Che cos’è l’economia? Parte 1: sull’economia classica e la teoria del valore.

È un paradosso che la terra gira intorno al sole
e che l’acqua è costituita da due gas molto infiammabili.
Le verità scientifiche sono sempre paradossi quando
vengono misurate alla stregua dell’esperienza quotidiana,
la quale afferra solo l’apparenza ingannevole delle cose.
-Karl Marx-

Torniamo dunque alla seconda domanda posta nello scorso articolo: che cos’è l’economia e perchè è tanto importante?
La maggior parte delle persone, pur senza pensarci tanto su, ritiene che economia e capitalismo siano due termini sinonimi. Questo è un equivoco causato dal vivere nel mondo contemporaneo, in una delle società occidentali e ritengo che sia un punto importante da mettere in discussione e da cui partire. In realtà il capitalismo, come vedremo più avanti, è un modo di produzione fra altri. È sicuramente il modo principale di produzione e di distribuzione delle risorse nella nostra società, ma non è l’unico.
L’economia è qualcosa di più grande del capitalismo (se esiste qualcosa di più grande del capitalismo) e di più necessario. Penso però che l’equiparazione fra il termine economia e il termine capitalismo sia un automatismo che ha radici profonde nel nostro modo di pensare e che è anche condiviso da tutta la letteratura specialistica sul tema.
Negli ultimi decenni ci sono stati anche aggiornamenti importanti su questo orientamento, per lo più dal punto di vista tecnico e applicativo, che ammettono che l’economia possa essere gestita in maniera “mista”, cioè utilizzando capitalismo e intervento di Stato, ma già così concedendo si perpetua l’idea che fuori dal capitalismo non sia possibile neanche pensare un modello economico. Forse in questo modo di pensare ha contribuito anche l’opera di Marx, il quale è stato l’autore che ha definito il termine capitale e le caratteristiche del capitalismo, proprio per identificare quel sistema (economico, politico, culturale e sociale) che affliggeva i proletari e l’umanità intera.

Per capire di cosa stiamo parlando si devono tenere a mente almeno tre aspetti della questione economia.
1- Esistono centinaia di azioni pratiche quotidiane che si compiono nel corso della propria vita che hanno natura economica. Alcune sono facili, piccole e quasi banali come comprare un caffè al bar o fare un regalo a un amico. Altre sono più impegnative come comprare casa o fare un prestito a un amico. L’economia riguarda e deriva da ognuna di queste azioni che compiamo, noi, le imprese o lo Stato.
2- Al contempo l’economia è anche una materia di studio che molti, compreso Marx, ritengono abbia natura scientifica, composta cioè da regole e costanti che si possono scoprire e definire.
3- Infine l’economia è un campo di azione politica e uno dei principali, basti pensare al fatto che di 5 delle materie di competenza politica che l’UE ha centralizzato e estromesso dal controllo dei singoli Stati, 4 sono di natura economica1.

Non esistono però definizioni precise di cosa possa intendersi per economia. Etimologicamente il termine deriva dal greco (oikos = casa + nomos=discorso) e può essere tradotto con l’espressione “amministrazione della casa”, ma questa non è una definizione molto utile.
Storicamente fino al 1700 non esiste neanche una materia di studio esclusivamente economica e sebbene esistessero teorie e proposizioni economiche, queste erano appannaggio di altre materie, quali la filosofia, la politica o la religione. L’economia come materia di studio nasce solo in epoca moderna, con l’affermarsi del modello capitalistico di produzione, aspetto importante che ne definisce fin di partenza i caratteri ideologici.
Per cercare una definizione, possiamo rivolgerci, all’analisi marxista e dire che si parla sicuramente di economia quando parliamo di modo di produzione. Il modo di produzione, secondo Marx, è quello che deriva dalla relazione fra forze produttive e rapporti di produzione2. Definizione molto astratta e complicata, ma sintetica abbastanza da suggerrire che esistono vari modi di produzione possibili.
Detto questo però Marx e tutti gli economisti principali si sono interessati principalmente del capitalismo, trascurando gli altri forse perchè considerati come secondari. Infatti specie negli autori classici, che avevano ancora una concezione progressiva e teleologica della storia, il capitalismo è visto come la fase conclusiva e compiuta dello sviluppo economico.
Anche noi ci atterremo principalmente a questa tradizione, parlando perciò di produzione capitalistica, ma tenendo ben presente che “la proprietà privata da parte di un singolo capitalista dei mezzi di produzione” non è l’unico rapporto di produzione possibile.
Marx, proprio in virtù del suo metodo storico-materialista, sapeva bene che esistono vari modi di produzione. Per esempio, il feudalesimo era un modo di produzione, oltre che un periodo storico. Il capitalismo è un modo di produzione molto diverso e il socialismo è, o sarà, un modo ancora diverso. Inoltre, studiando il capitalismo emergeva che durante una determinata epoca storica ci sono vari gradi di sviluppo attraverso cui passa e si afferma un determinato modello.
Su questo tema ci sono stati autori, principalmente storici o scienziati sociali, che si sono molto interessati alla diversità dei sistemi economici. Citiamo al riguardo il lavoro di Karl Polanyi, un autore poco conosciuto e molto polemico che si è occupato di generalizzare tre modelli economici, considerando come distintivo il modo in cui vengono distribuite le risorse, piuttosto che il modo in cui vengono prodotte.
Nella preistoria era predominante una forma economica chiamata della reciprocità basata sulla gratuità e sulla condivisione delle risorse: un gruppo sociale mette tutte le “ricchezze” e i beni prodotti in comune, senza chiedere alcun corrispettivo economico per il consumo degli stessi. Oltre all’epoca preistorica, oggigiorno questo modello sopravvive principalmente fra le quattro mura di casa, in famiglia, dove le relazioni economiche non sono basate sullo scambio, ma appunto sulla condivisione e reciprocità, solitamente3.
Esiste poi la forma della redistribuzione, nella quale le risorse vengono accaparrate da un centro amministrativo che le redistribuisce a suo gradimento e qui gli esempi sono numerossissimi di società che accentrano le risorse in questo modo. Per cui il feudalesimo ha una predominanza di questo tipo, ma anche lo Stato-nazione o il socialismo.
Infine esiste lo scambio di mercato il quale, al pari degli altri modelli, è sempre esistito anche in epoche in cui erano predominanti altri sistemi e che si afferma come forma principale attraverso il capitalismo. Secondo l’analisi di Polanyi questo predominio si realizza attraverso tre grandi trasformazioni, che oggi però non tratteremo4.
Quello che va tenuto presente dell’analisi di Polanyi, più che la predominanza di una forma o l’altra è il fatto che queste possano convivere contemporaneamente in uno stesso sistema economico, a gradi diversi di importanza, cosa che l’analisi di Polanyi concepisce dato che questo autore ha sempre lavorato più in ambito antropologico che in quello economico.

