Ben diritto vo per la mia via*

L. Hai esagerato?
N. Scusa. Ho bevuto troppo.
L. Fa niente, topo. La prossima volta andrà meglio. Lo dice anche la tv, no?
N. Ho le allucinazioni.
L. Anch’io, non ti preoccupare.
N. Se le abbiamo in due, non è strano? Se in due vediamo cose che non dovrebbero essere vere, forse invece lo sono.
L. Solo se vediamo le stesse cose.
N. Tu che vedi? Come ti senti?
L. Sento che stasera mi sbronzo alla grande e da sola! Voglio affogare nel vino o quel che è, purchè con alcol. Meglio il vino comunque.
Non so parlare. Non ci riesco, non si capisce mai quello che voglio dire, e lo sai perchè? Perchè neanch’io so quello che voglio dire. A volte parlo solo per non venire ignorata, per far vedere che ci sono.
N. Ti capisco.
L. Davvero?
N. Se ti dico così.
L. E tu come stai?
N. Tu lo sai, a me piace dare ottimi consigli agli altri e per me fare come se tutto fosse sempre uguale. Questo si che mi piace. Ma se penso a me stesso i bilanci sono sempre peggio che sconfortanti.
L. Ah, e perchè? Che ti è successo?
N. Una volta mi hanno dimenticato su un’isola deserta.
L. Come?
N. E’ successo sul serio sai? C’era un aereo che volava, carico di ammennicoli. Trasportava solo cianfrusaglie. E’ precipitato e mi sono trovato su un’isola deserta.
L. Col covid non succederebbe…
N. Non scherzare, è una metafora!
L. Scusa, dicevi?
N. L’aereo è precipitato. Non so neanch’io come ho fatto a salvarmi. Sono un sopravvisuto. Sai, come i tanti che hanno attraversato il ‘900.
L. Infatti.
N. Il mare, sempre generoso, mi ha portato in salvo su un’isola nel mezzo del pacifico, protetta da una barriera corallina.
L. Col cambiamento climatico non succederebbe…
N. Allora?
L. Scusa, continua.
N. Era una bella isola, a dimensione d’uomo, non più grande del parco che abbiamo dietro casa nostra. Avrei potuto viverci per decenni se non mi fossi salvato da solo e sai perchè?
L. Perchè?
N. Perchè si erano dimenticati di me. L’aereo è precipitato su una rotta nota, ma erano tutti impegnati in cose di nessuna importanza. Non hanno neanche provato a salvarmi.
Mi sono dovuto salvare da solo. Usando intelligenza e caparbietà. Nessuno mi ha aiutato.
Quando sono tornato a terra l’ho letto nei loro occhi: avrebbero preferito non rivedermi mai più!
L. E’ una metafora angosciante.
N. E’ quello che mi è successo.
L. Io sono contenta di vederti.
N. Si, tu ti salvi perchè non c’eri. Ma se mi avessi conosciuto bene avresti voluto dimenticarmi anche tu.
L. Te lo dicevo io: è il momento di sbronzarsi!
Tu bevi, vero?
N. Si.
L. Meglio allora, andremo d’accordo.
N. Infatti
L. Ma non sopravvivremo al 2000!
Ti ho mai raccontato la storia della via popolare di casa mia?
N. Non mi pare.
L. Non è una storia interessante, ti avviso. E’ solo una storia.
N. Non te la menare, spara!
L. Insomma, sai che ci sono dei comuni che hanno istituito delle vie fittizie per i senza fissa dimora?
N. Si
L. Ecco, la mia città ha una via per i senza fissa dimora, anche se il comune richiede delle regole assurde per farci iscrivere la gente.
E’ una via fittizia che non si trova nello stradario.
La nostra è intitolata ai due più famosi ubriaconi della mia città.
Cioè, a dire il vero solo a lui. Ma lui senza lei sarebbe morto senzatetto.
N. Eh… mi piace quando diventi romantica!
L. Si si… come no.

 

*è il verso più noto del poeta senzatetto, uomo che notoriamente aveva la camminata sbilenca degli ubriachi

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Luana sui monti

Luana si era trasferita. Un giorno, era ancora comunista allora, aveva trovato un tesoro (trattavasi di una collezione di monete pregiate) fra le mattonelle disconnesse del suo appartamento e così aveva deciso di usare i soldi guadagnati, come se fossero stati quelli di una lotteria, per cambiare vita. E si era trasferita.
Aveva abbandonato il suo appartamento nella periferia metropolitana e si era comprata una casetta sugli appennini.
Stava in una bella posizione in cima ad una valle e vedeva la città piccolina piccolina in lontananza.
C’era il vento tutte le sere che si infilava fra le persiane ben serrate e creava tutte le notti dei concerti nuovi, ma sempre malinconici.
A Luana andava a genio vivere in montagna.

Aveva infatti litigato con tutti giù in città e non aveva più amici.
A lei piaceva però vivere da sola e senza impegni.
Non aveva un lavoro a cui dover pensare; non aveva amici da dover consolare; nessun nemico da combattere; non una famiglia da badare; non aveva impegni che la costringessero a viaggiare; non c’era internet che la legasse al presente; non un ragazzo da cui dover tornare.

Che cosa facesse però Luana in quelle giornate solitarie è un segreto che lei teneva solo per sè e neanche per il più grande tesoro del mondo lo avrebbe rivelato a qualcuno.
D’altronde per questo aveva scelto di star da sola, per quel tempo solo suo.
E non aveva nessuno con cui doversi scusare!

 

 

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A spasso con Gluck

Buongiorno.

Click. Tun tun tun – Tun tun tun (sveglia che suona).

Caffè? C’è? non c’è? Facciamolo.
Che ore sono?
C’è tempo.
Oggi, giornata? Lunga. Breve.
Lunga. E’ quasi sempre lunga.
Via partiamo.

Il freddo e la stazione. Non essere sempre negativa. E’ lavoro e sei fuori di casa. Giusto. Bello.
Ciuf ciuf
Stiiik
Si parte! Di nuovo? Io parto tutte le volte.
Ciuf Ciuf.
15 minuti non è un vero viaggio.
No, infatti. Poco tempo.

Posso?
Cosa?
Meglio di no.

Ciik, apri il cancello, chiudi il cancello. Ma siamo sicuri che posso entrare?
Hai un tesserino, evidentemente puoi.
Infatti.
Timbro. Chi c’è oggi?
Non importa. Raccontagli della macchina, è divertente!
Che dicono?
Sempre le solite cose: passeggiate, verdure e pensione.

Click. Vroom.
Via funziona.
Che hai da fare? Niente. Non c’è mai niente da fare.
Fai inchiesta.
Statistiche, statistiche.
Si ma che statistica è? E tutti quelli che non controllo?
E poi sai com’è? Qui lavorano tutti in due o tre aziende. Ma com’è possibile?
Dove sono le 50.000 aziende? Tutte in nero?
Bo.
Non ti interrogare. E’ un pregiudizio il tuo.
Vero.
Che ore sono?
Ora di pausa, prima che entrino gli altri.
Scendiamo.
Sempre i soliti.
Bla bla bla. Il covid non esite. Guarda che sbagli!
Uff…
Si torna su. Meno 2 ore.
Casini, lettere, nervosismo.
Novità! Novità!
Ma che c’è scritto?
Bo… lo scoprirai fra 2 o 3 mesi. Forse.

