FASE 1
Per inquadrare il concetto di “economia di guerra” dobbiamo guardare brevemente a come si sviluppa il fatto economico della guerra attraverso i secoli.
La guerra accompagna la Storia dell’uomo fin dai tempi antichi. Se è improprio chiamare guerre gli scontri che si verificano fra le popolazioni nomadi della preistoria, certamente quelle greche – per quanto riguarda l’occidente – possono essere considerate guerre vere e proprie.
La prima cosa che caratterizza uno scontro armato in quanto guerra è la presenza di eserciti che si confrontano sul campo di battaglia.
Nei secoli poi la storia della guerra si ingrossa e differenzia per strategia, armamentario tecnico, e aspetto economico.
Ovviamente sono sempre esistiti motivi economici per cui si scende in guerra, ma non tutti i fatti di guerra sono riducibili al movente economico. I moventi politici, di conquista del territorio, spartizione di influenze politiche e a volte anche etici, come nel caso delle guerre di religione del medio-evo, sono sempre stati presenti.
Quanto al “fatto economico” della guerra fino a tutto il XIX secolo, con molte semplificazioni, è abbastanza semplice: chi vince la guerra si arricchisce anche economicamente, chi la perde invece si immiserisce. Sono molto rari nella storia i casi in cui un esercito vittorioso sia invece disastrato dal punto di vista finanziario, seppure esistono. In particolare citiamo come esempi di eserciti in grado di condurre vittoriose battaglie, ma troppo costose per le tasche dello stato che li finanzia, quello romano verso la fine dell’età dell’impero e quello inglese alla fine del ‘600 quando seppure risultava vittorioso contro la Francia, al termine della guerra dei trent’anni, scontava gravi carenze economiche.
In generale comunque ancora nell’ottocento, e in questo senso anche le guerre coloniali ci rientrano, chi vinceva una guerra solitamente si arricchiva. La vittoria della guerra garantisce anche l’arricchimento. Chiaramente in questa sede si intende che ad arricchirsi siano le classi dirigenti e non certo le masse popolari che dalla guerra non hanno mai avuto niente da guadagnare.
FASE 2
Questo paradigma entra seriamente in crisi solo con la prima guerra mondiale. La prima guerra mondiale aveva una caratteristica peculiare che la differenziava da tutte quelle precedenti: lo sviluppo delle capacità tecnologiche aveva convinto ogni singolo esercito e Stato di essere fortissimo e invincibile e che perciò la guerra sarebbe durata “poco”. In realtà la prima guerra mondiale si è protratta per oltre 4 anni con una violenza inaudita e un’estensione, appunto, mondiale. E al termine della guerra, seppure, la cartina politica dell’Europa ne uscì molto cambiata non esistevano Stati vincitori che dalla guerra avessero guadagnato di più di quanto avevano speso per combatterla.
Con l’unica eccezione, forse, degli USA che quantomeno non essendo stati colpiti direttamente nel loro territorio sembra che abbiano avuto una capacità di ripresa maggiore. È significativo comunque che al termine della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti tornino velocemente a una politica isolazionista e che l’opinione pubblica continui ad essere profondamente contraria alla partecipazione degli USA nei casini europei. Secondo l’opinione prevalente, infatti partecipare alle guerre del vecchio continente implica una spesa economica eccessiva per i benefici che ne possono derivare.
Da questo punto di vista, infatti, la prima guerra mondiale potrebbe essere letta piuttosto che come un tragico errore – la lettura tradizionale vuole infatti che gli Stati europei siano scesi in guerra spinti non tanto da rivalità politiche serie, ma in conseguenza di un domino di alleanze da cui nessuno voleva tirarsi fuori, in cui quando è cascata la prima tessera, tutte le altre sono seguite di conseguenza – come il primo segnale di una crisi economica e politica profonda e duratura. Dalla prima guerra mondiale, fino a tutta la seconda compresa, le crisi economiche e politiche che scuotono i quattro angoli della terra sono innumerevoli. Citiamo solo quelle principali: la crisi economica dell’iperinflazione in Germania fra il 1924 e 1926; la crisi finanziaria del 1929 negli USA che racconta di un’economia solo illusa di essere forte; le crisi democratiche in Europa che portano all’avvento di regimi dittatoriali prima in Italia, poi in Spagna infine in Germania; lo sgretolamento dell’impero cinese. È chiaro che la prima guerra mondiale non aveva certamente portato prosperità e ricchezza a nessuno stato in particolare.