Abbiamo detto che in economia, ruolo di primo piano lo ha lo studio del modo di produzione capitalistico. In questo una delle categorie più importanti che gli economisti si dedicano ad indagare è quella del valore, facendo una distinzione fra quello che viene chiamato valore d’uso e valore di scambio.
Utilizzeremo spesso questi concetti, ma avvertiamo il lettore fin da subito che l’introduzione di queste categorie nel pensiero economico ha spalancato l’universo.
Non ci attarderemo sulla diatriba classica della preferenza che si può accordare al valore d’uso, piuttosto che al valore di scambio, almeno non nei termini in cui è stata posta originariamente. Diciamo solo che il valore d’uso è un termine che rispecchia il concetto di utilità e che non ha di partenza una possibilità di essere misurato. Il valore di scambio, invece, è precisamente il tipo di qualità che assegnamo alle merci per numerarle e ordinarle in ordine di importanza e grandezza. E il valore di scambio realizza questa numerabilità con il denaro. C’è cioè una corrispondenza profonda fra prezzo, valore di scambio e ricchezza accumulata (cioè capitale).

Fatta questa breve premessa su alcuni dei termini e delle definizioni che compongono il mondo economico, possiamo procedere.
Siccome il mondo della teoria economica è vastissimo, noi possiamo limitarci a trattare solo alcuni aspetti in questa introduzione. Forse non quelli più importanti dal punto di vista dell’attualità, ma su alcune questioni non possiamo limitarci a fare lunghi giri attorno, ma bisogna entrare nel merito del problema. Quindi intanto specifico il mio intento che so già verrà bollato come utopistico, anche se i compagni che lo faranno, dovranno spiegarmi qual è l’alternativa.
Io penso che quando parliamo di economia, così come quando parliamo di politica, dovremmo riuscire a creare un sistema di pensiero e di azione alla nostra portata e condiviso. Innanzitutto, infatti, l’economia è anche quella che impariamo giorno per giorno dall’esperienza quotidiana ed è anche da questa osservazione che deriva la familiarità che possiamo pretendere di avere sulle materie economiche. La conoscenza da sempre è la leva per l’azione politica e per l’emancipazione e quella dei meccanismi economici non fa differenza.
Questo mio intento non è lo stato dell’arte attuale, ma un obiettivo puramente politico.
Viceversa oggi l’economia è demandata a un manipolo di esperti “burocrati”, “finanzieri”, “imprenditori” ed “economisti” (sempre di buona famiglia) che sostiene candidamente, con la faccia come il culo, che solo loro sanno che cosa bisogna fare. Quasi l’economia fosse da intendersi alla stregua di un’antica religione, fatta di misteri e profezie.
Ma la cosa più divertente di questa loro profezia è che con la stessa protervia con cui dichiarano che solo loro sanno che cosa fare, sono pronti a dirti che non sanno niente e non hanno un’idea chiara di quanto accade e di come e quali sono le leggi dell’economia.
Io invece penso che dovremmo interessarci delle questioni economiche, dalle più piccole, alle più grandi. Non sto suggerendo che si debba fare finanza creativa, che si possano usare i soldi come se non avessero valore, né tanto meno che si dovrebbe deregolare tutto perchè tanto l’economia si regola da sé. Solamente credo che conoscendola, si possa anche orientarla in maniera diversa.
E da questo lato ci sono tantissime proposte da recuperare e integrare e che saranno fondamentali nella società che verrà e che vogliamo costruire. Insomma, il socialismo va bene, ma dobbiamo anche pensare a come vorremo produrre nel socialismo.