Sclang! Bang! Togli la cera metti la cera! Oh mai una volta che funzioni ‘sta stampante.

Driin. Mi può dire il suo nome?
Che è ti vuoi andare a lamentare?

Che ore sono?
Caffè! In compagnia! Eh, ma non funziona niente. Non ti angosciare che non è colpa tua, passami tizio e caio che li faccio io.

Bla bla bla. Sempronio e Vitrulla stanno insieme.
Oh ma chi è Vitrulla? Dai, ma come quella coi capelli così e cosà.
Sarà… io non l’ho mai vista.

Si fa cosà e così. Clikki qui e là. Non ti preoccupare che questo lo faccio io.

Driiin… stavolta è la campanella!
Via. Fuggi veloce come il vento.

Ciuff ciuff… ci sei?
E dove vuoi che vada?

Opzioni ne abbiamo svariate: c’è da fare, chiamare e scrivere.
Ma una serata davanti alla tv, no?
A sgranocchiare patatine. Non se ne parla, tempo ne avremo!

Piacere di conoscerti. Ma chi sei?
Oddio! Aspetta, non tutto insieme… no, io sono stata solo comunista, del resto non mi importa.
Tu? Comunista?
Anche democratica però. Il PD bla bla bla, la sinistra bla bla bla, i servizi bla bla bla. Sempre la stessa storia.
Ma che storia è?
Falsa, chiaramente.
Vera? Bo…

Mi sento come quello della via Gluck
Ma chi era poi ‘sto Gluck?
Ah quello che ha fatto il socialismo italiano, ma pensa te!

Si rientra?
Era ora. Com’è andata?
Non ho fatto un cavolo! O ho sbagliato tutto.
Vabbè, dai. Domani si riprova.

*********

Giorni, giorni, giorni.

Sei fidanzata? No
Wow. Occhi che brillano.
Allora sei nelle condizioni migliori!
Oddio, è la prima volta che la vedo da questo punto di vista. E io che pensavo di essere sfigata.
Ma lui… mi invidia, sai?

 

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La Costituzione del 1948 R.I.P.

Verso il parlamentarismo elitario.

A pochi giorni dal voto referendario ripercorriamo la storia della nostra carta fondativa. Non ci interessano più di tanto i dibattiti che furono della costituente al riguardo, piuttosto raccontiamo quanto si può desumere dai libri di diritto e dai manuali di storia. E quanto si può apprendere sfogliando la Costituzione stessa.

Premessa indispensabile di questa breve dissertazione è che la Costituzione italiana fu la più bella del mondo, non perchè lo sia stata veramente, ma solo perchè è l’unica che conosciamo. Altra premessa è che la Costituzione è il frutto di un grande compromesso, quello fra le classi proprietarie e le classi proletarie, entrambe giunte all’appuntamento costituente abbastanza stremate dall’esperienza del fascismo.

Prima di definirsi nel testo del 1946-1948 il movimento costituente, in Italia come altrove, ha avuto una lunga tradizione alla spalle. Questo movimento si sviluppò, infatti, in Francia con la rivoluzione francese. Fu in questa nazione che venne stesa una delle prime costituzioni, la “dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, battuta sul tempo dalla Costituzione Americana che l’ha preceduta di poco. Comunque noi prendiamo a modello quella francese, sia perchè la Francia è la patria del cosiddetto “civil law”, sistema di diritto vigente in Europa (salva la Gran Bretagna) esportato per tutto il continente europeo dall’impero napoleonico e in cui fondamento del sistema di diritto è sempre e solo la legge scritta, in opposizione al “common law” (vigente negli USA e in Gran Bretagna) che invece si basa principalmente sull’interpretazione del diritto svolta ad opera dei giudici e delle corti e quindi sulla giurisprudenza; sia perchè la dichiarazione dei diritti del cittadino è stata il punto di partenza per tutte le altre costituzioni, più di quanto non lo sia stata quella americana.

Caratteristica del movimento costituente dell’origine era quella di voler creare un sistema sociale nuovo: repubblicano in prima battuta e democratico se possibile. Nella confusione della seconda metà dell’ottocento questo obiettivo non era ancora del tutto chiaro e molte costituzioni che furono stese in quel periodo, ad esempio lo Statuto Albertino del 1848 venivano considerate “costituzioni concesse” perchè comunque cercavano di definire un sistema sociale che restasse basato sulla monarchia.

Tutte le costituzioni concesse (salvo il caso della Gran Bretagna, che però è particolare perchè la costituzione “bill of right” più che concessa fu strappata dalla borghesia alleata con la nascente classe operaia) sono degenerate in dittature. L’Italia, la Spagna, la Germania e per certi aspetti anche la Russia (seppure per un percorso talmente tanto diverso che forse sarebbe sbagliato accostarlo agli altri). Qual era infatti il punto di rottura che queste costituzioni non potevano sanare? Da un punto di vista prettamente giuridico si tratta della titolarità del potere. Un Re o un Imperatore, per definizione, non hanno bisogno di un fondamento normativo per il proprio potere, perchè la titolarità di questo potere gli viene direttamente da Dio. Viceversa le repubbliche, non importa se democratiche o liberali, hanno invece necessità assoluta di un sistema di diritto fondativo che sancisca chiaramente e definitivamente che il potere deriva da un patto sociale liberamente accettato dalle parti e non possono tollerare che esista un potere sovrano nominato come tale per motivi mistici, pena la degenerazione totale e l’anarchia, come solitamente si dice, ma che in termini tecnici andrebbe invece chiamata anomia. (L’anarchismo è infatti un pensiero politico che nulla ha a che vedere con lo stato di incertezza assoluta che vige in una società in cui non sia definito stabilmente chi comanda, stato, invece, anomico per definizione – cfr. Durkheim che si è inventato questa parola per non dispiacere troppo ai suoi amici socialisti ottocenteschi).

Per questo motivo si dice che la nostra Costituzione non è stata “concessa”, ma “votata”, dai partecipanti ovviamente, che almeno fino alle elezioni del 1948 non rappresentavano proprio nessuno se non se stessi e gli interessi di cui pensavano di doversi fare portatori: interessi della classe operaia, della classe possidente e capitalista e del vaticano. I contadini, invece, non li ha rappresentati nessuno, per esempio. Le donne, un po’ meglio che qualche madre costituente ce l’abbiamo avuta.

Altre caratteristiche della Costituzione, oltre a quella di essere votata, sono quelle di: 1 – essere scritta, sia perchè gli articoli che la compongono sono stati raccolti in un libretto agile da sfogliare, sia perchè con questo termine ci si riferisce a un concetto che si oppone al principio della “costituzione di fatto” che non è solo un divertsoiment giuridico, ma dovrebbe servire a ricordare che tutti i principi con cui interpretare e gestire il sistema di diritto vadano per forza ricercati nel testo scritto e non si possano inventare di sana pianta. 2 – essere breve. Cioè la nostra Costituzione, che non è certo lunghissima componendosi di 139 articoli e XVIII disposizioni transitorie e finali, non contiene il dettaglio di tutte le norme che regolano la vita civile, politica, economica, giudiziaria ed amministrativa, ma solo i principi fondamentali. Non c’è scritto per esempio che è vietato l’omicidio. Ci sono solo le regole generali. Questo con due intenti: il primo di lasciare libertà ai poteri di stabilire le leggi vere e proprie, l’altro di rendere il testo il più possibile comprensibile e fruibile da tutti i cittadini della Repubblica. Provate a fare il paragone leggendo la nostra Costituzione e le due Costituzioni dell’UE (il TUE e il TFUE) e poi mi dite se non è una bellissima idea che una costituzione sia breve. 3 – ultima caratteristica è che la nostra costituzione è rigida. Ora fino a qualche anno fa un’interpretazione un po’ radicale avrebbe voluto dare il significato a questo termine che la Costituzione non fosse modificabile, purtroppo non è così. La Costituzione è modificabile ed è addirittura modificabile dai poteri governativi. Si dice che è rigida perchè, a differenza delle leggi ordinarie richiede un procedimento aggravato per modificarla. Non si possono votare le modifiche costituzionali come si votano le leggi.