In questo scenario, la presa del potere da parte di Hitler convince moltissimi strati della borghesia a ritenere le democrazie fondamentalmente inutili, o almeno inutili per gli affari, e piegarsi a cedere il potere alle dittature.
Ripassiamo brevemente gli eventi salienti del periodo dal punto di vista politico.
1- In primo luogo in seguito alla fine della prima guerra mondiale si crea un organismo internazionale chiamato “Società delle Nazioni” che avrebbe avuto il compito di istituire una sorta di democrazia mondiale fra Stati, ma questa istituzione, troppo avanguardista e poco specializzata, non riesce a risolvere e nemmeno a discutere nessuno dei principali problemi reali che si pongono e rimane un’istituzione solo sulla carta.
2- Nel 1936 quando in Spagna un golpe militare guidato dal generale Franco rovescia il governo legittimamente proclamato del Fronte Popolare nonostante l’esercito popolare che subito si organizza per cacciare l’usurpatore e che richiede a gran voce aiuti agli stati democratici di Francia e Inghilterra, viene bellamente ignorato ed è sostenuto solo di malavoglia dall’URSS di Stalin.
3- Infine nel 1938 quando la Germania di Hitler invade la Cecoslovacchia di nuovo le nazioni libere di Francia e Inghilterra si incontrano a Monaco e decidono di lasciar correre l’invasione e “non rispondere a provocazioni”. L’evento è noto, ma significativo: Hitler promette che non avrebbe compiuto nessun altro atto ostile, ma di lì a qualche mese nel settembre del 1939 dà invece luogo all’invasione della Polonia e finalmente anche Francia ed Inghilterra vengono costrette a schierarsi e dichiarare guerra alla Germania.
È l’inizio conclamato della seconda guerra mondiale.
Per i primi mesi della guerra il fronte si trova in Polonia e i cosiddetti alleati (a cui ancora non si sono associati USA e URSS, quest’ultima alleata proprio della Germania e impegnata a portare avanti una guerra regionale contro la Finlandia) si limitano a sostenere economicamente e militarmente la Polonia nel fare fronte all’invasore tedesco.
Tutti sappiamo che all’inizio del 1940 la Polonia, il cui esercito viene barbaramente sconfitto, si arrende alla Germania e il fronte est della guerra mondiale si acquieta per alcuni mesi. In realtà al momento è ancora l’unico fronte.
Inghilterra e Francia, infatti, ancora si illudono che le promesse di Hitler abbiano un loro corso e quindi di non venire colpite.
C’è una persona però che prende seriamente la dichiarazione di guerra, in particolare dell’Inghilterra alla Germania. È un economista di nome John Maynard Keynes.
Ancora lui.
Certo, non è il solo che prende sul serio la dichiarazione di guerra. Anche chi l’ha dichiarata probabilmente è una persona molto seria, si chiama infatti Winston Churchill e il nome risuona come un programma.
Come che sia, il punto è che sia in Francia – nazione che ben presto verrà invasa e capitolerà a sua volta – sia in Inghilterra – sia in Polonia, in Austria, in Italia e la lista è molto lunga ancora – esistono posizioni che oggi chiameremmo di falchi pronte a suggerire una resa del proprio paese ad Hitler sperando di ricavarne qualche beneficio.
Keynes non è fra questi e fra la fine del 1939 e l’inizio del 1940 scrive un opuscolo, intitolato “Come pagare il costo della guerra” per convincere la classe capitalista inglese e dietro di lei quella a stelle e strisce a prendersi l’impegno della guerra seriamente, ribaltando l’illusione che fare la guerra non si possa più perché troppo dispendioso.
Diciamolo chiaramente, l’analisi storica ed economica vorrebbe leggere questo opuscolo come un’applicazione concreta delle teorie keynesiane le quali avevano trovato la più compiuta elaborazione nel 1936 nella sua Teoria Generale. Libro, neanche a dirlo, scritto per risolvere la crisi economica del 1929 (e non solo, chiaramente). Dunque una teoria economica pensata per tempi di pace, diviene la base di un’economia reale di guerra.
In questo opuscolo si ipotizzano alcune cose.
In primo luogo si ipotizza che l’economia riconvertita a scopi di guerra debba produrre al massimo delle sue capacità. Appunto si chiamano capacità produttive. E che pertanto non sia possibile produrre niente di più di quanto si trova oltre questo limite. Concretamente le misure che secondo Keynes bisogna adottare sono quelle di allungare la giornata lavorativa, richiamare tutti i disoccupati a lavorare e infine ricorrere anche al lavoro minorile.
