Sono oggi a richiamare la vostra attenzione su un argomento ostico e sicuramente noioso per tanti: il sistema pensionistico, talvolta detto previdenziale.
Negli anni la normativa pensionistica ha visto veri e propri stravolgimenti ed è tradizionalmente stata un campo privilegiato per quel che riguarda la competizione elettorale. O almeno così è stato nei decenni passati. Oggi invece poiché la normativa pensionistica è diventata completamente incomprensibile, tanto da essersi diffuso fra le giovani generazioni il detto che “noi in pensione non ci andremo mai”, il popolo sembra essersi completamente dimenticato che esiste un sistema pensionistico in Italia per cui vale la pena incazzarsi e lottare.
INTRODUZIONE
E’ stata da poco approvata la terza legge di bilancio del governo Meloni. Sembra ieri che ancora scherzavamo dei neofascisti in Italia come di una burletta da teatro dei burattini e invece siamo a quasi due anni e mezzo di governo e alla terza legge finanziaria.
Le schifezze in termini di legislazione prese da questo governo sono tante e tali per cui anche un elenco sarebbe riduttivo, ma è utile richiamarlo per capire il contesto.
Lascio peraltro l’onere di allungare l’elenco a proprio piacimento al lettore.
Partiamo citando la normativa in fatto di immigrazione, varata all’indomani della strage di Cutro che ostacola il salvataggio di vite in mare, istituisce i centri in Albania e limita le possibilità di ottenere permessi umanitari.
Ci sono state poi le normative in materia di lavoro, di cui il primo pacchetto è stato approvato nella giornata del 1° maggio, che hanno liberalizzato il contratto a tempo determinato e quelle più recenti che sono intervenute in materia di “motivi del licenziamento” e tagliato la NASPI per centinaia di migliaia di persone.
Citiamo ancora la normativa fiscale con grossi favori ai redditi medio-alti e che hanno ridotto e quasi invertito la progressività del prelievo fiscale con la conseguenza di pescare sempre di più nelle tasche dei lavoratori poveri e sempre meno in quelle di chi i patrimoni li ha veramente (flat tax; burla degli extra-profitti; detassazione dei redditi da capitale).
E ancora i vari pacchetti sicurezza che a partire dal decreto sui rave, oggi tentano perfino di criminalizzare la resistenza passiva di quanti scendono in strada per protestare.
È stato abolito l’abuso d’ufficio, tipico reato dei colletti bianchi. Chi non è titolare di un ufficio pubblico non può commettere alcun abuso e ora neanche chi è titolare di un ufficio si deve preoccupare di alcunchè.
Per non parlare dell’attacco ai poveri con il taglio del reddito di cittadinanza; dell’approvazione ai vari pacchetti di sostegno all’invio delle armi in Ucraina; del permesso di vendita di armi ad Israele, dell’incremento delle spese militari; dell’approvazione della legge sull’autonomia differenziata e di tutti i progetti ancora in programma.
La normativa a difesa dei privilegi dei ricchi non è certamente una novità introdotta da questo governo e per ognuno di questi provvedimenti si può seguire tutta una stratificazione legislativa che porta nella stessa direzione, tanto che in svariati campi le modifiche sono a un livello così specializzato e tecnico da non far neanche rendere conto dei cambiamenti che prospetta.
Fatta questa lunga premessa, parliamo delle riforme introdotte in materia pensionistica, almeno quelle principali, passate più inosservate perchè sicuramente meno scenografiche, ma comunque peggiorative rispetto al panorama precedente.
CUNEO FISCALE
Nelle ultime due finanziarie la Meloni ha sventolato i benefici derivanti dall’abbassamento del cuneo fiscale.
Ma che cos’è questo cuneo fiscale?
Il cuneo fiscale è quella parte dello stipendio del lavoratore che viene destinato nel fondo di previdenza della pensione1.
Il nome trae in inganno perchè di solito si associa il termine fiscale alle tasse e quindi al reddito personale tassato progressivamente (IRPEF), mentre quando si parla di cuneo fiscale non si sta parlando precisamente delle tasse.
Le tasse noi le paghiamo senza sapere di preciso la destinazione che avranno. Sappiamo che i soldi delle tasse serviranno a finanziare la sanità, la scuola, i comuni, i lavoratori pubblici, che verranno dati in appalto a qualche ditta, che ci costruiranno un ponte o daranno dei soldi ai meno abbienti, che certamente ci pagheranno i poliziotti, l’esercito e le armi, ma nel dettaglio non c’è un collegamento diretto fra i soldi che si versano in tasse e la loro destinazione.
Quando invece parliamo di cuneo fiscale parliamo di una tassa molto particolare, che a ragion di logica non dovrebbe neanche essere considerata tale.
I soldi del cuneo fiscale si sa di preciso a cosa servono e non hanno nessun’altra destinazione possibile: vanno ad alimentare la cassa delle pensioni.
Il cuneo fiscale, in senso largo, è una delle principali fonti di finanziamento di metà della popolazione italiana. Nonni, nonne, mamme e papà che girottolano per tutta Italia facendo acquisti per sé e per le proprie famiglie.
Oltre chiaramente a costituire la forma di finanziamento delle future pensioni dei lavoratori di questo paese.
Dunque che significa ridurre il cuneo fiscale?
Varie cose, nessuna delle quali particolarmente positiva.
1- Innazitutto tagliare i soldi all’INPS significa definanziare direttamente le pensioni di oggi.
Seppure infatti i soldi sono solo un simbolo o un contratto e i governi hanno possibilità di erogarli in forma massiccia quasi all’infinito, sia ai lavoratori, sia ai nonni pensionati, nel concreto della verifica entrate-uscite, tagliare il cuneo fiscale significa che ci sono meno soldi da dare ai pensionati.
2- In secondo luogo tagliare il cuneo fiscale oggi, significa diminuire le pensioni di domani.
I contributi previdenziali infatti vengono versati proprio con lo scopo di andare a costituire un fondo per il pagamento della pensione futura, ma se questi non vengono versati, inutile poi aspettarsi che la pensione verrà erogata.
Cioè costituiscono quello che si chiama salario indiretto.