Soffermiamoci su quest’ultimo aspetto perchè ci interessa. Le leggi ordinarie per essere votate devono essere approvate allo stesso modo dalle due camere. Che quando ero più piccola pensavo che proprio il parlamento tutto intero si mettesse lì a votare articolo per articolo ogni legge, prima una camera e poi l’altra. Poi invece ho scoperto che non è mai il parlamento che vota le leggi, ma sempre e solo le commissioni che ogni camera costituisce e che la legge viene sempre deposta a tutte e due le camere contemporanemante, così che le commissioni le discutono, le portano in parlamento per votarla tutta insieme – salvo emendamenti – poi si scambiano i testi e normalmente in un paio di passaggi la legge viene approvata.

Per le modifiche costituzionali invece il procedimento prevede che la modifica decisa debba essere approvata 4 volte alla stessa maniera (ogni camera due volte) e che fra un passaggio e l’altro delle camere debbano passare tre mesi. Quindi minimo un anno di discussione e se ci sono modifiche anche di più. La modifica è approvata a maggioranza assoluta dei componenti (cioè il 50% + 1, ma dei componenti delle camere, non dei presenti alle sedute com’è invece per le leggi ordinarie) e, attenzione, se viene approvata a maggioranza dei due terzi non si può indire referendum. Quindi chi dice che il 90% dei partiti ha votato questa riforma costituzionale, forse ha ragione, ma non sta certamente parlando del 66% dei parlamentari. Se la riforma non raggiunge i due terzi, un quinto dei parlamentari di una camera può richiedere l’indizione del referendum confermativo, che come tutti sappiamo si svolge senza quorum.

Se uno adesso prendesse in mano il testo della Costituzione, vedrebbe che è tutto pieno di note. Molti articoli hanno un numeretto e una nota sotto che spiega che il tale articolo è stato modificato dalla tale riforma. Eppure noi di referendum costituzionali ne abbiamo fatti solo 3: uno nel 2001, uno nel 2006 e uno nel 2016. Ad uno solo la modifica passò, quello del 2001 in cui andò a votare il 32% della popolazione e il SI vinse.

Per curiosità a me piace molto sfogliarmi la costituzione del 1948 intonsa e vedere come i padri e le madri costituenti avevano immaginato la società del futuro. Un pastrocchio lo stesso, di questo vi posso rassicurare.

In effetti però la nostra costituzione non è più quella Costituzione del 1948. E’ stata modificata così tante volte che si può dire che, specie negli ultimi vent’anni sia stata letteralmente stravolta, ha subito modifiche così profonde che non potrà mai essere quella di prima.

Per essere precisi, esistono delle garanzie, ma veramente miserissime. Gli articoli dal n.1 al n.12 non possono essere modificati. O uno getta via tutta la Costituzione e ne scrive una nuova o quelli non possono essere toccati e anche gli articoli dal 13 al 54 sono stati toccati pochissimo, se non per abbassare la maggiore età ad anni 18; l’obbligo di alternanza uomo-donna nelle liste elettorali; l’inserimento della circoscrizione degli italiani all’estero; e l’abolizione della pena di morte anche in caso di vigenza marziale dell’ordinamento (per esempio durante una guerra). Ma è anche da dire che questa parte della Costituzione è stata subito derubricata dalla classe dirigente a “costituzione programmatica”, come obiettivo ideale da raggiungere, e con questa scusa spesso disattesa. Seppure invece si tratta di testo fondamentale al pari di tutti gli altri articoli e quindi con la stessa cogenza di tutte le altre regole.

L’attività governativa invece si è molto adoperata nel modificare gli articoli che riguardano la parte seconda della Costituzione, cioè l’Ordinamento della Repubblica.

Qui le riforme sono state molto varie. Alcune hanno riguardato il ruolo del Presidente della Repubblica e del Primo ministro i quali sono stati sottratti alla giurisdizione speciale di Parlamento e Corte costituzionale. O meglio, il primo è ancora sotto la giurisdizione di questi, ma con un procedimento che prevede la nomina anche di giudici non togati; il secondo invece è rimesso alla giurisdizione ordinaria. Riforma fatta intorno alla fine degli anni ’80, basata sul fatto che il testo precedente di fatto prevedeva che a giudicare sui delitti del primo ministro fosse la Corte Costituzionale e che questo potesse essere messo in stato di accusa solo dal Parlamento. Una forma di impunità che l’esperienza mostrò essere molto pericolosa. Fu una riforma non votata, quindi ha raggiunto il 66% degli aventi diritto al voto.

Altra riforma molto discussa è stata quella relativa alle garanzie dei parlamentari che ha introdotto la possibilità di perseguire un membro del parlamento, là dove sia stata emessa sentenza definitiva di condanna dalla magistratura, cosa che prima non era prevista senza autorizzazione delle camere, ma d’altra parte ha imposto l’obbligo di richiedere l’autorizzazione al parlamento anche per svolgere intercettazioni sui parlamentari. Prima riforma cerchio bottista del 1993, non votata e che quindi ha raggiunto il 66% degli aventi diritto.

Un’altra riforma è stata l’introduzione del giusto processo. Per valutare la riforma dell’art. 111 bisognerebbe essere dei penalisti, perchè questo articolo è stato modificato con linguaggio abbastanza tecnico, ma confrontato al testo precedente sembra un passo avanti, anche se non credo che in quel caso si stesse mettendo mano a un vizio vero e proprio della giurisprudenza, ma piuttosto si stesse certificando un dato di fatto già in vigore. Riforma del 1999 non votata, quindi ha raggiunto il 66% degli aventi diritto.

Se queste fin’ora dette (non ho parlato di quella che ha ridotto il mandato dei giudici di Corte costituzionale da 12 a 9 anni e di quella sulla durata delle camere su cui puoi leggere qui una riflessione) sono state tutte riforme se non proprio progressiste, quantomeno garantiste, quelle che si sono succedute negli anni dal 2001 ad oggi sono di tutt’altro tenore.

Le principali sono state 2. Di cui ora, brevemente, parleremo.

La prima, molto discussa nei libri di testo è quella del 2001, la famosa riforma del Titolo V°. La seconda è quella del 2011/2012 che ha modificato l’art.81 su cui anche i manuali di diritto non osano esprimersi tanto ormai sono ingabbiati nelle contraddizioni nate dall’adesione dell’Italia all’UE.