Questa capacità produttiva dovrebbe, secondo Keynes, ampliare il prodotto interno lordo, cioè il prodotto finale e totale dell’economia nazionale, almeno del 40-50%.
E costando la guerra dal punto di vista dell’esercito che va allestito, alimentato e armato ci si troverebbe nella situazione che anche l’accresciuto livello produttivo non basterebbe per fare fronte sia ai bisogni di consumo della popolazione nazionale, sia ai bisogni dell’esercito.
Dunque che fare? Certo si può importare quanto manca, mettendo mano alle riserve, cioè ai risparmi dello Stato. Ma anche così facendo ci si troverebbe a poter affrontare lo sforzo bellico solo per un breve periodo, massimo un anno o due. Mentre Keynes ritiene che la guerra sarà lunga.
La situazione che si prospetta, sotto tutti i punti di vista, è dunque quella di trovarsi in piena crisi inflattiva. Cioè secondo Keynes si sarebbe potuto verificare quanto già accaduto con la prima guerra mondiale, quando la scarsità di risorse e materie prime ha condotto inevitabilmente ad un aumento di prezzo che ha drenato risorse dalle tasche delle classi lavoratrici a quelle dei capitalisti. Non tutti infatti sentono la penuria quando c’è una guerra, alcuni si arricchiscono e lo fanno molto più degli altri.
Dunque, come abbiamo detto, all’inizio della seconda guerra mondiale si paventa per gli antagonisti di Hitler lo scenario dell’insostenibilità finanziaria ed economica.
Come saltarne fuori?
Keynes in primo luogo si fa forte di una posizione piuttosto in voga in quel periodo nel suo paese. I sindacati non riuscivano infatti ad alzare tanto la voce da chiedere la fine della guerra, che non era stata causata direttamente dall’Inghilterra, ma quantomeno, dato che si trattava di una guerra di capitalisti chiedevano che la guerra la pagassero questi ultimi.
Keynes è d’accordo, ma da misero economista quale lui è, quasi ragioniere, afferma risolutamente che neanche in questo caso le risorse economiche sarebbero bastate. Tassiamo il doppio, il triplo, togliamo metà o i due terzi della ricchezza ai capitalisti, dice, ma i soldi così ricavati non basteranno che a sostenere qualche mese di guerra.
Il problema per Keynes infatti era che durante la guerra, essendo tutti i soldi disponibili deviati a fare fronte al mantenimento delle spese militari, il suo bel moltiplicatore del reddito e della ricchezza non poteva funzionare in quanto questo moltiplicatore era basato sul consumo, ma poiché il consumo dei lavoratori sarebbe stato impedito e deviato tutto a scopi bellici, prevedibilmente l’economia sarebbe finita gambe all’aria.
Dunque elabora un piano. Il suo piano è questo: chiede in prestito ai lavoratori la loro ricchezza (ed anche ai capitalisti) con la promessa un po’ sconsiderata di restituire tutto sotto forma di welfare al termine della guerra. Il suo piano è tutto qui.
Nel frattempo concretamente fra le misure economiche immediate da prendere per scongiurare l’inflazione e la crisi economica suggerisce una serie di misure.
1 – mettere una tassa sugli extraprofitti, molto semplici da conteggiare: prendendo il prezzo base a quello ante guerra, tutto quanto realizzato in più sul prezzo maggiorato è tassato e riportato nelle tasche dello Stato. 2 – prevedere una tassazione universale durante la guerra su tutti i cittadini e invece una tassazione post-guerra principalmente redistributiva che colpisca direttamente la classe capitalista. 3 – garantire però un minimo di reddito esente dal pagamento delle tasse. 4 – garantire assegni famigliari in base al numero dei componenti del nucleo famigliare e del reddito disponibile. 5 – garantire un sistema di adeguamento salariale non contrattuale basato sul prezzo di un paniere di beni primari, di modo che se aumenta il prezzo di quei beni il salario si adegui automaticamente e di conseguenza (la scala mobile nella sua forma basilare, per intenderci).
È evidente che in questo programma si chiedono sacrifici immediati alla classe dei lavoratori che deve lavorare di più solo difesa da un mantenimento del proprio status di vita corrente e le promesse sono di venir ripagati di questo incremento lavorativo solo al termine della guerra con la tassazione vera e propria sui capitalisti.
Cioè nel frattempo debiti, prestiti e tutto il carrozzone.
FASE 3
Dobbiamo ora rispondere a una domanda: c’era bisogno di Keynes per convincersi che la guerra fosse un buon affare? Questo non è dimostrato dalla storia.
