La giornata tipo di una disperata anima metropolitana

Luana viveva le sue giornate pigramente, guardandole svolgersi una dopo l’altra.

Si era costruita la sua piccola tana, nell’appartamentino nella periferia dove viveva, con la vecchia al piano di sotto che teneva la tv a volume altissimo. Luana invece come finestra sul mondo aveva solo una radio sgangherata che prendeva una decina di stazioni in tutto e qualche pagina internet che saltuariamente superava il controllo della censura – ai tempi di Luana, invadente e onnicomprensiva.

Ma non si preoccupava più di tanto perchè aveva libri in abbondanza e film.

Così Luana tutte le mattine si svegliava, si preparava il caffè e lo beveva guardando fuori dalla finestra. Dopo una mezz’oretta, andava in bagno si lavava, pettinava, vestiva e preparava le cose del giorno. Poi, con tutta calma usciva di casa e si dirigeva alla macchina. Guardando la sua periferia svegliarsi poco a poco. A volte dava un passaggio a delle persone che conosceva bene o meno bene, che vagavano per la periferia metropolitana, senza biglietto per i mezzi pubblici. Solitamente si impietosiva quando era freddo o pioveva. In macchina facevano sempre gli stessi discorsi: “il Rei ti è arrivato? L’affitto, la residenza? La commissione che ti ha detto? L’italiano ancora non lo impari? No, lavoro non ce n’è. Non ci andare a lavorare dai cinesi quelli ti sfruttano. Sfruttare, lo capisci? Ti porto da un amico mio ti può aiutare. Si è amico degli africani, ma che ti importa? Sai c’è anche un sindacato, ti potrebbe aiutare… si, ho capito: non ti vuoi immischiare, non ti vuoi esporre. Va bene siamo arrivati. Pensaci. No, lavoro non ce n’è.”

Solitamente però era sola in macchina, allora sentiva alla radio le notizie o la sua musica preferita, a seconda di come era d’umore.

Se non era a dieta si fermava a fare colazione nel suo bar preferito, lungo la strada.

Poi correva veloce con la macchina verso la stazione, parcheggiava col permesso speciale dell’abbonamento del treno e si avviava per raggiungere il binario suo. Era di una puntualità allarmante, mai perdeva il treno e anche i treni erano molto puntuali, di solito. Guardava i treni, le ragazze e i signori che facevano le pulizie sul treno e alla stazione. Ce n’era una, addetta alla pulizia dei vagoni, che tutte le mattine era seduta sulla panchina, aspettando che il suo luogo di lavoro l’andasse a prendere direttamente in stazione, e leggeva sempre. Luana la guardava, ma non la poteva raggiungere.

Quando arrivava il treno contava i vagoni: 5 o 6, quelli del suo treno, coi sedili stretti stretti e fatto a due piani. Sul treno aveva contato ci stavano circa 120 persone per vagone, quindi 700 posti almeno che erano tutti pieni dalle 7.00 del mattino quando partiva il primo diretto per il Centro fino alle 10.00 circa. 3 treni all’ora, più il diretto della mattina alle 7.00. faceva 4 ore x 3 treni x 700 posti = 8400 persone, più tutti quelli che scendevano e salivano nelle stazioni di mezzo, secondo lei faceva almeno il doppio. 16000 pendolari, che forse salivano a 25.000 con quelli che lavoravano solo il pomeriggio. Tutti i giorni. Non tanti a dire il vero.

Quando aveva finito di contare la gente con cui viaggiava era già arrivata al Centro e saliva sulla metropolitana. E qui i conti si complicavano perchè la metro è più piccola di un treno, ha meno posti a sedere, ma passa molto più spesso. Si distraeva, poi a valutare quanti erano i turisti che ci salivano e insomma non riusciva mai a fare i conti che già era a lavoro.

Luana aveva trovato un lavoro bellissimo: poteva fare quello che voleva! Entrava e il capo gli cedeva la sua sedia e lei poteva starsene con le mani in mano tutto il giorno a chiacchierare, oppure fissare appuntamenti con i suoi clienti. Poteva aiutarli o poteva anche mandarli via se era di cattivo umore. Poteva, ma lei preferiva di gran lunga lavorare.

Peccato che il suo capo fosse povero, altrimenti ci avrebbe passato tutto la vita dentro quell’ufficio.

Ma forse non era poi così povero.

Se non c’era il capo si organizzava il lavoro da fare come gli pareva, metteva tutte le cose a posto. Poi il giorno dopo, lui tornava e gli metteva di nuovo tutto in disordine.

Fra i suoi clienti c’erano tanti stranieri. Alcuni si chiamavano Lenin o Guevara. E il capo glieli passava sempre perchè diceva che lui avrebbe aiutato quelli che si chiamavano Bakunin, ma nessuno mai si chiamava così.

Se non c’era il capo poteva restarsene a lavorare una mezz’ora o una quarantina di minuti in più, non dicendo niente a nessuno, se invece c’era, dieci minuti prima che scadesse l’orario pattuito, lui iniziava a dirle “Vai via! Vai via!” anche se erano nel mezzo di un lavoro urgente o di un problema grave e a lei toccava andarsene, sennò lui gli contava ogni minuto di straordinario e poi glielo pagava come straordinario e lei sapeva che la sua ditta era povera. Allora scappava veloce e cercava di prendere il treno in tempo.

