè i due campi del sapere difficilmente dialogano fra loro. Così chi si interessa di materie fisiche e naturali non si occupa quasi mai di politica e viceversa chi si occupa di scienze sociali è solitamente un’ignorante totale rispetto al campo della fisica o delle scienze naturali. Intanto occorre dire che questi due campi hanno pari dignità e in secondo luogo che la specializzazione non è sbagliata. Non si può, infatti, a mio avviso, rimproverare a un medico (per esempio) di non occuparsi di politica, come si fa invece con un operaio, perchè il lavoro di un medico che studia bene la sua materia è già fondamentale di suo e sarebbe ingiusto chiedergli di prendersi a cuore i destini collettivi. Questo però non significa che fra i due campi debba esistere una chiusura ermetica e che ogni scienziato possa farsi solipsisticamente i fatti suoi nel chiuso del suo laboratorio. Primo perchè per quanto riguarda gli scienziati di scienze naturali non sarebbe molto democratico (anche questi hanno il diritto di voto e di interessarsi della vita sociale); secondo perchè, per quanto riguarda gli scienziati umanisti, finirebbero per vivere fra le nuvole se non si occupano anche delle conoscenze materiali naturalistiche dei loro studi sociali.

Altra problematica nota fin dai tempi di Galileo è poi quella fra il metodo induttivo e quello deduttivo, cioè per come lo declinano i marxisti, del problema teoria e pratica. Perchè i due piani esistono concretamente: quello dello studio della realtà, così come questa si manifesta agli occhi dell’osservatore e lo studio delle conoscenze raggiunte ed esposte da altri essere umani. Solitamente tutti concordano nel dire che principale è il metodo induttivo, cioè lo studio della realtà come questa è “nuda e cruda”, ma non si può neanche fingere di dimenticare che siamo esseri umani e che abbiamo bisogno di comunicare tra di noi e che quindi l’attività dello studio delle conoscenze pregresse, delle semplficazioni già fatte è importante e irrinunciabile e che in questo si ha a che fare con altri esseri umani e con i loro errori nell’analisi della realtà e con la mutevolezza della realtà stessa. Scopo delle materie scientifiche, che siano naturali o che siano sociali è quello di conoscere questa materialità, sapere di che è fatta e come funziona. E, abbiamo detto – Lenin ha spiegato- che la realtà non è quella che percepiamo direttamente coi nostri sensi e non è quella che insegnano direttamente le classi dominanti. La realtà è conoscibile – da tutti – ma non è proprio immediatamente accessibile, serve un metodo per conoscerla.

Di cose da dire e che mi sono venute in mente ce ne sarebbero ancora riguardo questo libro e la questione della conoscenza, però penso che queste siano state quelle principali.

Spero che la lettura sia stata di vostro gradimento e vi ringrazio per avermi seguito fino a qui.

Detto questo, chiudo con un paio di riflessioni finali e riassuntive.

Dallo studio della concezione materialista della realtà viene fuori perciò che la realtà esiste sul serio ed è esterna al soggetto. L’uomo ne fa comunque parte, e come uomo associato è anche in grado su scala ecosistemica di interferire pesantemente con l’ambiente circostante. Quindi scopo delle materie scientifiche, che siano naturali o che siano sociali è quella di conoscere questa materialità, sapere di che è fatta e come funziona, perchè che sia compatibile con la vita dell’essere umano è certo, ma che lo rimanga per sempre, invece è cosa dubbia. E anche volendosi affidare al caso, alla scommessa o alla volontà divina esiste comunque una scala temporale, che è quella della vita media di un essere umano, in cui i cambiamenti della realtà influiscono anche sull’esperienza e sulla materialità di ciascun essere umano. E, abbiamo detto – Lenin ha spiegato- che questa realtà non è quella che percepiamo direttamente coi nostri sensi e non è quella che insegnano direttamente le classi dominanti. La realtà è conoscibile – da tutti – ma non proprio immediatamente accessibile, serve un metodo per conoscerla. E questo è lo scopo della scienza. E della teoria della conoscenza materialista.

A cosa serve lo spirito allora? Questo Lenin non lo dice proprio, neanche lontanamente ne parla. Ma ne parlo io, che posso dire qualunque castroneria, nella più totale impunità. Lo spirito è il campo della fantasia. Una volta che il posto della materia e della realtà viene concettualmente delimitato e imbrigliato, la fantasia e lo spirito hanno il più ampio campo esistente in cui correre e ruzzolare. E anche questa non è una cosa da gettare via. L’arte, la letteratura e la fantasia non sono più solo testimonianza di epoche storiche; aridi reperti di epoche passate, ma la strada in cui le conoscenze si incontrano con il possibile e il non ancora scoperto. Penso alla fantascienza, ma penso anche ai romanzi veristi o a quelli di avventura; penso al teatro greco, penso ai quadri e ai dipinti; alle fotografie e alla musica. Non sono solo questo ovviamente, possono essere anche oziosità e estetismo puro, comunque sia hanno piena legittimità all’espressione e all’esistenza.

E ora, che ho letto anche “materialismo ed empiriocriticismo” e ne sono uscita senza diventare dogmatica, sarà anche bene di tornare a fare quello che Lenin dice di fare, cioè che mi concentri sulla realtà, che come detto non è che sia una cosa proprio comprensibile al primo sguardo.

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