Salario del lavoratore differito nel tempo e non pressione fiscale. Se viene ridotto, molto semplicemente si taglia la parte differita. Non c’è neanche bisogno di scriverlo nella legge, che per quando i lavoratori andranno in pensione (fra 10 o 30 anni che siano) questo governo non sarà più al potere e nessuno gli chiederà alcunchè.
3- Un’altra interpretazione che vi propongo è invece meno pubblicizzata, ma non meno insidiosa. Infatti la normativa pensionistica è stata interessata da due misure principali di austerità, una collocata nel 1995 la cosiddetta legge Dini (legge 335/1995) e l’altra nel 2011 con la riforma Monti-Fornero. Queste due normative hanno revisionato moltissimo i requisiti richiesti per andare in pensione rispetto a quelli degli anni ’80-’90.
E’ stato allungato il numero di anni per cui dobbiamo lavorare prima di andare in pensione ed è stato tagliato sostanzialmente l’assegno pensionistico che andremo a percepire.
Entrambe queste riforme erano progettate per il domani, cioè non interessavano i requisiti immediati del pensionamento negli anni in cui sono state varate (o non completamente), ma i più grandi stravolgimenti si sarebbero verificati nel futuro. Cioè precisamente negli anni attuali.
Negli ultimi anni, e per qualche anno ancora, i risparmi previsti da queste riforme si sono fatti sostanziosi, cosicchè il saldo fra i soldi che l’INPS eroga annualmente in prestazioni e gli incassi contributivi potrebbe essere in positivo per decine di miliardi di euro2.
Invece di pensare a una riforma e dare la possibilità ai lavoratori di lavorare meno e andare in pensione prima, il governo ha pensato bene di inventarsi questo trucchetto di ridurre il cuneo fiscale per farci lavorare per un numero di anni crescenti ed abbassarci le pensioni future.
4- Nella versione 2025, inoltre, il cuneo fiscale non si configura direttamente come una riduzione dei contributi obbligatori, ma piuttosto come un bonus regalato e finanziato dallo Stato (quindi con fondi di fiscalità generale), ma che non concorre alla determinazione del reddito e su cui di conseguenza né il lavoratore, né il datore di lavoro saranno chiamati a pagare i contributi4.
Proprio in virtù del fatto che questo bonus non entra nel reddito fiscalmente imponibile e in virtù dell’allargamento della platea della not tax area (innalzata dalla precedente di 8147 all’attuale di 8500 euro) i lavoratori che percepiscono un reddito fra gli 8.000 e gli 8.500 euro, pur beneficiando del bonus in questione, che fino all’anno scorso comportava un innalzamento dell’imponibile IRPEF, quest’anno si ritroveranno con un reddito totale minore. Infatti nonostante il bonus non dovranno lo stesso presentare la dichiarazione dei redditi e pertanto si perderanno il bonus previsto per i redditi bassi.
Come a dire: da una parte ti danno dei soldi in busta paga, su cui peraltro non si versano contributi e non incrementano di niente la pensione, dall’altro ti tolgono però il bonus fiscale. In un gioco in cui però, poggio e buca non fanno assolutamente pari5.
Infine si tratta di una misura ad orologeria. Al momento infatti il cuneo fiscale è una misura temporanea e quando verrà revocata, auspicabilmente col cambio di governo, i lavoratori avranno la bella sorpresa di trovarsi il reddito mensile ridotto senza alcuna spiegazione.
DIPENDENTI PUBBLICI
Non si fa in tempo a dire destra al potere che i dipendenti pubblici devono correre a nascondersi da qualche parte sperando di non venir troppo presi di mira.
Certo ci sono classi di popolazione che vengono bastonate più violentemente dei dipendenti pubblici: studenti che vengono bastonati letteralmente nelle piazze, immigrati che vengono lasciati affogare in mare, lavoratori precari che vengono buttati sul lastrico se appena appena fanno sciopero e poveri che vengono abbandonati a se stessi. Per non parlare delle donne a cui addirittura si prospetta di dover andare ad elemosinare un aborto direttamente in faccia ai pro-life.
Comunque è certo che i dipendenti pubblici non sono trattati con tanto amore da questo governo. In materia pensionistica in modo del tutto discrezionale sono stati presi di mira i lavoratori degli enti locali, o meglio, solo quelli iscritti alla cassa pensionistica degli enti locali.
Una delle ragioni per cui si è colpito solo i dipendenti iscritti alla cassa degli enti locali e non anche i dipendenti iscritti alla Cassa Stato è sicuramente che fra questi ultimi ci rientrano tutte le forze dell’ordine (polizia, militari) e non sia mai che questo governo vada a fare uno sgarro alle sue amate divise.
Mentre fra i dipendenti degli enti locali, oltre ai lavoratori dei comuni, delle compagnie di rifiuti, delle varie privatizzate dell’acqua, ci sono anche circa 1,5 milioni di lavoratori della sanità.
E grazie tante per il sacrificio prestato durante la pandemia!
Dunque i dipendenti degli enti locali sono stati interessati da due riforme.
1- A chi va in pensione dal 2024 è stato significativamente tagliato l’assegno pensionistico agendo sui coefficienti di trasformazione fra contributi versati e maturazione dell’assegno pensionistico.
2 – Sempre a partire dal 2024 hanno allungato i requisiti del pensionamento. Mentre tutti i lavoratori vanno in pensione con i requisiti della pensione anticipata e con l’aggiunta di una finestra di 3 mesi, ai dipendenti degli enti locali questa finestra è stata allungata a 9 mesi6.
Vuol dire che dalla maturazione dei circa 42 anni di contributi7 previsti dalla legge Monti-Fornero devono trascorrere 9 mesi per avere diritto alla pensione. Mesi che possono essere lavorati o non lavorati, ma che comunque devono trascorrere. Così finchè erano solo 3 mesi qualcuno poteva scegliere di stringere la cinghia e stare senza stipendio, con 9 mesi di finestra la cosa diventa impossibile da sostenere economicamente.