Partiamo dalla riforma del 2001. I più giovani forse neanche la conoscono o capiscono. Io ho avuto la fortuna di essere in quel periodo seppure non ancora in età di voto (e comunque non avrei votato perchè all’epoca ero anarchica), abbastanza grandina da seguirne il dibattito politico. Quando poi sono arrivata all’università e me l’hanno fatta studiare eravamo in piena attuazione della riforma e il giudizio unanime di tutti i costituzionalisti era semplice e cristallino: non ci si capisce un cazzo!

Il Titolo V° della Costituzione, rientra in quella seconda parte della Costituzione che abbiamo detto riguarda l’ordinamento della repubblica e nello specifico si riferisce alla divisione territoriale della repubblica, cioè agli enti locali. Quali i compiti e le funzioni di Comuni, Province e Regioni.

Il contesto storico che ha “partorito” questo accrocchio indigeribile di riforma, che ha riguardato la bellezza di 19 articoli, vedeva stagliarsi due forze politiche nuove e potenti: la prima la Lega che voleva in tutti i modi il federalismo e non sopportava l’ordinamento centralizzato della Repubblica, l’altro l’Unione Europa che pure non sopportava il potere sovrano degli Stati e voleva accentrarne le funzioni. Entrambe queste pretese furono accolte dal nostro riformatore.

Ma chi era questo riformatore impazzito? Anche i muri lo sanno: è stato il PD.

Cioè, il PD ha scritto una riforma voluta dal suo acerrimo nemico, cioè la Lega? Si, è proprio così. Ha con questa manovra riconquistato il voto degli elettori leghisti? Neanche per sogno. Gli elettori non hanno idea di cosa sia successo nel 2001.

La riforma del titolo V° ha molti problemi. Il primo è che per la prima volta si è introdotto nell’ordinamento un linguaggio avvocatesco e non basato sui principi. Come abbiamo detto, caratteristica della nostra Costituzione era quella di essere breve e semplice, mentre allo stato attuale il titolo V° è diventato un guazzabuglio di disposizioni né coerente, né completo, né comprensibile, il quale ripartisce la potestà legislativa e giurisdizionale in maniera assurda. Invece di essere stabiliti i compiti delle Regioni, com’era nel testo precedente, si è deciso di ribaltare la prospettiva e definire i compiti dello Stato, per tutto quanto non previsto nel miserrimo elenco della prima parte dell’art.117 la competenza è regionale.

Cioè la Regione può deliberare su tutto. La Regione… la Val D’Aosta, il Molise, la Basilicata, la Sardegna, le Marche, l’Abruzzo… gli arriva un terremoto e, niente, si devono arrangiare. Non è previsto che lo Stato se ne occupi.

Come hanno fatto a inserire questo paradosso nel nostro bel sistema centralizzato? Vi risparmio la lettura degli articoli della riforma, giacchè non vi troverete mai espresso questo concetto, ma si tratta dell’introduzione del principio di sussidarietà. Questo principio, elaborato in sede europea, per dirimire le competenze fra i 27 stati sovrani dell’UE e una popolazione di 500 milioni di abitanti è stato catapultato a pie’ pari nella nostra Costituzione. Secondo questo principio il governo migliore del territorio si attua al livello più vicino a quello in cui deve essere erogato il servizio. Solo se questo non ha le forze per occuparsene può intervenire un potere superiore e statale. Ma tradotto in chiave federalista questo principio è stato trasformato né più, né meno che in un elenco della spesa.

Su che cosa la Lega gradiva governare nella sua locomotiva settentrionale senza interferenze dello Stato?

“Prego signor Bossi, ci faccia avere le sue preferenze, che noi senza indugio le inseriamo nella Costituzione”, e così è stato.

Così alle Regioni sono stati confermati i poteri già presenti nel testo precedente (in materia di trasporto pubblico, asili, scuole, acqua, rifiuti, ecc…) più tutto un elenco lunghissimo (la seconda parte dell’art 117, non quello suddiviso a lettere, ma la lista della spesa sottostante) che vi invito a leggere per capire la follia di questa riforma. In queste materie, la più nota delle quali è la tutela della salute, come si dice con linguaggio di derivazione europea, la potestà legislativa è concorrente: lo Stato mantiene solo il potere di definire delle leggi con principi generali, mentre nel merito ogni Regione fa come gli pare.

Ma la chicca vera è rappresentata dall’affermazione che tutto quanto non è ricompreso negli elenchi Stato/Regioni è di esclusiva competenza regionale. Chiaro, non c’è molto che resta fuori. Ma per esempio in materia di Industria, anche se tema non ricompreso nell’elenco della spesa leghista (svista colossale) la competenza dovrebbe spettare alla Regione, dato che non è presente neanche nel primo. Invece no, la Corte costituzionale, chiamata a dirimere anche sui problemi di competenza Stato/Regioni, ha deciso che se anche non c’è scritto non è possibile che allo Stato siano tolte le funzioni di potestà legislativa generale e che quindi è competenza sua… ma allora che cavolo c’è scritto in Costituzione? Te non ti interrogare, che la Corte siamo noi e noi decidiamo… ah bè!

Insomma non c’è da stupirsi se tutto va a ramengo, perchè lo Stato si è amputato le mani da solo e le Regioni per conto loro, sono quello che sono, non possono avere risorse infinite. Si ha un bel dire, per esempio, che il meridione dovrebbe produrre, ma il meridione è a mille km di distanza dal mercato unico europeo, quale capitalista mai dovrebbe andare a impiantare le sue imprese così lontano?

Cosa che non sarebbe neanche molto ecologica, a dire la verità. Ma abbiamo fortuna che nell’estrazione della tombola delle competenze statali/regionali, la tutela dell’ambiente è stata demandata allo stato centrale e non alle regioni e quindi lo Stato può tranquillamente disattenderla, che nessuno mai gli dirà nulla!

Nel 2016, finalmente, qualcuno si rese conto del pastrocchio che aveva combinato e tentò in una manovra disperata di inserire dei correttivi a questo scempio amministrativo, inserendo nella riforma della Costituzione “Renzi” che doveva abolire il Senato, anche tutti degli aggiustamenti al titolo V°, più altri ritocchi fatti a casaccio al potere referendario. La cura era peggiore del male, perchè il testo di riforma diventava ancora più complesso e per fortuna fu respinto da tutti. Vabbè cambiare le regole del gioco, ma qualcosa ci si deve pur capire!

Le altre due questioni inserite con la riforma del titolo V° sono state una la questione della ripartizione fra Regioni e Enti locali (con anche l’abolizione poi mai attuata delle Provincie) col fatto che ogni Regione, fatto salvo il rispetto dei principi costituzionali, può darsi lo Statuto che vuole; elegge direttamente il proprio Presidente con compiti di direzione della giunta regionale; e ha superiore competenza rispetto ai comuni in tutte le materie sopra dette. Lo Stato, per il tramite del Presidente del Consiglio, si riserva di intervenire in tutti i casi di inerzia della Regione o di sbagliata attuazione delle norme centrali, con questo sollevando un ginepraio di interpelli alla Corte costituzionale in materia di competenza, che quasi quasi anche questa corte una volta investita di grande prestigio si è ormai trasformata in un tribunale amministrativo vessato dai contendenti. Cosa che non giudicheremo troppo negativamente, però, visto che gli paghiamo lo stipendio e prima non avevano da fare niente.