Torniamo alla storia del pensiero economico, e diamo un’occhiata a due o tre dei temi più importanti.
In generale gli economisti hanno sempre avuto dei propri obiettivi personali, legati ai problemi economici principali della loro epoca. Keynes per esempio si pone l’obiettivo di risolvere il problema della disoccupazione e della distribuzione del reddito in maniera meno diseguale. E lo fa col presupposto che siano produzione e consumo a generare ricchezza. Non solo con questo presupposto, ma certo non prevede l’economia del risparmio (per esempio).
Invece gli economisti precedenti sono tutti interessati a scoprire il meccanismo della formazione dei prezzi e quindi del valore e anche noi di questo oggi ci occupiamo.
Si potrebbe pensare che questo sia un problema un po’ banale, ma è stato per molti secoli, e per molti aspetti anche oggi rimane, la questione principale dell’economia. Perchè dalla formazione dei prezzi deriva il potere di acquisto delle persone e quindi con una consequenzialità un po’ forzata, anche la distribuzione della ricchezza a tutti.
Successivamente allo studio del valore, che ha impegnato tantissima gente, è arrivata la questione della valorizzazione (del capitale) nel tempo, cioè lo studio del tasso d’interesse e il ruolo della moneta.
Insomma dei problemi oggettivi (povertà, guerre, imperialismi) l’economia si è sempre occupata molto poco, perchè per lungo tempo il principale interesse è stato lo studio dell’arricchimento personale e a chi non frega niente di arricchirsi non ha gran che di movente per studiare i fenomeni economici.
Certo ci sono state persone sensibilissime ai temi sociali.
Anche Ricardo, iniziatore della teoria del valore, aveva una certa sensibilità a questi temi, ma poiché dalla maggior parte degli studi degli economisti derivava la convinzione che non ci fosse soluzione al problema della povertà, allora gli economisti alzavano le mani e si limitavano a dire, che prima o poi, lasciando agire le forze di mercato – così come loro le avevano scoperte – tutti i problemi si sarebbero risolti da soli.

Rivolgiamoci dunque a spiegare la formazione del valore e dei prezzi, almeno nelle coordinate principali. Avviso qui che si tratta proprio di un riassunto ai minimi termini, che ad entrare nel merito delle questioni servirebbero decine di articoli.
Alcune cose le abbiamo già dette in vari articoli passati, per cui è inevitabile che a volte mi ripeterò e a volte tralascerò qualcosa che ho già detto.

Ci eravamo fermati, prima della lunga digressione di chiacchiere, alla distinzione fra valore di scambio e valore d’uso. L’argomento sembra ormai superato e parecchio stantio, ma non è così.
Questi termini sono stati introdotti, come pure molti altri, da uno dei capostipiti della scuola classica, cioè Adam Smith. Il quale però non riesce a darne una definizione chiara.
I due tipi di valore non devono essere confusi o sovrapposti.
In generale, il valore d’uso è una qualità delle merci non quantificabile (anche se vedremo nei prossimi articoli che qualcuno ha provato a misurarla) che esprime la capacità del bene in questione di soddisfare un bisogno o un’esigenza.
Il valore di scambio, invece, è quantificabile e viene espresso, in prima approssimazione, dal prezzo ed è tale perciò solo in un’economia basata sul mercato. La quantità che esprime è inizialmente comparativa cioè indica la proporzione con cui un bene si scambia con un altro bene e si determina e “assolutizza” per il tramite del prezzo e cioè del denaro.
Il valore di scambio è in parte legato al valore d’uso, ma non in maniera deterministica. Diciamo piuttosto che il valore d’uso è precondizione perchè esista il valore di scambio, ma non lo definisce.
Facciamo qualche esempio per chiarire il concetto.
Una sedia. Una sedia ha un determinato e lampante valore d’uso: serve a sedervisi sopra. Cioè ha una qualità non misurabile e mantiene questo suo valore sia quando andiamo a comprarla al mercato, sia quando ce la mettiamo in casa. Almeno fino a che non si rompe, la sedia manterrà il suo valore d’uso.
Il valore di scambio della sedia è invece espresso dal prezzo a cui la compriamo (o vendiamo) e si esaurisce nel momento stesso dell’acquisto (o vendita). Una sedia può costare 20, 50, 100 euro o più.
Se il valore d’uso è precondizione del valore di scambio, da che cosa dipende questo valore di scambio? Perchè il prezzo varia da sedia a sedia, da prodotto a prodotto?
Facciamo un altro esempio. L’acqua. O l’aria, perchè no. È chiaro che sono cose che hanno un altissimo valore d’uso, ma il loro valore di scambio è molto basso o nullo. Anche se, per quanto riguarda l’acqua, oggi le cose sono cambiate sensibilmente.

Ogni merce quindi ha una sua particolare proprietà che misura il suo valore (d’ora in poi tutte le volte che useremo la parola valore si farà implicitamente riferimento all’espressione più lunga “valore di scambio”).
Abbiamo visto che per decenni gli economisti hanno cercato di scoprire quale fosse la fonte e l’origine del valore. Per noi uomini del XXI secolo che già sappiamo la risposta il dibattito può sembrare noioso, ma lo ripercorriamo lo stesso, perchè alla fin fine anche noi uomini (e donne) del XXI secolo non abbiamo una risposta chiara.
Ribadiamo che la problematica nasce solo con la definitiva affermazione del modo di produzione capitalistico – anche se non pienamente sviluppato – come modo di produzione dominante nella società e cioè con l’affermazione della classe borghese al governo degli Stati, il cui principale obiettivo era quello di favorire l’arricchimento di se stessi medesimi.

Ci sono 3 posizioni in ordine di tempo.