La ratio di questa norma è chiara: da un lato serve a costringere i lavoratori sul luogo di lavoro anche dopo aver maturato il diritto a pensione, dall’altro lato c’è un calcolo molto utilitaristico nei confronti proprio dei dipendenti della sanità pubblica. Questi ultimi infatti cercano, tutti, strade per scappare il prima possibile dalle insostenibili condizioni di lavoro degli ospedali italiani, cosicchè se sono giovani si rivolgono in massa alla sanità privata, ma quando invece sono a fine carriera l’unico modo per convincerli a continuare a lavorare è quella di costringerli, allungando solo per loro i requisiti pensionistici.
PENSIONI CONTRIBUTIVE
Ma alla fin fine cosa ci importa dei lavoratori sessantenni?
Se non si incazzano per le loro pensioni, peggio per loro. Pensiamo alle nostre di pensioni!
In Italia infatti non esiste una normativa pensionistica unificata, ma esistono due sistemi di pensionamento.
Il primo è per i vecchi lavoratori, il secondo è per i nuovi lavoratori. La data spartiacque è il 31/12/1995.
Chi ha un contributo registrato al 31/12/1995 rientra nel sistema misto e fa capo alle varie normative varate dal 1945 al 1995, combinate con la legge 335/1995 (riforma Dini) e con la riforma Monti-Fornero.
Chi invece è iscritto a partire dal 1° gennaio 1996 rientra nel sistema contributivo e fa capo interamente alla normativa Dini, con le modifiche che successivamente stanno inserendo.
Ed è su questo versante che si prepara seriamente l’assalto alla diligenza.
La normativa pensionistica è stata la prima su cui si è fruttuosamente sperimentato il doppio sistema di diritti che vige in questo paese che poi è stato tanto ben implementato dal Job’s Act renziano. Si è creata cioè una divisione importante fra lavoratori ante ’95 e lavoratori post ’95.
I primi più tutelati dei secondi.
Come detto, quando si era nel 1995 progettare un nuovo modello pensionistico per i lavoratori cd. post ’95 significava progettare un sistema di pensionamento che sarebbe entrato in vigore come minimo 30 anni dopo e i cui effetti non erano immediatamente percepibili.
La ratio alla base della normativa era così formulata: poiché il sistema pensionistico dell’epoca era troppo dispendioso bisognava riformarlo, questo sopratutto in virtù del bisogno di rispettare i requisiti di ingresso in Unione Europea. Gli eventi che fecero tremare le casse dell’INPS erano in realtà contingenti e dovuti da un lato a macro-processi economici; dall’altro a errori finanziari dello Stato veri e propri8. Ma la narrazione che ne venne proposta era invece quella che affermava che il modello di calcolo delle pensioni era troppo generoso, cioè le pensioni che venivano erogate erano troppo alte.
E volendo seguire questo ragionamento verrebbe però da porsi una semplice domanda: da dove uscivano quei milioni di pensionati che vivevano sotto il livello di povertà e su cui un losco figuro come Berlusconi riuscì a fare la sua campagna elettorale principale (adeguamento al milione), se le pensioni degli anni ’90 erano veramente così alte?
Comunque la narrazione degli anni ’90 era che le pensioni fossero troppo alte perchè si basavano su quello che veniva chiamato sistema retributivo a capitalizzazione.
Dunque introduciamo qui altri due coppie concettuali molto di moda: “modello retributivo” vs “contributivo” e “sistema a capitalizzazione” vs “a ripartizione”.
Nella riforma del 1995 noi siamo passati da un modello retributivo a capitalizzazione ad un modello contributivo a ripartizione.
La coppia retributivo/contributivo fa riferimento al modo di calcolare la pensione.
Nel modello retributivo la pensione veniva calcolata sostanzialmente sulla media degli ultimi 10 anni di stipendio9. Cioè si trova lo stipendio medio e lo si moltiplica per un rendimento maturato in base agli anni di lavoro. Ogni anno vale circa il 2%. Cosicchè dopo 40 anni di lavoro si ha diritto all’80% dello stipendio medio degli ultimi 10 anni10. Se si lavorava più di 40 anni comunque esisteva una normativa che bloccava il calcolo all’80%.
Nel sistema contributivo, in vigore dal 1995, il calcolo si complica.
Non si prende più a riferimento lo stipendio medio, ma il montante contributivo.
Dal 1996 a tutte le casse pensionistiche, comprese quelle dei dipendenti pubblici, iniziano effettivamente ad arrivare i contributi per i propri lavoratori. Così i contributi versati, vengono accantonati e vanno a formare un montante (annualmente rivalutato). Arrivati al giorno del pensionamento questo montante determina la pensione che si andrà a percepire.
Per determinare l’importo della pensione, il montante viene diviso per un coefficiente rivisto ogni due anni. Ed è dal 1995 che ripetutamente e sistematicamente questi coefficienti vengono ridotti determinando un ammontare calante della pensione11.
Poniamo il caso che si sia accumulato un montante di 400.000 euro12, questo montante nel 1995 veniva diviso per 6,136% (a 67 anni di età) e determinava una pensione annua di 24.544 euro. Oggi invece (ultima approvazione 2025) questo coefficiente è stato ridotto a 5,608% e determina una pensione annua di 22.432 euro.
Dopo 40 anni di lavoro col retributivo invece si prendevano 24.000 euro, oggi invece si avrebbero 22.432 euro (a 67 anni di età). Una perdita del 6,50% circa (con 40 anni di lavoro e 67 anni di età).
Quanto all’opposizione fra il sistema a capitalizzazione e il sistema a ripartizione, qui la differenza è puramente inventata e la si usa a bella posta per fare scena di conoscere termini complicati.
Il sistema a capitalizzazione infatti prevede un modello in cui i contributi – tutti insieme quelli dell’intero ente previdenziale – vengono investiti in attività che rendono qualche cosa e coi risparmi così generati si dovrebbero pagare le pensioni.
Il sistema a ripartizione invece prevede che con i contributi versati oggi dai lavoratori, si paghi oggi la pensione dei pensionati viventi.
Insomma il sistema a capitalizzazione sta ad indicare un modello in cui i lavoratori e i loro contributi sono in numero maggiore dei pensionati ed era valido solo nei primi decenni del dopoguerra. Quello a ripartizione invece punta a raggiungere il pareggio fra entrate e uscite.