L’altra grave falla che è stata inserita con questo accrocchio legislativo, come prima si accennava, è stata il fatto di inserire fra i principi dotati di supremazia, quello del rispetto degli ordinamenti comunitari. Modo in cui la indigeribile legislazione europea ha trovato l’aggancio normativo e costituzionale di diventare di fatto legge dello Stato. Non proprio di fatto, che poi ognuno, in questo delirio, fa quello che gli pare, ma quantomeno come principio è stato sancito. Principio che peraltro viene ribadito da tutti i libri di diritto di qualunque materia e che quindi volenti o nolenti, finirà prima o poi per diventare ethos comune della giurisprudenza.

La riforma costituzionale del 2001 fu come detto voluta dal PD sulla scorta delle richieste della Lega, ma fu anche quella in cui per la prima volta il popolo fu chiamato a votarla. Motivo per cui, detta riforma, per la prima volta fra le riforme costituzionali, fu votata dal 50% +1 dei componenti il Parlamento, ma non dai due terzi. Quando il popolo fu chiamato ad esprimersi, non gli si raccontò certo tutto il casino sottostante che in questo articoletto abbiamo cercato di riassumere, ma la riforma fu presentata così: volete voi che gli Enti Locali abbiano maggiore autonomia nei confronti dello Stato? “Si, grazie”

Gran bella cosa l’autonomia.

La seconda riforma è invece quella del 2012 che ha modificato il testo dell’art.81 in materia di bilancio statale e introdotto il cosidetto pareggio di bilancio. Il contesto in cui è nata questa riforma è abbastanza noto. Si trattava del periodo della crisi economica dei mutui subprime che, come giustamente si fa con le crisi, dopo essere scoppiata in America fu gentilmente scaricata sulle banche europee, le quali a loro volta passarono la patata bollente agli stati periferici dell’UE (Grecia, Spagna, Irlanda, Portogallo e Italia). Noi questa patata bollente ce la siamo tenuta tanto in mano da esserci scottati.

Il bilancio dello Stato da essere così una misura pensata come semplice rendiconto dell’andamento economico del paese è diventata una manovra finanziaria a tutti gli effetti e nella mente degli ideatori, praticamente l’unica manovra finanziaria permessa, in linea con i tempi di approvazione del bilancio europeo.

È stato un male? È stato un bene? Non è ancora chiaramente chiarita la cosa. Intanto, salvo il primo comma che è stato cancellato, tutto il resto dell’art.81 è rimasto in piedi, ma l’introduzione del principio secondo cui uscite e entrate devono risultare in pareggio ha scompaginato parecchio le cose. Non sempre per la precisione devono essere in pareggio, in caso di straordinaria congiuntura economica negativa, il Parlamento può autorizzare uno scostamento dal pareggio e quindi una voce in negativo, ma per capire che cosa si debba intendere con congiuntura sfavorevole del ciclo economico non è proprio chiarissimo. Quanto dura una congiuntura negativa?

Proviamo a capire comunque qual è il problema del pareggio di bilancio. Detto con parole semplici, che con quelle complicate non ci riusciamo. Il problema è che se lo Stato spende di più di quello che incassa da qualche parte deve reperire i soldi per portare il bilancio in pareggio, ogni anno. E come può farlo? O aumentando le tasse che, sigarette a parte, non si sogna neanche lontanamente di fare. O tagliando la spesa pubblica, motivo per cui come si dice in gergo tecnico, ogni anno, col “pilota automatico” scuola, sanità, strade, territorio, ecc… vengono massacrati. O ricorrendo al credito internazionale quindi aumentando la mole di debito e, ovviamente, gli interessi per restituirlo. Cosa che è obbligato a fare e per cui se i conti vanno fuori posto finisce che gli interessi diventano così alti da essere da vero e proprio strozzinaggio. Praticamente fino a quest’anno questo si è tradotto pure nel fatto che lo Stato ha bloccato i finanziamenti a regioni e enti locali scaricando parte del costo dei debiti su questi enti già di loro incasinati.

Insomma, diciamo che avere una norma che impone che i conti debbano tornare, per un paese che vuole avere una gestione capitalista del suo stato dovrebbe essere buon senso (d’altronde la ragioneria è stata inventata a Firenze nel periodo dei comuni), ma il problema grosso è che in caso di necessità non è al parlamento che ci si rivolge per chiedere l’autorizzazione a discostarsi dai parametri di bilancio, ma all’UE. Capace dal canto suo se non ci si allinea al suo andamento economico generale e quindi ai dettami della BCE di buttarci in una prigione fredda e umida e gettar via la chiave.

Questo il quadro sintetico delle riforme costituzionali fin qui adottate nei 72 anni di vigenza della nostra Costituzione, quanto invece alle principali critiche al dettato costituzionale vero e proprio, ai suoi valori e principi non c’è gran che da dire. Molti sono principi molto belli, ma mai rispettati. Per esempio quello che vieta i finanziamenti dello Stato alle scuole paritarie. O, più noto, quello che garantisce libertà di associarsi in sindacato per i lavoratori, mentre ad oggi sono riconosciuti come tali solo i tre grandi dei confederali. Altri sono riservati esclusivamente ai “cittadini” come se la nostra Costituzione fosse stata scritta nel 1700 e i nostri padri costituenti si fossero dimenticati che nel mezzo era nato quel bambino tanto bello che si chiama capitalismo. Altri mancano proprio. Ci sono poi scritte anche cose romantiche tipo “nessuno può essere privato del nome” che testimoniano lo stato di delirio in cui il ‘900 era scivolato.

I diritti economici in gran parte sono puramente ideali e lo Stato non si sogna neanche lontanamente di limitare lo strapotere della proprietà privata.

Comunque conoscere la Costituzione è importante per tutti. Perchè – questa è una cosa che forse ci si dimentica con troppa facilità – in teoria, la Costituzione detta le regole minime di convivenza civile cui, in nessun modo si dovrebbe derogare in senso peggiorativo. L’obiettivo delle leggi dovrebbe invece essere quello di volgerle al meglio. Certo se qualcuno si chiedesse come si fa a volgere in senso più ampio il concetto che “la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio” in effetti avrebbe qualche difficoltà, ma diciamo che pur rimanendo un valore costituzionale, l’art. 29 lo si può intendere nel senso che lo Stato non possa violare la famiglia tradizionale… che a quale Stato mai sia venuto in mente non si sa. Ma se il Vaticano era preoccupato di siffate problematiche può star tranquillo che nessuno gliela tocca la sua unione sacra fra uomo e donna.

Basta. Sulla Costituzione non c’è altro da sapere, salvo conoscere nello specifico i diritti che tutela, come abbiamo detto, solo in teoria.

Aggiungiamo invece qualche considerazione rispetto al referendum appena trascorso. I più vecchi probabilmente ne sono già a conoscenza, ma per molti, invece, questo referendum avrà sancito definitivamente un punto di rottura. Abbiamo sentito difese deliranti della modifica appena varata: che rispetti e difenda il principio di rappresentatività; che non cambierà nulla rispetto al funzionamento precedente; fino ad arrivare a dire che addirittura costituisce un attacco ai privilegi della casta. Valutazioni così meschine che nascondono un’idea della sfera sociale profondamente distorta, come di un qualcosa che si possa determinare a piacimento dall’alto.