1- La prima posizione data 1700, ad opera dei fisiocratici e a me è sempre stata simpatica. È molto semplice.
Secondo i fisiocratici l’origine del valore è tutta nella terra. Dicono loro che tutte le altre lavorazioni che vegono effettuate successivamente a che una cosa viene strappata dal grembo della madre terra si limitano a trasformare il prodotto, ma non creano niente. Nell’intero globo terraqueo l’unica sostanza in grado di generare dal niente (da quel po’ di acqua, minerali ed energia solare) qualcosa di materiale è la terra. Le mucche mangiano l’erba generata dalla terra e noi possiamo farci formaggi e vestiti di cuoio.
Qualcuno dei fisiocratici più moderni, fa rientrare fra i prodotti della terra, anche i metalli e le riserve energetiche e così il gioco è fatto.
A creare valore è la terra, tutto quello che segue è mera trasformazione.
Ovviamente i fisiocratici erano tutti proprietari terrieri, mica dicevano cose a vanvera.
La spiegazione non regge però alle critiche. Intanto quando i fisiocratici sostengono che l’origine del valore sia la terra, non distinguono fra valore d’uso e valore di scambio e anzi sembra che propendano piuttosto per il primo che non per il secondo. Così è chiaro che materialmente tutto quello che ci circonda viene dalla Terra, ma accettando una definizione di questo tipo ci resterebbe ancora da spiegare come mai alcuni uomini diventano ricchi e altri poveri e da cosa dipende questa differenza.
Inoltre se ci perdiamo nel concetto di semplice trasformazione, anche la terra può essere vista come un laboratorio chimico che combina gli elementi a sua disposizione per creare qualcosa di altro. Insomma quella fisiocratica è una teoria che ha anche degli aspetti importanti, da un lato introducendo il principio di produzione e ricchezza come surplus, dall’altro inaugurando di fatto la materia economica come ambito di riflessioni specifiche. I fisiocratici vedono, forse per la prima volta, la ricchezza come frutto di un processo circolare. Cioè da una visione molto medioevale di ricchezza come accumulo di oro e generi preziosi, si passa a considerarla nella sua sfera dinamica che innerva l’intera società, ma qui le loro riflessioni si fermano.

Come anticipato bisogna aspettare la fine del 1700 e poi tutto l’800 perchè si iniziasse a porre la questione del valore in termini diversi e fin a partire da Adam Smith e poi con David Ricardo e infine con Karl Marx si definisce di preciso da che cosa origina il valore di scambio: dal lavoro!
Tutti questi 3 economisti citano il lavoro come origine del valore, aspetto che complica molto la questione su chi sia da preferire all’altro.

2- Per Adam Smith, forse, più che il lavoro come forza fisica applicata, la questione della creazione del valore sembra dipendere dalla divisione del lavoro.
Adam Smith è importante anche per altre questioni, oltre alla teoria del valore, che meritano di essere richiamate brevemente. In particolare Smith è il celebre creatore della frase sul mercato come “mano invisibile”. Secondo questa definizione il mercato e l’economia, per il tramite del perseguimento dell’interesse e del beneficio individuale e egoistico di ciascuno, raggiungono anche il benessere collettivo.
Strenuo sostenitore del laissez-faire – sempre in opposizione ai mercantilisti, i quali invece chiedevano l’intervento dello Stato per regolamentare il commercio internazionale – Adam Smith sosteneva che lo Stato facesse sempre dei danni in economia e che se anche il mercato senza regole non era equo, otteneva risultati comunque migliori di quelli dello Stato.
In secondo luogo Smith ha introdotto due contributi fondamentali.
Il primo relativo alla scoperta del funzionamento della concorrenza – da cui la mano invisibile – l’altro relativo alla divisione del lavoro.
Quanto alla concorrenza il meccanismo descritto da Smith è semplice: ogni venditore persegue il proprio interesse personale di arricchimento, ma grazie alla concorrenza che si fanno l’un l’altro, i prezzi si adeguano al minimo possibile, in quanto se fossero troppo alti e quindi troppo profittevoli, ci sarebbero altri produttori che si immetterebbero nel mercato e venderebbero a un prezzo migliore, togliendo clienti a chi pratica il sovraprezzo e costringendolo pertanto ad abbassarlo.
È una bella descrizione, bisogna ammetterlo, ma regge soltanto finchè parliamo di piccoli artigiani sulla piazza del mercato (ricordiamoci che il mercato è sempre esistito come forma di distribuzione delle risorse, secondo Polanyi) e non è in grado di spiegare l’avanzata dei monopoli, limite che già Adam Smith stesso paventava della sua teoria e che lo portava a dire che in alcuni casi l’intervento della Stato, forse, era necessario.
L’altro contributo importante è quello appunto relativo allo studio della divisione del processo lavorativo. Adam Smith non era uno sciocco e si rendeva ben conto di vivere in un’epoca di cambiamenti. Capì dunque che il successo della nascente manifattura industriale era dovuto alla specializzazione del processo produttivo. Per cui un prodotto che necessita di varie fasi di lavorazione, viene scomposto in queste fasi e ognuna assegnata a un operaio diverso. Il risultato è che nello stesso periodo temporale e con lo stesso numero di lavoratori, il numero delle merci prodotte cresce sensibilmente. Un po’ grazie alla specializzazione degli operai, e un po’ grazie al fatto che ogni operazione di lavoro viene resa più semplice. Quindi quando Adam Smith vede nel lavoro l’origine del valore, in realtà parla della divisione del processo produttivo e sostanzialmente dello sviluppo della produzione capitalista.
Prova poi a collegare questo tipo di produzione con la formazione dei prezzi, ma non ci riuscirà mai chiaramente.
Marx, invece, descriverà questo processo di specializzazione della produzione legandolo non alla formazione dei prezzi, ma proprio allo sviluppo storico del capitalismo tramite il cosidetto processo di sussunzione del processo produttivo. Cioè in una prima fase si ha l’accentramento della produzione nelle mani del singolo capitalista, seppure identico nelle forme al modo di produzione precedente e artigianale (sussunzione formale dell’economia), e poi subentra l’organizzazione e la divisione del processo lavorativo stesso, ad opera del capitalista, in quei passaggi produttivi che descriveva Adam Smith (sussunzione reale dell’economia). Che è il modo in cui si realizza il passaggio dal modo di produzione precedente a quello capitalistico.
Possiamo dire comunque che con Adam Smith le basi della moderna teoria economica (e intendo proprio quella attuale) sono poste. Da un lato la concorrenza fra produttori, dall’altra la produttività (e quindi i costi) del processo produttivo stesso.