Il treno del rientro, la sera tardi, era ancora più pieno di quello della mattina e a volte le toccava rimanere in piedi. Ma, se arrivava presto al binario, prima di tutti gli altri e saliva veloce sul vagone trovava i posti a sedere che preferiva… il dilemma era: mi siedo su quelli singoli, così che nessuno mi stia seduto accanto o su quelli a quattro così che possa vedere che fa il mio compagno di viaggio. Sciolto il dilemma si sedeva. Tirava fuori un libro e si metteva a leggere.

Tornata nella sua piccola città di periferia e mosso il primo passo fuori dalla stazione, tutti i giorni il destino le faceva un bellissimo regalo, dicendole: “sei libera, puoi fare quello che ti pare!”. Era in quel momento che cominciava quella che Luana considerava la sua vita vera… chiudeva gli occhi, respirava in silenzio 10 secondi e poi via…

Scappava dal suo fidanzato che l’aspettava, per raccontargli tutto quello che era successo il giorno a lavoro…

Si era lasciata col suo fidanzato, allora se ne andava in un quartierino con l’aria limpida e tersa dove il municipio aveva regalato a dei cittadini dei piccoli appezzamenti di terreno perchè potessero provare l’ebrezza del veder crescere le verdure (un orto)…. scavava scavava e a volte raccoglieva una patata, altre volte una carota. Guardava a che punto erano i pomodori e se erano venuti su diritti. Raccoglieva le zucchine prima che crescessero troppo.

Poi col suo piccolo raccolto saliva in macchina, metteva le verdure in una busta termica e partiva per andare dai suoi o a trovare i suoi amici o per tornare a casa.

I suoi vivevano in un appartamentino di perfieria ormai da molti anni, ma provenivano da famiglie contadine. Quando era bambina Luana veniva accompagnata tutti i fine settimana nella fattoria della nonna in aperta campagna. Qui passava due giorni felici, insieme alla dozzina di zii che possedeva e agli innumerevoli cuginetti. Giocava nei campi col grano alto, più alto di lei e lei si nascondeva dentro, fra i filari, camminando camminando fino a che non arriva al fiume. Guardava il fiume scorrere e pensava “questo è il mio fiume, scorre sulla mia proprietà, sono proprietaria di un fiume!” (da grande scoprì che non era vero e che le leggi dicevano che i fiumi sono tutti dello Stato e non possono essere proprietà privata, il che la induceva a pensieri filosofici…). Dopo i dieci minuti di contemplazione, decideva che era stata nascosta abbastanza e di tornarsene verso la villa grande al centro della proprietà. Prendeva il sentiero per farlo. Passava fra gli alberi di frutta. A parte i querci che facevano le ghiande per i maiali, tutto il resto era commestibile e se era stagione si arrampicava sull’albero, raccoglieva la frutta e se la mangiava subito. Poi andava a guardare le galline nel pollaio. Animali insulsi, stavano sempre a litigare fra loro. Ormai arrivata alle stalle della fattoria entrava: chiacchierava coi conigli rinchiusi in una gabbietta e andava a salutare le due pecore nella stalla. In gran segreto, senza farsi vedere da nessuno, poiché era proibito, andava dietro la stalla a guardare il porcile col maiale che si ingrassava nel fango. Non capiva Luana, allora, che tutte quelle bestie erano tenute lì solo per essere macellate e che la sua famiglia non amava nessuna di quelle creature. Lei era una bambina e parlava con ognuna di loro. Quando arrivava al capanno, col suo bel trattore blu e arancione parcheggiato dentro, ci si arrampicava sopra. Si chiedeva quand’è che l’avrebbero messo in moto, che a lei piaceva salire sul trattore in movimento, si metteva a cavalcioni sulle gambe di uno zio e prendeva il manubrio fra le mani e faceva finta guidare. Ma il tempo passava, le stalle si svuotavano e ogni settimana ci trovava sempre meno animali e anche il trattore ormai lo mettevan poco in movimento.

Arrivata alla casa, rassegnata ormai a dover salutare tutti gli zii, li trovava tutti radunati insieme e bere, schiacciare noccioline sul muretto e chiacchierare. Come arrivava iniziavano a farle mille battute e prese in giro. La strattonavano, la pizzicavano e la prendevano in giro sul se le erano cresciute le tette o meno. Lei correva a nascondersi dietro le gambe del suo babbo, che si chinava, la prendeva in braccio, le diceva qualcosa e poi la rispediva all’avventura.

Passava il pomeriggio giocando coi cugini o in cucina con le zie. A volte la nonna la prendeva, la caricava sul seggiolino della bicicletta e la portava in chiesa, in gran segreto perchè anche quella era una cosa proibita. Luana infatti era stata battezzata di nascosto dalla nonna, perchè i genitori non volevano.

Da grande sentì raccontare la storia della liberazione di quel gruppo di case in fondo alla campagna. Dove un cellula comunista aveva preso il potere e si diceva che proibiva alla gente di andare a messa. I comunisti venivano descritti in maniera terribile: persone che non lasciavano la libertà di esprimersi. Per fortuna venne il 25 aprile anche in quell’angolo di mondo dimenticato da Dio e i suoi nonni poterono tornare a frequentare le omelie del prete.

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