In realtà però il passaggio al sistema a ripartizione serve ad introdurre un concetto nella gestione dei conti pubblici e cioè che se le entrate, e cioè i contributi versati per i lavoratori attivi, diminuiscono, altrettanto devono fare le uscite e cioè i soldi che si erogano in pensioni.
È, per sintetizzare, la stessa zuppa del pareggio di bilancio in costituzione.
Le riforme delle ultime finanziarie in materia di pensioni contributive non sono molto appariscenti, ma comunque significative.
Per andare in pensione col modello contributivo, non basta aver lavorato un certo numero di anni e raggiungere una certa età, ma bisogna anche raggiungere un importo soglia della pensione mensile (vedi oltre).
Questo perchè?
Dopo averci tanto pensato non sono riuscita a darmi altra spiegazione che la seguente: “se, pur avendo lavorato tu tantissimi anni, il calcolo della tua pensione è troppo basso è chiaro ed evidente e lampante come il sole che non potrai mantenerti economicamente con la pensione, dunque è meglio che continui a lavorare. Anzi, invece che è meglio, sei proprio obbligato a farlo! Se viceversa sei ricco puoi pure non lavorare più”. D’altronde l’importo sogia è stato introdotto proprio dalla Fornero.
In questo senso le riforme del governo Meloni non hanno fatto altro che confermare l’andazzo della normativa del 1995.
I – hanno alzato l’importo soglia per la pensione anticipata contributiva e previsto un incremento anche per il futuro. Era di 2,8 volte l’Assegno Sociale fino al 2023. L’anno scorso è diventato di 3 volte AS e nel 2030 diventerà 3,2 volte AS13
II- hanno incrementato il requisito per l’anticipata contributiva, erano 20 anni fino al 2023. Diventano 25 da quest’anno e 30 nel 2030.
III- hanno previsto la possibilità di sommare anche le quote della previdenza complementare per raggiungere questi importi soglia (vedi oltre).
Insomma in teoria, sorvolando sugli errori di bilancio dello Stato, sorvolando sulle trasformazioni nella struttura produttiva italiana, sorvolando sulla perdita secca di un 6-7% di rendimento delle pensioni, tutto sembra filare.
Se ci sono pochi contributi, si tagliano le pensioni.
Se si allunga l’età media, si ritarda il momento di andare in pensione.
Il sacrificio sulla carta è relativo, ma il vantaggio è quello di stare dentro il sistema economico europeo. Vantaggio che dovrebbe servire a compensare i sacrifici degli aspiranti pensionati.
Ma è proprio così?
Fila veramente tutto così liscio nella realtà come fila sulla carta?
LIMITI DELL’ATTUALE MODELLO PENSIONISTICO
Quello pensionistico è un modello assicurativo.
E non si chiede a un’assicurazione di essere giusta.
Mi sono trovata in questi giorni a dover sottoscrivere un’assicurazione sugli incendi. Per 30 anni di assicurazione mi hanno fatto pagare meno di 600 euro, con la motivazione che ormai gli incendi non scoppiano più e pertanto si può pagare un premio di 20 euro l’anno per un evento che se succedesse mi rimborserebbe di decine di migliaia.
Ma a stare a sentire le notizie di quanto accaduto a Los Angeles, le compagnie assicurative sapevano già da tempo che sarebbe successo un incendio epocale e avevano disdetto tutti i contratti con gli assicurati.
Perchè le assicurazioni sono così, ti assicurano per un evento che statisticamente non succederà e se invece diventa probabile, allora la copertura assicurativa sparisce improvvisamente.
Non si chiede alle assicurazioni di essere giuste.
Da un modello di previdenza statale invece è proprio la giustizia che ci si aspetta.
Il passaggio dal retributivo al contributivo nella narrazione ufficiale è stato giustificato come un passaggio da un sistema in cui la pensione era un diritto pagato da altri soggetti a un sistema in cui quello che versi è quello che avrai di pensione. Si è fatta pulizia di tutti i privilegi14, ma si è fatta pulizia anche di tanti diritti.
Tirando un po’ le fila del ragionamento ci sono vari aspetti da sottolineare che costituiscono problemi molto grossi dell’attuale modello pensionistico. E ora vi svelerò tutte le magagne.
1- Il problema principale e qui lo riportiamo per primo è quello del legame che si crea fra gli stipendi percepiti nel corso della carriera lavorativa e il calcolo della pensione. Come visto, nel retributivo l’arco temporale preso a riferimento per il calcolo della pensione era esclusivamente quello degli ultimi 10 anni di carriera, mentre col contributivo il calcolo viene fatto a partire dal primo contributo accreditato.
La ratio l’abbiamo già più volte richiamata: si tratta della retorica del “pagarsi da sé la pensione” del non regalare niente ai pensionati. La pensione è esclusivamente e unicamente quella per cui sono stati versati i contributi e da questa matematica non si scappa.
Ma il problema che si profila all’orizzonte in merito all’importo delle pensioni future, in virtù di questo meccanismo, è gigantesco.
Come visto, a stipendi costanti in un intero arco temporale di 40 anni, la differenza fra l’importo calcolato col retributivo e quello calcolato col contributivo è significativa, ma non abissale.
Il problema però è che i lavoratori che possano vantare uno stipendio stabile nell’arco della carriera lavorativa non sono tutti e non sono di certo neanche una maggioranza qualificata.
Chiariamo: anche col retributivo se gli ultimi 10 anni di stipendio erano bassi, la pensione sarebbe venuta bassa a sua volta e ne esistono di persone sessantenni che percepiscono uno stipendio basso. Ma l’idea di usare solo gli ultimi 10 anni per trovare l’importo medio, serviva proprio ad individuare il periodo della carriera che nella maggioranza dei casi segnava la stabilità raggiunta del lavoratore.
Prendendo invece a riferimento l’intera carriera lavorativa, inevitabilmente si impatterà con due tipi di problemi.
I – da un lato il problema dei lavoratori precari e dei lavoratori poveri. Nell’attuale modello produttivo infatti sono tantissime le persone che passano ben più della metà della propria carriera lavorativa in condizioni di precarietà. Saltando da un lavoro all’altro, alla ricerca di quello che sia il lavoro stabile. O che pur avendo un lavoro stabile, ci mettono tantissimi anni a raggiungere un livello salariale adeguato. Questo a causa della selva di contratti utilizzabili dalle aziende che proprio la variabile del salario vanno a comprimere.