3 – Passiamo infine a David Ricardo.
Ricardo è l’esponente principale dell’economia classica e molte delle sue enunciazioni vengono tutt’ora insegnate come corrette. Molte sono state criticate, ma nonostante questo riscuotono tutt’ora grande successo.
Quanto alla teoria del valore, Ricardo compie un deciso passo in avanti, almeno a livello di proposizione. E afferma risolutamente che il valore di una merce dipende dalla quantità di lavoro necessario a produrla. Bisogna aspettare Marx perchè questa “quantità di lavoro” diventi “unità di tempo” e per capirne la formazione, ma la questione viene posta già in Ricardo.
Ci sono però dei problemi grossi nella teoria ricardiana, che sono rimasti e tali rimangono nell’economia classica. La cosa buffa è che l’economia accademica sa di questi problemi, ma continua in qualche modo ad ignorarli. Certo, è comprensibile che non si sia sposata la teoria marxista in contrapposizione all’economia classica, ma neanche Keynes che pure odia Ricardo con tutte le sue forze, è riuscito a scalfire significativamente il paradigma libero-scambista alla base del modello ricadiano.

David Ricardo innova e definisce la teoria economica sotto vari profili. I temi principali sono quello già citato della teoria del valore; il tema dei rendimenti decrescenti e dei conseguenti costi marginali crescenti e infine la teoria del vantaggio comparato a livello del commercio internazionale.
Partiamo dall’unica parte della teoria che è ancora in piedi, cioè da quella dei rendimenti decrescenti. Teoria complicatissima per altro.
Di premessa è da tenere presente che Ricardo espone la sua analisi spiegando che esistono 3 classi e 3 fonti di reddito: quella dei proprietari terrieri – che percepiscono una rendita; quella dei capitalisti – che percepiscono il profitto e quella dei proletari – che percepiscono il salario.
Proprio così dice: esistono 3 classi.
Perchè compia una distinzione fra proprietari terrieri e capitalisti non è chiaro, se non perchè aveva simpatie per i capitalisti e i profitti e disprezzava i proprietari terrieri e la rendita (pur essendo lui stesso un latifondista). Quindi elabora la sua teoria sui rendimenti decrescenti, riferita esclusivamente al rendimento della terra, anche se è poi stata estesa successivamente a tutti i settori di produzione.
La teoria dei rendimenti decrescenti recita così: se un fattore della produzione viene progressivamente aumentato, mentre gli altri rimangono uguali, il tasso d’incremento del prodotto finito è via via minore.