Quello che si sa è che il piano di Keynes, nelle nazioni occidentali, viene in buona misura rispettato o comunque si pone come base per la programmazione e pianificazione dell’economia bellica. Non possiamo in realtà essere certi che il reddito delle classi lavoratrici sia stato tutelato nel corso del conflitto secondo le prescrizioni di Keynes, mentre è sicuro che la seconda guerra mondiale è costata tantissimo in termini di risorse economiche e di vite umane. Ma sappiamo che Keynes non era un propagandista socialista, ma invece una persona degna della massima considerazione a livello di analisi economica mondiale tanto che sia al termine della prima guerra mondiale quando era poco più che un neolaureato, sia al termine della seconda, Keynes siede al tavolo di contrattazione per la ricostruzione post-bellica. In particolare al termine della seconda guerra mondiale partecipa agli accordi di Bretton-Woods pur se la sua proposta di un piano di ristrutturazione economica viene scartato a favore della ricomposizione sotto il cappello degli USA. Ma il fatto stesso di averci partecipato con posizioni che oggi definiremmo “progressiste” ci racconta di un personaggio che non solo chiacchierava, ma a cui qualcuno pure prestava attenzione.
Comunque in questa sede non ci interessa attardarci a discutere dell’influenza effettiva e concreta della teoria keynesiana, ma vorremmo dare un’occhiata alle conseguenze per come si sono tratteggiate nella storia reale.
La seconda guerra mondiale non è stata vinta dagli alleati perché avevano un piano economico per le popolazioni civili, ma è stata vinta mandando eserciti in battaglia, schierando sottomarini e bombardieri, con tecnologie di comunicazione all’avanguardia, con strategie militari e ovviamente con l’alleanza con l’URSS che apre il fronte orientale e infine hanno pure lanciato una bomba atomica.
In tutto questo il keynesismo di guerra non c’entra niente e probabilmente si sarebbe potuto fare tutto ciò anche senza mantenere in piedi il reddito delle classi lavoratrici. Ma l’opuscolo di Keynes è importante perché segnala di un cambio di mentalità che si fa strada nelle classi dirigenti.
Al termine della guerra, inaspettatamente e in maniera un po’ raffazzonata, le promesse keynesiane vengono più o meno mantenute e specie in Inghilterra si avvia un programma di welfare state abbastanza epocale che inaugura una prosperità economica relativamente solida per tutto il vecchio continente. Gli USA invece nello stesso periodo affondano in un politica Maccartista e impiegheranno una decina di anni per liberarsi dalle politiche di austerità.
Per quanto attiene invece al blocco cosiddetto comunista non ci attarderemo a fare analisi, in quanto le politiche di welfare state compaiono molto prima, già al termine della prima guerra mondiale e non è un caso che tantissimi analisti dicano che Keynes le ha copiate pari pari da questi ultimi.
Dunque al termine della seconda guerra mondiale, le promesse sul “consumo differito” per usare l’espressione precisa keynesiana, vengono mantenute.
Ma c’è un altro effetto che si dipana sulla scia della teoria keynesiana, probabilmente non voluto né previsto dall’economista. L’economia di guerra diventa infatti una materia specifica e una risorsa sempre valida a cui ricorrere in tempi di crisi e poiché il capitalismo è sempre in crisi, dal termine della seconda guerra mondiale in avanti la guerra assume una valenza del tutto nuova.
Non si fa più infatti la guerra per vincerla, ma solo per farla. O ancora meglio: non è più importante vincere una guerra per arricchirsi, l’importante è farla. Questo diviene il nuovo modello e paradigma economico di sviluppo – implicito, mai apertamente dichiarato e contradditorio – dell’età contemporanea. Modello economico che si trascina fino ad oggi[1] e di cui dovremmo imparare a fare a meno.
[1] Vedere a tal proposito le recentissime dichiarazioni di Draghi sugli obiettivi dell’economia UE qui
Interessante articolo. Credo che possa collegarsi al concetto di “guerra costituente”. Ogni guerra è il risultato del disgregarsi di un certo ordine. Qua do il caos giunge al suo culmine, le forze n campo tramite la guerra cercano di rideterminare gli assetti mondiali. Credo che oggi ci troviamo dento uno di questi tornarti della storia, e sono molto preoccupato dall’idea che ad influenzare e forse un domani guidare una delle superpotenze in campo possa essere l’uomo più ricco del mondo.
Concordo, anche a me sembra grottesca questa ascesa dell’uomo più ricco del mondo ed è tutta la nuova squadra di governo USA a sembrare orientata a garantire i privilegi della classe più ricca del mondo.