È un problema di equità molto importante su cui occorrerebbe fare ragionamenti seri.
II – dall’altro lato anche per i lavoratori più qualificati, a meno che non siano proprio iper-qualificati, non è facile raggiungere gli importi soglia per il pensionamento anticipato a 64 anni di età in quanto la carriera lavorativa è inevitabilmente più breve, dato che per accedere a lavori qualificati bisogna portare avanti lunghi periodi di formazione che non sono affatto retribuiti e che ritardano di molto l’ingresso nel mondo del lavoro. In sintesi se si avessero 40 anni di carriera ai 64 anni di età, si riuscirebbe effettivamente a perdere poco terreno rispetto al retributivo, ma è molto difficile accumulare tutta quella anzianità a 64 anni di età.
2- La retorica insopportabile e indigeribile che martella i lavoratori sostenendo che il nostro sistema previdenziale non si basa solo sui contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro, ma DEVE fagocitare in tutti i modi anche i soldi del TFR.
Questa riforma, voluta da Pier Ferdinando Casini e sostenuta a spada tratta dal PD, sostiene che il nostro sistema previdenziale si basa su 3 pilastri. I contributi obbligatori del lavoratore e del datore di lavoro e il TFR. Senza TFR tutta la struttura previdenziale italiana è destinata a crollare miseramente a terra, schiacciata dall’insostenibilità economica e dallo squilibrio di dover pagare delle pensioni dopo che sono stati versati fior fiore di contributi.
Caso strano questo TFR da utilizzare, a titolo del tutto e completamente volontario, non e sottolineo non è gestito dall’INPS, ma da fondi privati. Peraltro la scelta del fondo è spesso incoraggiata o vincolata, nel senso che ogni ramo di lavoratori ha un fondo specifico dedicato e non ne può scegliere un altro.
E guarda sempre che strana coincidenza, questi fondi sono gestiti dai sindacati confederali.
Ora, se la CGIL gestisce un fondo pensione, un lavoratore penserà che senza dubbio è una buona cosa fatta nell’interesse del lavoratore stesso. Ci mancherebbe altro!
Infatti alla CGIL, attenzione, non gestiscono un fondo di rischio che va ad investire nel mercato finanziario, ma una normale forma assicurativa ricalcata più o meno sul modello dell’INPS, dove i TFR versati oggi, servono a pagare le quote di pensione di oggi.
Dunque di che preoccuparsi?
A- intanto può sorgere il sospetto che la CGIL non si batta proprio contro se stessa e pertanto che, a prescindere da qualunque motivazione, sosterrà sempre che è bene deviare i soldi del TFR alla previdenza complementare. Alla sua chiaramente.
B- C’è poi il contentino che se dai il tuo TFR alla previdenza complementare, anche il datore di lavoro è costretto a dare un 1,5% di quanto tu versi ad incremento del tuo stesso versamento. Che per essere proprio pignoli quando si parla di contributi nelle casse dell’INPS questo calcolo è fatto invece nella misura del 200% di quanto versa il lavoratore.
C- C’è il piccolissimo problema che una volta che devi il tuo TFR alla CGIL quella non te lo rende finchè non hai raggiunto i requisiti pensionistici. E quando raggiungi i requisiti pensionistici te lo rende solo un pochino per volta. Cosicchè se rimani senza lavoro o per qualche motivo vuoi licenziarti e cambiare vita ti ritrovi come nell’800 sbattuto per strada e senza un soldo di buona uscita.
D- C’è la retorica che i lavoratori non sappiano amministrare i propri soldi e che quindi non sia bene a fine carriera di dargli un par di decine di migliaia di euro in contanti, per farsi una vacanza, comprarsi una macchina o pagare il matrimonio della figlia.
Che d’altronde nel nostro paese, si respira con l’aria il puzzo della miseria e seppure hai lavorato tutta una vita, anche da vecchio devi avere paura che lo Stato ti abbandoni e di non poter contare su niente.
E- infine, ovviamente, c’è una mera questione economica. I soldi del TFR, infatti, sono normati per legge e se stanno dentro l’azienda vengono rivalutati al costo della vita, cioè all’inflazione. Mica come i contratti del pubblico impiego. Il nostro TFR nell’ultimo triennio in azienda è cresciuto di un 15% senza stare tanto a mercanteggiare. I fondi della CGIL purtroppo non possono fare altrettanto. Perchè la CGIL, per quanti servizi possa offrire, non è un’azienda produttiva e l’inflazione la subisce, non può cavalcarla.
3- L’obiettivo non dichiarato della normativa pensionistica, ma certo non molto ben nascosto, è di portare tutti a lavorare fino a 67 anni di età. Stando ben attenti che se l’allungamento della vita media dovesse continuare questo limite si incrementerà ulteriormente per via dell’automatismo introdotto dalla Fornero.
Il meccanismo di adeguamento all’allungamento della vita media prevede infatti che se l’aspettativa di vita aumenta, anche il requisito pensionistico aumenta; viceversa quando diminuisce non si abbassano i requisiti ma solo si bloccano. Cioè non tornano mai indietro.
Questo meccanismo è stato bloccato per via legislativa solo sperimentalmente dal governo dei 5S e poi si è bloccato da solo per via dell’avvento del covid.
Ma non è mai tornato indietro.
4- Non esiste in nessun altro paese d’Europa un requisito pensionistico così elevato. Chi si avvicina più di tutti è la Germania che colloca a riposo al più tardi a 65 anni di età.
5- Esistono e sono in costruzione varie forme di pensionamento anticipato. Sia nel modello retributivo, sia in quello contributivo.
Citiamo solo di passaggio la sperimentazione di quota 100 che è stata in vigore per 3 anni e poi archiviata con tanti saluti.
In generale si può dire che la pensione anticipata è ormai diventata una merce a tutto tondo. Annualmente il governo si inventa una nuovo prodotto pensionistico che vale solo per l’anno in corso come se si andasse a comprare in una boutique: che modello di pensione mi propone quest’anno? Quanto devo dimagrire per infilarmi in quel bustino?