Per spiegare, facciamo l’esempio della coltivazione delle carote.
Se io ho un campo di carote e ci metto a lavorare un contadino quello mi produce 10 carote, se ce ne metto a lavorare 2, me ne producono 20, ma se continuo ad assumere contadini oltre un certo limite (che in economia chiamano “margine”) non mi produrrano più 10 carote a testa, perchè il campo sarà ormai tutto coltivato, quindi magari me ne produrrano 25, e se ne aggiungo ancora uno forse arriverò a 26, cioè il rendimento, in relazione alla forza lavoro applicata, è decrescente. E se voglio aumentare il rendimento dovrò anche aumentare i campi da coltivare.
Apriamo anche una parentesi sul tema della rendita, concetto che forse potrebbe tornarci utile. Secondo Ricardo la rendita, che è la parte di torta che si accaparrano i proprietari terrieri, è dovuta alla differenza che si genera fra terreni più produttivi e terreni meno produttivi. Aumentando infatti la domanda e crescendo il bisogno di produrre, si andrebbero a coltivare anche i campi meno produttivi. Perciò i proprietari dei campi più produttivi potrebbero disporre di una maggiore quantità di prodotti da vendere, ma potrebbero tenere il prezzo al livello di quelli che producono in campi meno produttivi, e certamente lo farebbero. Il sovrappiù così generato sarebbe la rendita.
L’esempio delle carote non è del tutto casuale, dato che Ricardo era proprio del rendimento della terra che parlava. In termini generali significa che via via che cresce la domanda di cibo, si andranno a coltivare anche terreni meno produttivi, che di partenza non producono le 10 carote che produce un terreno di buona qualità, ma solo 9. Cosicchè la teoria dei rendimenti decrescenti spiega perchè uno stesso prodotto riesca a stare sul mercato anche quando altri capitalisti/proprietari terrieri producono in maniera più efficiente, ma qui si aprirebbe al tema della domanda e andremmo fuori strada. Fatto sta, che una delle componenti del prezzo deriva proprio dal rendimento decrescente.
Introduciamo, per completezza di esposizione, anche la questione riflessa, cioè quella dei costi crescenti, o meglio dei costi marginali crescenti. Che è lo stesso ragionamento della rendita marginale decrescente, ma visto in termini di costo. La teoria dei costi marginali crescenti afferma che “per produrre una quantità in più del prodotto” – per esempio 1 carota – si sostengono costi che non crescono proporzionalmente, ma da un certo punto in poi, crescono in maniera più che proporzionale.
Ne approfittiamo dunque per aggiustare in questa sede la proposizione sull’offerta descritta nell’articolo di aprile. So che sto complicando molto il discorso, ma vi assicuro che si gira intorno, ma è sempre lo stesso discorso.
Dunque mentre abbiamo detto la domanda segue la legge che allo scendere del prezzo, la quantità domandata aumenta5. Quella di offerta funziona all’inverso, all’aumentare della quantità prodotta il prezzo di vendita aumenta6. Infatti l’andamento della curva di offerta è legato alla teoria dei costi crescenti che servono per produrre un’unità aggiuntiva di prodotto. Per questo nessuno pagherà mai una carota in più al costo del salario richiesto dall’ultimo operaio per produrla. Perchè vorrebbe dire pagare per una carota l’equivalente di un mese di stipendio di un operaio. Cosa un po’ eccessiva.
Precisiamo qui che stiamo parlando molto in astratto. Oggigiorno, infatti, l’esempio del campo di carote non è più così illuminante e con l’avvento della rivoluzione industriale le cose si sono un po’ complicate e la teoria dei costi crescenti è un po’ entrata in crisi. Ma senza macchine, le cose stanno più o meno così come vi ho detto7.
Questa riflessione sui rendimenti decrescenti è stata in seguito riscoperta e ampliata ed applicata anche alla grande industria. Si capisce bene già da questo esempio posto poco sopra, che se viene riferita al problema alimentare può assumere ancora aspetti attuali importanti e sicuramente ha un portato storico importante, in quanto può spiegare l’andamento delle crisi alimentari (cosa che in realtà a Ricardo interessava relativamente, lui invece voleva “sconfiggere la rendita”). Già spostarla o riferirla alla grande industria però significa perdere qualche cosa dei suoi aspetti originari a favore di una visione basata sui rendimenti decrescenti della produzione tout-court e quindi sui correlati costi crescenti.

Fatto questo riassunto sui rendimenti decrescenti, torniamo dunque alla teoria del valore di Ricardo.
Come abbiamo detto per Ricardo il valore di scambio di una merce dipende dalla quantità di lavoro necessaria a produrlo. Non credo che Ricardo si spinga poi molto avanti nell’analisi di questa relazione fra lavoro e merce, infatti si occupa principalmente di definire come il salario incida sul prezzo finale del prodotto.
All’epoca, avevano una teoria veramente bizzara per definire da che cosa dipendessero i salari, che era la teoria del fondo-salari.
Praticamente dicevano che i salari dipendono da un rapporto fra il totale del capitale accumulato diviso il numero dei lavoratori8. Come se i capitalisti il loro profitto lo accumulassero tutto per “redistrubuirlo” o “investirlo” nell’assunzione di manodopera.
Se basi una teoria su una bugia così manifesta, poi è chiaro che non torna niente della tua teoria. Allora diventa plausibile qualunque affermazione, anche che il profitto della classe dei capitalisti sia una cosa a vantaggio dei lavoratori, che la loro affermazione trascini con se, goccia a goccia, piano piano, anche la classe lavoratrice.
Non subito, chiaramente, ma certamente nel lungo periodo.
E vedendo che le sue previsioni di un futuro radioso per l’umanità non si realizzavano a Ricardo non restò altro da fare che: 1- rammaricarsi coi capitalisti perchè tenevano bassi i salari; 2- accettare una teoria pessimista dello sviluppo della popolazione, cioè quella malthussiana, che ammetteva che se anche si fosse andati ad alzare i salari, alla fine si sarebbe giunti lo stesso a una situazione di miseria economica.

Per spiegare questo passaggio dobbiamo rifarci al contributo di Malthus.
Ora, non dico una bugia, c’è proprio scritto nei libri di storia del pensiero economico: Malthus e Ricardo erano amici, si scrivevano lunghe lettere di teoria economica ed erano insieme nella commissione parlamentare che doveva studiare la legge sul grano9.
La teoria malthussiana della popolazione è nota, importante e difficile da contrastare. Da un’analisi storica, magari non accurata come potremmo fare oggi, ma comunque sensata, Malthus aveva capito che c’era una costante nello sviluppo della popolazione.
Ad un progresso delle tecniche agricole, seguiva prima una grande espansione demografica e subito dopo, inevitabilmente, una contrazione drastica della popolazione che si poteva manifestare in varie forme: carestie; epidemie; ecc… Perchè, secondo lui, lo sviluppo agricolo cresceva in maniera aritmetica (1-2-3-4) mentre la popolazione cresceva in maniera geometrica (1-2-4-8).
Esagerava.
Ma non tantissimo.
E il problema della sovrappopolazione in relazione alle risorse disponibili è stato, e rimane reale. Chiaro, anche in campo agricolo è arrivata la rivoluzione industriale, che ha scompaginato i calcoli malthussiani, in più la relazione da lui indicata era veramente troppo pessimista, bigotta e retrograda. Secondo lui, in sintesi, come si alzano un minimo le condizioni alimentari, le persone, e in particolar modo i proletari, iniziano a riprodursi e procreare, e non facendo un figlio o due, ma proprio aumentando il numero di figli in maniera sproporzionata via via che cresce la disponibilità di cibo. Credo che sia stato il primo caso di fervente cristiano che si è messo a proclamare la liberalizzazione degli anticocezionali e dell’aborto per il bene dell’umanità.
Un pazzo scappato di casa.
Uno dei miei preferiti.