In realtà, seppure spesso derubricate a testo burocratico e amministrativo, come abbiamo detto le costituzioni sono l’architrave della società e con questa modifica il palazzo si è chiuso ancor più nella difesa degli interessi delle classi ricche, continuando ad ignorare e abbandonare tutti i principi di democraticità sanciti nel testo. Una tendenza peraltro in linea con quanto già avvenuto negli ultimi venti anni, come abbiamo cercato di spiegare in questo breve articoletto.

Quindi, abbiamo la prova: arriva per tutti il giorno in cui si smette di difendere la Costituzione del 1948. Per le classi borghesi questo giorno è arrivato nel 2001, io me ne sono accorta con 20 anni di ritardo.

Non che sia una notizia da festeggiare, ma almeno fa un po’ pulizia di tanto romanticismo inutile e sprecato.

 

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Il Senato ti dà il mal di stomaco?

Breve storia delle Camere.

Forse non tutti sanno che quando la Costituzione è stata scritta nel lontano 1947 le camere non venivano votate insieme. Avevano una durata temporale diversa e venivano elette nello stesso anno solo molto raramente, c’era una sfalsatura di 1 anno, il Senato durava in carica 6 anni e la Camera 5.
Ammettiamolo: era una bellissima idea per cercare di avere maggioranze diverse, che gli equilibrismi non fossero possibili e che venissero piuttosto votate solo leggi giuste per il più ampio numero di persone possibili, ma un po’ complicata. Si doveva andare a elezioni di continuo e il governo aveva il capogiro!
Quindi nel 1963 modifica costituzionale e le camere si eleggono insieme. Bene.
Ora, in parlamento, il senato, secondo la Costituzione, continua a rappresentare le regioni, quindi 200 senatori verranno divisi su 20 regioni.
Se fossimo equi che uno vale uno, sarebbero 10 senatori a testa. Per eleggere un senatore si dovrebbe prendere il 10% nella propria regione…
Qualcuno subito salterà fuori a dire: “Eh, ma così non è possibile. Non si può governare se non posso fare l’alleanza col M5S o con Fratelli D’Italia o con Forza Italia (tutti partiti da 10%)”
Giusto. Sai quale può essere la soluzione? Cambiamolo questo Senato!
Basta con quest’idea che le leggi devono essere votate due volte, votiamole solo alla Camera!
Ma infatti! Lasciamogliele votare a 400 parlamentari.
Questa si che è una bella prova di democrazia!

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Somigli al mio mal di denti

Col dolore ci si arresta
quando arriva tutto s’acqueta
non importa più del sole
non importa della stelle
tutto oscura e si ferma.

Il tempo dilata, infinito ed eterno
smette di scorrere e andare
al futuro.
Eppure, lento ed inesorabile
non passa mai.

I pensieri sono noiosi,
noioso è il riflettere e soffermarsi
il soppesare e valutare.
Girano in tondo
e allo stesso punto fan ritorno.

Ricorsivi e fastidiosi
come delle staffilate
ripetute, ti colgono
e allo stesso punto
t’arrestano.

Tu, bella mia
somigli al mio mal di denti.

 

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Lavorare stanca – contro lo smart-working

1- Bollettino statistico sanitario

Peraltro dati conosciuti fin dall’inizio dell’epidemia, ma qui li confermiamo, seppure il trend sembrerebbe peggiore di questo.
0,05% di mortalità. 5% di letalità.

L’influenza invece: 0,01% di mortalità e la letalità… quella si aggira sullo 0,1%, forse anche 0,05%.

Insomma un virus grave, anche molto grave.
Una gran bella scocciatura.

Rallenta Rallenta Rallenta… fermati quasi!
Non usare la macchina, non ce n’è bisogno.
Non lo vedi? I mezzi pubblici sono vuoti.
La città è deserta.

Rallenta.

2- contro lo smart-working, io ci provo.

Io forse sono solo arrabbiata perchè il mio lavoro è stato dequalificato.
Mi hanno chiusa in casa e costretta a stare lontana da altri esseri umani per 8 ore al giorno, che diventano facilmente 10, che diventano facilmente settimane intere.
La paura della malattia può dunque precipitare una fetta importante di lavoratori in un baratro di solitudine e sfruttamento fino a poco tempo fa impensabile.

Non c’è solo il lavoro nei campi, non c’è solo lo sfruttamento della logistica, c’è anche l’inabissamento dello smart-working.

Ci dicessero almeno che siamo stati confinati in quanto strettamente necessario alla tutela della salute collettiva e per il tempo strettamente indispensabile. O, viceversa, si fosse manifestata una ferma volontà da parte della classe dirigente italiana di protesta contro la privazione e lo svuotamento degli uffici (pubblici e privati) e l’intenzione di riportarci tutti in loco, questi sarebbero orizzonti politici su cui si potrebbe ragionare.
Invece no. Si è deciso di fare della paura del contagio (legittima) un grimaldello per portare avanti in maniera alquanto spietata un attacco ulteriore ai diritti dei lavoratori e, per quel che riguarda la Pubblica Amministrazione, anche ai servizi resi ai cittadini.

Sappiamo infatti che è uscita una direttiva del ministero della PA che impone la modalità di “lavoro agile”, come viene chiamato, come forma ordinaria, nel minimo del 60% della prestazione lavorativa a partire da gennaio 2021 (ora, stante la pandemia, saremo intorno al 90%). Non è quindi solo una risposta emergenziale che vogliono imporre, ma una riforma strutturale. E che, togliamoci ogni dubbio, se la situazione non cambia sostanzialmente, passerà certamente.

E non basterà certo la constatazione amichevole che proseguire nel processo di sfruttamento perpetrato dal modello capitalistico non ci porterà fuori da questa situazione, ma anzi ne aggraverà le forme… magari bastasse!

Mi sono arrovellata in questi giorni – nova! – su come affrontare questo argomento. E non sono arrivata a granchè di conclusioni.
Comunque per quanto le possibilità di incontro con sindacati e lavoratori siano state quasi annullate, ho fatto un giro di consultazioni.
La cosa chiara è che ce lo vogliono far passare come una modalità di lavoro sana e positiva della nuova normalità, come ormai viene chiamata – forse fascismo fa brutto – accettata e condivisa da tutti, anche se tutti quelli con cui ho parlato io sono invece disperati per questa modalità di lavoro.
Il problema è che si parla con gente che col proprio luogo di lavoro non c’entra niente, mentre coi colleghi è difficilissimo trattare l’argomento perchè imperano i sindacati concertativi e la loro ideologia che, neanche a dirlo, è completamente asservita alle direttive padronali.

Termini forti, ma strettamente corretti.

Più nel dettaglio si fa difficoltà a vedere il problema perchè a monte è posta la paura del contagio. Paura che, finalmente almeno, si riconosce che possa avvenire principalmente sul luogo di lavoro. Quindi per tutti quanti possono evitare di andare a lavorare la cosa è fortemente incentivata e sostenuta e dato che per il settore dei servizi il fatto si sposa benissimo anche con le esigenze di risparmio sui costi della produzione e con l’incremento della produttività ricercato dal capitale, la trasformazione sta avvenendo nella più totale indifferenza generale.

E’ sorta quindi per me l’esigenza di fare un riassunto della situazione per decidere come comportarmi. Chiaramente il mio è un riassunto solo ideale e per quanto la situazione sia grave dal mio punto di vista non lo è probabilmente altrettanto nella realtà.
C’è una distanza significativa fra quello che significano le leggi oggettive della società, le conseguenze che determinano nell’organizzazione della quotidianità e come poi si manifestano nell’atteggiamento politico delle persone. Se manca la coscienza di cosa significano, è difficile che si possa dire sul serio che si realizzano in un sistema politico specifico.