Le forme più selvagge si sono sperimentate peraltro proprio sulla pelle delle donne a cui, se hanno carichi familiari aggiuntivi, vengono proposti sistemi pensionistici che ti permettono di occuparti dei tuoi cari per 24 ore al giorno, ma che in compenso ti tolgono un 40% abbondante di pensione15.
Esistono anche modelli deluxe, accessibili a quanti hanno percepito stipendi altissimi. Anche in questo caso sono previsti, solitamente, tagli all’assegno pensionistico, ma in questi casi si passa da stipendi da capogiro a una pensione corrispondente al reddito medio di un lavoratore dipendente a tempo indeterminato con 40 anni di carriera. Insomma una pensione decente. Ma, appunto, accessibile solo a chi ha guadagnato già abbastanza per mettersi da parte tutti i soldi necessari a continuare a vivere nel lusso, anche con una pensione normale.
6- Il problema della rivalutazione. Esiste una differenza importante anche in termini di rivalutazione degli stipendi per il calcolo dell’assegno.
Nel retributivo gli stipendi presi a riferimento per il calcolo della pensione non sono quelli nominali, ma quelli rivalutati in base all’inflazione. Questo per non penalizzare i pensionati. Dal momento che gli stipendi usati sono quelli degli ultimi 10 anni e dato che è facile che in 10 anni ci siano forti sbalzi inflattivi che facciano perdere valore al salario, questo viene automaticamente adeguato all’inflazione, così che alla fine si abbia un importo più veritiero dello stipendio percepito.
Nel contributivo, invece, che indicatore hanno scelto per la rivalutazione? Non l’inflazione, ma la crescita del PIL e bontà loro che quando il PIL diminuisce non erodono il montante, ma solo lo lasciano identico.
Non voglio entrare troppo nel dettaglio di questa scelta, ma è chiaro che hanno scelto l’indicatore più basso di tutti. Non è ipotizzabile neanche nel 1995 che sperassero che il paese potesse fare chissà che forte crescita economica.
Il PIL come indicatore ha problemi importantissimi e in primo luogo che viene gonfiato anche attraverso produzioni nocive. Le guerre, se combattute in altri paesi, fanno crescere il PIL. Se c’è un epidemia che fa lavorare a pieno regime gli imprenditori di pompe funebri cresce il PIL. Insomma il PIL è il semplice numeratore delle attività economiche di un paese, non importa se siano giuste o desiderabili.
Inoltre, cosa importante per il discorso che stiamo facendo oggi, il PIL espresso in termini percentuali tende a decrescere. Non può proprio crescere all’infinito. Perchè, e dovrebbe risultare semplice da capire, crescere di un 2-3% quando la produzione dell’anno precedente equivale a 100 miliardi è abbastanza facile (+ 2/3 miliardi), ma fare lo stesso salto percentuale quando la produzione di riferimento è di 1000 mld (+20/30 miliardi) è tutto un altro paio di maniche.
Tutti lo sanno, lo insegnano alle superiori nell’ABC dell’economia: le economie in via di sviluppo hanno tassi di crescita elevati proprio perchè iniziano percorsi di produzione industriale che li fanno galoppare in termini di crescita, ma per i paesi avanzati che hanno già raggiunto il massimo della capacità produttiva non è altrettanto facile far innalzare la percentuale del PIL.
Il che non significa che il paese cade in rovina! Stare stazionari su un sistema di ricchezza non ha niente di negativo.
Ma legare l’incremento pensionistico al PIL vuol dire penalizzare le pensioni.
7- Problema dei doppi requisiti. Come visto esistono due sistemi di pensionamento in Italia. Questi due sistemi di pensionamento non riguardano solo il calcolo della pensione, ma anche i requisiti per accedere al pensionamento. Così per chi è nel modello ante ’95 i requisiti del pensionamento sono quelli più o meno noti e richiamati anche in questo articolo.
Tutte le forme di pensionamento anticipato, dagli APE sociale alla pensione anticipata, dai precoci ad opzione donna sono tutte forme previste solo per chi ha un contributo ante ’95 e non si sa niente se queste forme facilitate di pensionamento verranno previste anche nel modello contributivo.
Allo stesso modo, ma in maniera speculare si porrà il problema col maxi gradone del 31/12/1995. Via via che passa il tempo infatti cresce il numero di quanti si troveranno con pochissima anzianità al ’95 (e quindi con un beneficio in termini di assegno pensionistico minimo) per arrivare alla situazione limite di chi avrà solo una settimana accreditata nel ’95 e si ritroverà a dover aspettare per andare in pensione il raggiungimento dei requisiti Monti-Fornero.
Nel modello contributivo, infatti ad oggi sono previste solo 3 uscite pensionistiche. A 64 anni di età; a 67 anni o a 71. Per quanti possono ambire a raggiungere l’uscita ai 64 anni di età, a normativa vigente, avere anzianità al 31/12/1995 diventa un problema irrisolvibile16.
8- Problema degli importi soglia. Tenete a mente il termine importo soglia perchè ne sentirete tanto parlare nella vostra carriera lavorativa.
L’importo soglia è stato introdotto dalla l. 214/2011 esclusivamente per chi si trova nel modello contributivo e prevede che non si possa andare in pensione, neanche con l’anzianità e l’età richiesta dalla normativa, se il proprio assegno pensionistico non supera una certa soglia.
Ora, come detto, il calcolo della pensione col modello contributivo risulta penalizzante rispetto al retributivo e inoltre dipende strettamente dal reddito percepito e dai contributi versati.
Questo vuol dire semplicemente che in pensione a 64 anni di età ci possano andare solo ed esclusivamente i redditi alti e nessun altro. Non lavoratori dipendenti, non autonomi o commercianti, non lavoratori pubblici.
Inoltre questo importo soglia è calcolato su un multiplo dell’assegno sociale. L’assegno sociale è la vecchia pensione sociale che viene data a 67 anni se 1- non si può accedere alla pensione normale perchè o ci sono pochi contributi o non si è mai lavorato addirittura; 2- in base al reddito. Insomma l’assegno sociale è la prestazione assistenziale per gli indigenti.