Comunque secondo la legge malthussiana, nell’interpretazione datane da Ricardo, sarebbe accaduto che se nel breve periodo si fossero pagati più alti salari, la popolazione sarebbe cresciuta, quindi il denominatore del fondo-salari sarebbe aumentato e i salari sarebbero inevitabilmente ridiscesi.
Portando in basso anche il prezzo della merce e il suo valore10
Insomma, un valore ben strano. Non c’è che dire.

Andiamo a dare un’occhiata all’ultima parte della teoria di Ricardo, quella sugli scambi internazionali.
Anche questa parte della teoria ricardiana viene cosiderata ancora valida, seppure gli siano state mosse critiche feroci che dovrebbero far dubitare dell’ostinatezza con cui viene portata come dimostrazione scientifica e inappellabile dei benefici del libero commercio. È una teoria difficilissima e quasi impossibile da sintetizzare. Si chiama “teoria del vantaggio comparato”.
Sostiene questo: nel commercio internazionale, cioè fra paesi diversi, se ogni stato si specializza in una produzione specifica e scambia i suoi prodotti specializzati con un altro stato, la somma dei beni prodotti e disponibili aumenta in ciascuno stato, rispetto alla situazione in cui ogni stato si produce tutti i beni di cui ha bisogno all’interno dei propri confini.
Sennonchè durante il periodo post-coloniale qualcuno iniziò a metterla in dubbio. Ci si accorse cioè che la specializzazione promossa e che si era effettivamente sviluppata non andava nella direzione di accrescere il benessere degli stati in maniera perfettamente proporzionale.
Certo c’è un vantaggio comparato, ma comparato a favore di chi?
In sintesi alcuni stati avevano un enorme vantaggio comparato e altri solo un misero vantaggio comparato. E gli stati che lo avevano enorme erano i paesi imperialisti e quelli che lo avevano misero erano i paesi coloniali.
Ci sono due forme (o molte di più, ma sempre in un’unica direzione) che si sono affermate nel commercio internazionale: la prima è quella di promuovere nei paesi coloniali la specializzazione nella produzione di materie prime (agricoltura, minerali e fonti energetiche), che poi venivano esportate nei paesi imperialisti i quali in cambio esportavano prodotti finiti nei primi, in maniera sicuramente insufficiente, e creando un rapporto di dipendenza economica difficile da mettere in discussione.
La seconda è quella di delocalizzare anche la produzione finita, trasferendo parti di imprese intere e però portandosi via i profitti, quindi azzerando la possibilità di avviare il processo di sviluppo industriale innervato alla società che nei paesi occidentali/imperialisti abbiamo e che è stato la chiave del nostro progresso (o possibilità molto ridotte, che passano cioè solo per gli stipendi degli operai).
Vi lascio pertanto con la dimostrazione critica del vantaggio comparato ricardiano, caso mai dovreste trovarvi di fronte un sostenitore del libero mercato internazionale, può tornarvi utile.

Ci sono due Stati: Portogallo ed Inghilterra. I quali producono due prodotti, vino e tela, nelle proporzione indicate nelle tabelle sottostanti.
Ci sono due ipotesi e due scenari che valutano il commercio internazionale.
L’ipotesi 1 considera la situazione del vantaggio assoluto, già teorizzata da Adam Smith, in cui da un lato, il Portogallo, si specializza nella produzione del vino, cioè là dove ha un vantaggio evidente di produzione rispetto all’altro paese, mentre l’Inghilterra in tela. Il risultato è che spostando i lavoratori al settore dove c’è il vantaggio, la produzione totale cresce, per cui è possibile commerciare.
La seconda ipotesi è quella ricardiana del vantaggio comparato, la quale afferma, in maniera apertamente coloniale la situazione che avviene nelle tabelle 2a e 2b. Si ipotizza che in Inghilterra ci sia stato un forte incremento delle forze produttive per cui la produzione di entrambi i beni è triplicata. Ora, dunque, l’Inghilterra ha un vantaggio assoluto in entrambe le merci prodotte. Esiste ancora un vantaggio a commerciare? Per verificarlo occorre in questo caso uguagliare le forze lavoro in campo. E siccome il rapporto più basso è quello del Portogallo, in cui servono 8 litri di vino per produrre 1 metro di tela, poniamo il caso che si moltiplichi la forza lavoro per 8.
Dopo la specializzazione avremo la situazione per cui l’Inghilterra si trova in una condizione ottimale per commerciare. Dunque cosa fa? Decide di esportare 24 metri di tela. Questi 24 metri di tela, in Portogallo liberano altrettanta forza lavoro, che può così andare a specializzarsi nella produzione di vino. Senza il commercio internazionale i 24 operai in questione si sarebbero equamente divisi fra l’industria della tela e quella del vino. E in particolare in quella del vino avrebbero prodotto 96 litri di vino, producendone il doppio con la specializzazione possono dunque esportare in Inghilterra i 96 restanti. Il risultato è indicato nella tabella 2b.
In questo caso la produzione mondiale di vino e tela è aumentata, ma la sproporzione – e si tratta di una sproporzione grossa – si realizza nella forza lavoro impiegata dai due paesi per raggiungere una situazione di equilibrio, che in realtà è a solo vantaggio dell’Inghilterra. Ricardo pensava di aver scoperto i vantaggi del commercio internazionale in ogni caso in cui si dà un vantaggio comparato e invece aveva spiegato solo le catene dello sfruttamento coloniale. Infatti risulta abbastanza evidente che quello che l’Inghilterra ottiene nei confronti del Portogallo è di usare i lavoratori del Portogallo per produrre vino a un costo inferiore di quanto sarebbe nel suo paese.