Partiamo.

Sembrerebbe dunque che nella PA si stia realizzando un nuovo modello lavorativo fra le attività che in smart possono essere erogate e quelle che non possono esserlo. Alla luce di questa considerazione tutte le altre scompaiono. Perchè? Domanda senza risposta. Ci sono poi differenze rilevanti fra settore privato e pubblico che però qui non potremo più di tanto approfondire.
Chiaramente le attività che non possono essere eseguite a distanza sono quelle attinenti il trattamento fisico delle persone, quindi tutti i lavori da OSS e da infermieri, mentre per quelli dei dottori già si ragiona sul fare le diagnosi a distanza (con ‘sti pazienti stronzi che non descrivono nel dettaglio i loro sintomi e inducono in errore il povero medico).
La didattica uguale, ridotta alla blaterazione di un professore x a caso, può essere demandata quasi completamente alla modalità on-line, richiedendo la presenza solo per attività di sintesi e per le verifiche didattiche.
I servizi psichiatrici possono essere svolti per quel che riguarda l’aspetto medico e di intrattenimento dagli operatori, mentre i percorsi di inserimento riabilitativi, il trattamento psicanalitico, ecc… può essere svolto a distanza. Tutta la produzione di prestazioni (comunali, regionali, ministeriali, universitarie) può agevolmente essere passata in modalità agile.
Le assemblee deliberative stesse possono venire chiuse al pubblico garantendo la pubblicità magari solo con modalità streaming.
E via discorrendo.
Tutto si può fare on-line. Tranne la costruzione di server e reti.

Le critiche principali attengono a due tipi di problemi: la tutela dei diritti dei lavoratori e l’efficacia del servizio reso.
Sul versante della mancanza di tutela dei diritti dei lavoratori la lista è veramente lunghissima.
In primis è stato praticamente azzerato il diritto di esprimere opinioni e la libertà di parola durante lo svolgimento dell’attività lavorativa.
I diritti sindacali stessi risultano fortemente lesi dall’impotenza a indire assemblee effettive, in luoghi idonei a contenerle.
La mancanza di strumentazione idonea per svolgere il lavoro, tutta quella che fa parte dell’organizzazione strumentale che in ufficio si trova (computer, telefono, stampanti, scrivanie e sedie ergonomiche, tastiere e mouse).
Il fatto che i costi secondari vengano scaricati tutti sui lavoratori (riscaldamento, condizionamento, energia elettrica, contratto telefonico).
Incremento coattivo della produttività, per cui il timer che segna l’orario di lavoro diventa uno strumento mostruoso di controllo ben più del cartellino che timbra l’ingresso e l’uscita del lavoratore, perchè diventa immediatamente orologio della effettivà produttività e non solo della presenza sul luogo di lavoro.
La responsabilità amministrativa nella lavorazione delle prestazioni che ricade sulle spalle del singolo lavoratore invece che sull’organizzazione nel suo complesso.
Il controllo pervasivo operato dai capi e responsabili sulla divisione del lavoro praticamente quotidiano, quando non orario.
La sospensione completa del processo della formazione continua necessaria allo svolgimento di un’efficace azione amministrativa, che è stata demandata di nuovo al buon cuore del lavoratore e che non ha tempi dedicati nel mostruoso timer che conta il tempo della sua prestazione e comunque lede il principio dell’omogeneità delle prestazioni e imparzialità dell’azione amministrativa.
L’alienazione totale del lavoratore, sicuramente l’aspetto più bestiale, costretto a vivere per otto ore al giorno, quando non l’intera giornata in una sfera ripiegata sull’individualità che non ha assolutamente niente nè di sociale, nè di democratico.

Quanto all’effettività del servizio reso il discorso è più ampio e ogni servizio andrebbe trattato a sè nel dettaglio, qui ci possiamo limitare a sostenere solo alcuni aspetti generali.
Fra le considerazioni importanti di cui tenere conto va notato che i servizi pubblici da un lato risentono della romantica visione che li vorrebbe come espressione dell’art.3 della Costituzione, per cui sono servizi pubblici quelli atti a rimuovere ostacoli alla piena espressione della personalità e alla partecipazione politica; dall’altro lato però, realisticamente, viene invece considerato servizio pubblico solo quello che effettivamente la repubblica si degna effettivamente di elargire. Fra questi due estremi si colloca quindi il servizio pubblico e sarebbe da definire per ogni campo che cosa si pensa che sia di preciso e come fare ad erogarlo nel migliore dei modi possibili.
Per quel che riguarda l’aspetto concreto un servizio costruito sulla responsabilità individuale dell’operatore risentirà in termini di qualità e di velocità della prestazione perchè l’utente potrebbe incorrere nel diniego di una prestazione che in realtà gli spetterebbe o viceversa nell’elargizione di una prestazione che non spetta e un suo successivo recupero coattivo in quanto gli errori sono molto più frequenti. D’altra parte si potrebbe dover attendere tantissimo tempo a fronte di una situazione personale complicata e non tipica per i tempi amministrativi dilatati che si impongono per mantenere la qualità della prestazione, tanto lunghi da indurre l’utente a rinunciare.
L’impossibilità di accesso ai servizi se non su liste di attese lunghissime, similmente a quanto già avviene in sanità, spingerà inoltre verso processi di privatizzazione e esternalizzazione (necessari stanti la carenza del personale), che solo apparentemente potrebbero risolvere la situazione se l’erogatore ultimo rimane comunque il soggetto pubblico (ma per esempio per la scuola potrebbero essere funzionali).
La totale esclusione di quanti o non sanno accedere al mondo digitale, o non ne hanno i mezzi, oppure, chiaramente, sono stranieri e quindi non hanno capacità di comprensione della lingua italiana parificata a un madrelingua (che già, solitamente, fa fatica a capirci qualcosa) porteranno alla percezione stessa che i diritti tutelati dalle amministrazioni non siano in realtà diritti, ma privilegi.
E per tutti quanti un po’ più abili che comunque si ostinassero ad ottenere i servizi nella modalità in cui sono stati predisposti dall’amministrazione, i tempi di erogazione si allungheranno e gli errori si moltiplicheranno¹, stante che non esisterà mai la possibilità di parlare vis a vis con un operatore o anche laddove si avesse questa fortuna non è pensabile che l’operatore sia in grado in una così grande trasformazione di indicare con precisione tutti i passaggi che occorre fare per ottenere il servizio.
La conclusione sarà uno sfrenato dilagare della burocratizzazione di ogni singolo passaggio amministrativo, anche di quello più insignificante, che farà la fortuna di commercialisti e servizi di assistenza e che comunque non riuscirà a risolvere il problema in quanto molti di questi operatori esterni optano per il passaggio alla produzione “agile” stessa…
Insomma le comiche!