Legare l’importo soglia a un multiplo dell’assegno sociale vuol dire che se anche un governo, un giorno, volesse incrementare il sostentamento per gli anziani poveri, manderebbe in crisi tutti gli aspiranti pensionati, scatenando così una guerra fra poveri.
Certo è una normativa che grida vendetta e dovrà essere cambiata, ma per il momento è ancora in vigore.
9- Le pensioni indirette e di inabilità. Chiariamo subito: questo tipo di pensioni sono del tutto residuali nel sistema pensionistico, riguardano i casi in cui il lavoratore deceda prima di aver raggiunto l’età pensionabile oppure, per un qualunque motivo, diventi inabile al lavoro.
Teniamo conto che parliamo di due eventi che non migliorano in nessun modo la qualità di vita dei familiari superstiti17 o del lavoratore inabile, ma la rendono più gravosa. La perdita del reddito da lavoro infatti precipita anche il reddito del nucleo familiare.
La pensione indiretta o la pensione di inabilità anche nel modello retributivo non avevano benefici particolari18 e si beccavano il calcolo della pensione maturata al momento del decesso o della certificazione di inabilità.
Anche in questo caso, in cui ci aspetterebbe che una condizione come questa venga tutelata e garantita, invece di migliorare la normativa, i legislatori del 1995 sono riusciti a peggiorarla.
La perdita in termini di assegno pensionistico in questo caso non è più del 6,5% ma, se il decesso occorre prima dei 57 anni, si attesta intorno al 33% per ridursi poi progressivamente coll’aumentare dell’età.
Perchè hanno tagliato queste prestazioni? Chiaramente sempre perchè la pensione erogata deve corrispondere precisamente ai contributi versati. Neanche per mandare i figli all’università si possono fare sconti. Non parliamo se poi ti capita di perdere il marito o la moglie coi bambini ancora in fasce. Fai prima ad andare a fare l’elemosina ai bordi delle strade che i passanti distratti sono comunque più generosi dei freddi contabili dello Stato italiano.
10- Per completare il quadro citiamo da ultimo anche il fatto che moltissime maggiorazioni previste per legge (e ce ne sono di ogni tipo, per il tipo di lavoro svolto se pericoloso, per il lavoro svolto in zone disagiate, per le inabilità, ecc..) sono sopravvissute al passaggio al sistema contributivo, ma sono state completamente depotenziate. Nel senso che servono ad incrementare l’anzianità, ma non invece l’importo dell’assegno, cosa che invece avveniva nel sistema retributivo. Essendo presenti requisiti di importo soglia così alti, perciò, le maggiorazioni risultano per essere del tutto inutili.
L’unica categoria che si salva sono i ciechi assoluti per cui la maggiorazione vale sia per il diritto che per la misura.
PROPOSTE E ULTERIORI PROBLEMI
Al termine della lettura dell’articolo potrebbe balenare il pensiero che il nostro Stato non abbia poi molta voglia di garantire i lavoratori nell’ultima parte della loro vita e che anzi faccia di tutto per ritardare il momento dell’accesso alla pensione e il costo della previdenza.
Sarebbe bello dire che è un’idea sbagliata. Oppure che era così, ma oggi le cose stanno cambiando.
La verità è che l’opinione comune in questo caso è molto vicina alla realtà.
Chiaramente la speranza che le cose possano cambiare rimane forte, ma trattandosi di una materia che parla ai lavoratori di quella che sarà la loro vita fra 30 o 40 anni ci vorrebbe un po’ meno di incertezza e un po’ più di idee chiare.
Per esempio i lavoratori che oggi in numero consistente sono laureati o con specializzazioni formative importanti, dovrebbero sapere se conviene o no riscattare gli anni di studio.
Con l’attuale sistema previdenziale, infatti, riscattare il titolo di studio si configura né più né meno che come un atto di beneficenza nei confronti dell’ente previdenziale e non come un investimento sul proprio futuro. A memoria, credo che sia la prima volta che capita.
Inoltre mentre ci sono paesi in Europa – l’Europa dell’austerity – che riconoscono gli anni di studio come direttamente utili alla pensione, cioè a costo zero per il lavoratore, in Italia abbiamo addirittura spedito una pletora intera di giovani a fare lavoro gratuito con la buona scuola, senza prevedere né assicurazione infortunistica (introdotta solo a seguito del verificarsi di incidenti mortali di minorenni) né copertura previdenziale.
Le proposte per riformare il sistema previdenziale dunque devono ancora essere pensate. Io qui mi limito a dare giusto qualche idea.
In generale bisogna certamente mettere mano a tutti i problemi detti prima. Per cui la mancanza di forme agevolate di pensione per i lavori usuranti (gravosi, nocivi o comunque li si voglia chiamare), va inserita. Vanno previste forme di tutela maggiori per tutti i diritti costituzionalmente tutelati (inabilità, superstiti, ecc..). Va garantita una contribuzione, almeno figurativa se non proprio obbligatoria, per gli studenti della buona scuola. Va ampliata la platea dei riscatti possibili, migliorando però il calcolo fra il pagato e quanto si accredita nel montante.
Va studiata una possibilità di optare al contributivo, anche nell’accesso ai requisiti per tutti i lavoratori che hanno pochissima anzianità al 1995.
Va eliminato del tutto l’importo soglia che non ha ragione di esistere nel momento in cui si prevedono requisiti di età e anzianità precisi. Il raggiungimento di un importo soglia è un requisito puramente discriminatorio che dà l’accesso solo ai lavoratori più fortunati.
Va abbassata l’età della pensione. Dai 71 anni in cui si liquida a chi ha meno di 20 anni di contribuzione, bisogna abbassarla a 67 anni che è l’età in cui qualunque datore di lavoro caccia a calci in culo i lavoratori, che abbiano o meno diritto a pensione.
La vecchiaia ordinaria deve invece essere abbassata dagli attuali 67 anni ai 65. Si possono chiaramente prevedere forme di trattenimento in servizio volontarie, ma queste possono essere veramente volontarie, solo se l’importo della pensione è sostanzioso ed equiparabile a quello dello stipendio (chiaramente la pensione sarà sempre più bassa dello stipendio, ma perchè in pensione si spende anche meno rispetto a quando si lavora, fosse anche solo perchè non si prendono i mezzi o la macchina per recarsi a lavoro, non si mangia fuori così spesso e insomma lavorare, come sanno tutti, comporta costi anche per il lavoratore).