È sufficiente questa dimostrazione per dire che bisognerebbe bloccare il commercio internazionale in ogni caso in cui non esista un vantaggio assoluto?
Bo, non ne ho idea! Data la vastità di motivi per cui si commercia, non tutti strettamente economici. E daltronde non so come si potrebbe fare a verificare dov’è che esiste un vantaggio assoluto, piuttosto che uno comparato. Di fatto la storia del commercio internazionale ha più un risvolto empirico che teorico. Seppure è la teoria che nella storia ha fatto aprire e chiudere le frontiere degli Stati, sposare o rigettare posizioni protezionistiche, dubito che sia facilissimo stabilire a priori se in certi rami esiste un vantaggio assoluto a commerciare o sia preferibile chiudere le frontiere. È però forse utile a capire a posteriori che se il commercio non arricchisce il paese in questione, allora forse si è incappati nell’inghippo del vantaggio comparato e pertanto valutare se esistono ragioni non economiche sufficienti per continuare il commercio.

Postfazione. Questo articolo, quelli precedenti e quelli che seguiranno trattano di economia. Non abbiamo una linea determinata nel trattare la questione economica e anche se l’autrice è una sedicente comunista, questo non assicura che quanto viene scritto sia corretto dal punto di vista dell’analisi.
Ci possono essere degli errori. Sicuramente ci saranno semplificazioni e difficilmente riuscirò ad essere esaustiva. Il motivo è che pur amando la materia economica, sono una semplice autodidatta: non ho luoghi e tempi di confronto con altri appassionati del genere letterario in questione e onestamente trovo un po’ difficili gli argomenti, sia da studiare, tanto più nello spiegarli.
Insomma questi appunti, da quelli più didascalici a quelli più arditi, sono appunti di un viaggio che mira a scoprire i meccanismi dell’organizzazione economica della nostra società e a dare un orientamento per l’azione pratica.

 

Bibliografia:
A. Smith – La ricchezza delle nazioni
Fineschi – Marx
Gattei – Per conoscere il nostro imperialismo
Keynes – Teoria generale dell’occupazione, ecc..
Landreth & Colander – Storia del pensiero economico
Malthuss – Saggio sulla popolazione
Marx – Il capitale, libro I
Polany – La grande trasformazione
Ricardo – Teoria generale dell’imposta, ecc…
Sloman – elementi di economia politica.

 

1Unione doganale; regole sulla concorrenza del mercato interno; politica monetaria; politica commerciale comune. Il quinto invece è sulla conservazione biologica del mare (la pesca, ecc..)

2Nel marxismo le forze produttive sono le capacità produttive espresse dalla società in un dato momento storico, cioè tutto, dal numero dei lavoratori, alle conoscenze tecniche e scientifiche, alle infrastrutture. Mentre i rapporti di produzione descrivono la relazione in cui si trovano le forze produttive, in particolare, con riguardo al possesso dei mezzi di produzione. Nel capitalismo il rapporto di produzione principale è la proprietà privata dei mezzi di produzione da parte di una singola classe, per cui si formano capitalisti e proletari.

3Attenzione però ad esaltare facilmente il modello basato sulla reciprocità, il quale non è esente da problematiche. Se anche solitamente non è fonte di problematiche particolari, molti autori hanno comunque sottolineato svariati problemi che potrebbero svilupparsi in un modello economico e sociale basato sulla reciprocità. Il dono porta con sé un legame fra il donatore e il beneficiario basato sulla dipendenza e la sottomissione. Dire che non esiste alcun corrispettivo economico, non equivale infatti a dire che non esiste alcun corrispettivo. Molti modelli di malavita, per esempio, si basano su una retorica della reciprocità.

4Si tratta delle grandi trasformazioni che si compiono (o che il capitalismo compie) nel modo di intendere la terra, il denaro (cioè la moneta) e il lavoro. Che da essere categorie, attività o oggetti d’uso quotidiano si trasformano in merci, trascinando l’intero mondo con sé in quello che potremmo anche chiamare, un nuovo paradigma.

5Sull’analisi della domanda torneremo ancora.

6 Nell’articolo di aprile avevamo detto che questo era dovuto al fatto che altri produttori si sarebbero aggiunti a produre a un prezzo tanto conveniente-profittevole, cosa vera, ma a quali costi?

7Se volete, ci sono anche dei grafici che spiegano tutti questi passaggi, ma ve li risparmio se non del tutto necessari.

8Salario reale = fondo-salari / forza lavoro, cioè salario reale = capitale accumulato / forza lavoro

9Tralascio qui la storia della legge sul grano, anche se storicamente è stata importante.

10Preciso qui che non conosco così bene Ricardo e riporto solo quanto trovato sui libri di economia.

 

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