Che fare, dunque? Non siamo qui in grado di delineare una strategia precisa, ma solo indicare alcuni aspetti.
Il nodo mi dicono sia tutto dovuto alla difficoltà di individuare un modello alternativo che alla paura della malattia sappia fare fronte.
In realtà qualcosa fra i sindacati di base si è mosso, sopratutto per quanto riguarda i settori impegnati nella produzione e di lì si potrebbe prendere spunto. Il tema è quello di garantire la sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro a fronte ormai anche di un rischio epidemiologico grave.
Partiamo infatti dalla considerazione che questa malattia se la si prende è una malattia grave, comunque grave abbastanza da portare alla mancanza respiratoria e di costrngere a letto anche per un paio di mesi. Una malattia che speriamo che prima o poi ci abbandoni, ma che può anche restare con noi per sempre. Può essere abbastanza grave da indurre, quando verrà il momento, tutta la popolazione a vaccinarsi per debellarla.
Inoltre questa malattia si è presentata e sempre più si manifesta come “malattia di classe” in quanto si cerca di scaricarne i costi sui soliti settori sociali che hanno sempre pagato: le classi popolari. Questa volta non solo quelli economici, ma si cerca di scaricargli anche quelli sanitari. Chi non abbastanza tutelato da lavorare da casa, dovrà continuare un lavoro degradante in presenza, col rischio di ammalarsi.
A me sta bene: recludiamo i ricchi nelle loro sfarzose case di lusso, una prigione dorata, ma almeno ce li togliamo dai piedi per sempre. Facciamoli crescere stupidi e asettici e diamogli un giocattolino con cui allietarsi (netflix, per dire). Poi suoniamogli alla porta e alitiamogli in faccia!

Fuor di battuta e tornando sul pezzo.
Non è possibile – o almeno io non lo ritengo possibile – limitarsi a scuotere la testa e non cercare scenari di soluzione. Per quel che riguarda il comparto sanitario facendosi forza delle voci critiche e positive che ci sono e non di quelle unicamente ipocondriache. Gli appelli a “non recarsi in ospedale” lanciati durante il lock-down resteranno probabilmente uno dei punti più bassi e vergognosi che la nostra sanità abbia mai raggiunto e che speriamo non debba ripetersi mai più.
Chi si ammala deve essere seguito e non gli dovrebbe essere permesso di aggravarsi al punto di doverlo mettere in terapia intensiva. Così per questa malattia come per tutte le altre. Non dimentichiamoci infatti che negli ultimi anni, in inverno, bastava la semplice influenza a mettere in sofferenza gli ospedali e portare “al collasso” i pronto soccorso.
I medici di base, si presume, dovrebbero in un progetto di cura territoriale, avere un ruolo di primo piano e le forze andrebbero organizzate in modo da sfruttarle al massimo e non disperderle. Ci domandiamo: ottime le mascherine chirurgiche per la popolazione, ma sono stati predisposti anche tutti gli altri DPI necessari per il personale sanitario e per quanti sono obbligati ad accedere ai percorsi covid? Sono stati predisposti percorsi covid? Sembreranno domande stupide, ma vista l’esperienza precedente è legittimo avere sfiducia.
Sui luoghi di lavoro, pure, il discorso è complicato. E’ complicato in particolare dal fatto che la storia delle battaglie per la medicina del lavoro è sempre stata orientata verso quello che si chiama Mac-0, cioè rischio biologico zero. Così per l’amianto, così per i pesticidi, così per Taranto. E in questi casi che rientrano direttamente sotto il controllo capitalistico di produzione non si può che essere solidali con queste battaglie, ma con una malattia non so se questa sia poi la strategia migliore.
Se si stesse ragionando in una prospettiva in cui fosse stato predisposto l’obbligo del lavoro in presenza si potrebbe chiedere la predisposizione di un protocollo di sicurezza che sia preventivo e sanzionatorio al tempo stesso. Per quanto attiene alla prevenzione: quanto è stato scritto e previsto (dispositivi di protezione, sanificazione e disinfettazione) va abbastanza bene, ma andrebbe aggiunto in più un forte incentivo a turnare e rallentare i ritmi di produzione che sono poi quelli che portano a una disattenzione maggiore sul rispetto delle norme di sicurezza e a un affollamento nei luoghi di lavoro. D’altra parte il livello sanzionatorio (oltre al percorso giudiziario su cui pure si aprono dei fronti di lotta importanti) va tenuto in considerazione. Servirebbe che al ritrovamento di un paziente positivo, l’intero reparto di riferimento venisse chiuso immediatamente per x giorni (che potrebbero essere 5 lavorativi), fatto il tampone a tutti quanti coinvolti nel reparto entro i 5 giorni, poi di nuovo dopo 10, poi di nuovo dopo altri 10. Questo con l’intento esplicito di spingere i datori di lavoro a provvedere a che il contagio non si diffonda. Detto questo i primi 5 giorni di assenza dei lavoratori potrebbero essere coperti dalle casse dello Stato (è già abbastanza punitivo dover sospendere la produzione). Per tutti quanti risultassero positivi e fossero necessarie invece misure di quarantena o cure specifiche, la spesa andrebbe invece ripartita fra datore e Stato per una presunzione di colpevolezza che nel caso di specie non farebbe poi male, almeno se non è stata predisposta la turnazione sulle 12 ore lavorative. Insomma l’obiettivo dovrebbe essere non solo quello del distanziamento sociale, ma della rarefazione delle possibilità di contagio.

In questa prospettiva, là dove il lavoro in presenza venga considerato imprescindibile alla predisposizione del servizio, lo smart-working potrebbe rivestire un ruolo residuale, che si dovrebbe limitare a non più di un 30-40% della prestazione (al contrario di come viene proposto ora) affinchè la presenza di colleghi sui luoghi di lavoro sia garantita in numero tale che, seppure in sicurezza, la formazione e la funzione sociale del lavoro possano “circolare”.
Poi, è chiaro, si possono anche prevedere possibilità di astensione volontaria, cioè viceversa di adesione volontaria allo smart-working totale, sempre ritrattabile e con obbligo di motivazione, con la più che legittima ratio politica del: ” se non ti vuoi ammalare chiuditi in casa!”

Per quanto sia irrazionale, dovremmo provare ad utilizzare l’idea che “dovremmo rischiarcela tutti”, rischiarcela tutti, ma tutti in sicurezza. Non ci devono essere privilegi, nè divisioni fra lavori che si considerano essenziali e lavori che in logica dicotomica dovrebbero dunque essere considerati “inutili”? O se proprio dobbiamo usare questa distinzione, allora fra i primi della lista io ci vorrei mettere giornalisti, politici e direttori d’industria. Lasciamo loro a casa, si può?

In sintesi l’ultima riflessione che mi sento di fare: penso che sia paradossale trovarci in questa situazione a causa di un evento ampiamente previsto dal nostro sistema sociale. Una malattia, appunto. Contro le malattie il welfare tutela l’individuo, non lo espone al banchetto capitalista. Così dovrebbe essere. Nè d’altra parte si può pensare che per questo evento si possano ledere gli altri diritti costituzionali che sono ugualmente importanti. Insomma il coronavirus ci ha colti impreparati dopo 30 anni di tagli al sistema sanitario, ma dopo 6 mesi… quanto ancora si deve restare impreparati e per fare piacere a chi?

 

1 – Al riguardo c’è da segnalare però che negli ultimi 10 anni circa con l’inserimento della possibilità di presentare direttamente le domande on-line e l’eliminazione dei modelli cartacei i tempi di attesa si sono sensibilmente ridotti. Se prima attendere ben oltre il raggiungimento del diritto l’erogazione era la norma, ora riveste più carattere di eccezione.

 

 

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