La pensione anticipata deve essere abbassata dagli attuali 64 a 60 anni.
Questo anche per dare la possibilità ai pochi lavoratori giovani ancora esistenti di prendere effettivamente parte al mercato del lavoro.
Quanto al calcolo della pensione, spesso si sente la proposta di tornare ad un sistema retributivo. Di sicuro un modello retributivo semplificherebbe il calcolo della pensione, ma resterebbe comunque molto dispendioso per chi a fine carriera fa l’impennata di reddito e per cui ci sarebbe lo stesso bisogno di correttivi, che non è così facile inserire.
Se invece si volesse mettere mano al contributivo, senza cancellarlo, allora il discorso diventerebbe quello di studiare un sistema di valorizzazione dei contributi che porti ad ottenere una pensione dignitosa per tutta la vecchiaia. Provocatoriamente questa rivalutazione potrebbe essere l’indicatore migliore fra la crescita del PIL e l’inflazione, ma realisticamente si potrebbe invece prevedere un sistema che valorizza il meglio fra la crescita effettiva e una crescita presunta dello 0,5% del PIL.
Ci sono almeno due retoriche che occorre contrastare:
1 – la prima quella dei costi. Riformare in senso progressivo il panorama pensionistico costa troppo.
2 – proprio in virtù dell’invecchiamento della popolazione il sistema previdenziale deve ridurre il proprio budget.
Quanto ai costi, è certo: per fare le riforme servono i soldi. Le fonti di finanziamento però, come abbiamo visto scorrendo le problematiche, esistono. Si tratta innanzitutto di eliminare gli sgravi contributivi, sia per i lavoratori che per i datori di lavoro. Per mandare in pensione la gente bisogna spendere e anche per far lavorare la gente bisogna spendere.
Il fatto stesso di aver introdotto la prescrizione dei contributi a 5 anni19 nell’epoca della digitalizzazione in cui è molto più facile che tracce di un rapporto di lavoro in nero possano essere reperite, ci fa capire da che parte guarda la nostra classe di governo.
Bisogna poi alzare i salari, non esiste altro sistema sicuro e stabile per alzare i contributi.
È importante l’introduzione del salario minimo, ma tenendo conto che il salario minimo in INPS esiste già. C’è infatti un minimale contributivo da versare nel momento in cui si registra un rapporto di lavoro dipendente, che corrisponde a un salario di circa 9,30 euro l’ora, annualmente rivalutato. Così succede che il contributo per il salario minimo viene già versato e l’introduzione di un salario legale al datore di lavoro costerebbe solo i soldi materiali in più da versare al lavoratore.
Dico per dire, non che ci si debba incazzare con gli imprenditori che risparmiano anche là dove già spendono di tasca propria.
È imprescindibile però una battaglia per l’aumento salariale di tutti i lavoratori, che fra il minimo legale e una vita dignitosa comunque di soldi in busta in paga da mettere ne servono assai.
Si potrebbero incentivare i lavoratori stessi a riscattare e prevedere forme di copertura contributiva. L’agevolazione fiscale aiuta, ma non convince, se l’idea generale è che pur lavorando e pur riscattando, la pensione sarà comunque più bassa del 40-50% rispetto allo stipendio.
Si dovrebbe mettere mano seriamente alla normativa sul gradone del 1995. Esistono situazioni, molte situazioni, in cui chi ha un contributo al 1995 – e mancano ancora almeno 15 anni prima che questi contributi cessino di fare danno – anche per la parte contributiva non vede l’applicazione del massimale. Spiego: il massimale opera per i lavoratori del contributivo, quelli post ’95, che laddove guadagnino oltre una certa soglia (circa 106.000 euro l’anno, annualmente rivalutato) il contributo versato comunque si ferma alla soglia indicata.
Chi però ha anche solo un contributo prima del 1995 vede versarsi l’intero ammontare dei contributi. Questo comporta un dispendio in termini di pensione che è enorme, sopratutto per la quota retributiva, che come abbiamo visto prende a riferimento gli ultimi anni della carriera. Così manager di ogni fatta e dimensione che facilmente guadagnano a fine carriera medie stipendiali di 500.000 euro (e anche superiori) si trovano applicati rendimenti pensionistici per i primi anni di carriera (in cui magari facevano i cantastorie o i lavapiatti, come spesso gli piace raccontare) da capogiro.
Molto semplicemente, se davvero c’è interesse a inserire e rispettare un massimale, questo deve esserci anche col sistema misto. Da oggi in avanti, per i redditi superiori a 106.000 l’anno si applichi il massimale anche per la parte retributiva, cosicchè almeno gli abbassiamo un po’ la media.
Poi vediamo che fanno gli imprenditori: se si incazzano vuol dire che la norma è giusta!
Quanto alla retorica dell’invecchiamento della popolazione, sul tema, tutti i più patinati economisti si affollano a immaginare un futuro di crisi e distruzione per tutta la società. Bisogna stare attenti perchè è un discorso assolutamente deprimente.
Da un lato parla di un futuro in cui le giovani generazioni non potranno prosperare e crescere felici perchè tutte le risorse saranno rubate dai vecchi, dall’altro di un futuro in cui i vecchi saranno abbandonati a se stessi perchè non ci saranno abbastanza risorse per sostenerli.
Il risvolto sulle pensioni poi è così declinato: non basta aver fatto tutti i tagli che sono già stati fatti, lo stesso nel futuro lo squilibrio fra contributi versati e pensioni si allargherà al punto da mandare in rovina le casse dell’INPS, motivo per cui ci sarà bisogno di tagliare ulteriormente.
Secondo me è un problema esasperato di proposito per inserire un principio semplice: le pensioni pubbliche non sono sostenibili, in nessun caso, per cui ognuno deve pensare per sé e farsi la pensione privata.
In realtà anche una compagnia privata vivrebbe lo scompenso demografico, ma il problema sarebbe nascosto per due motivi molto semplici. Il primo è che il destino delle società private non entra in un dibattito pubblico, per cui una compagnia che dichiarasse fallimento per insostenibilità finanziaria manderebbe gambe all’aria i suoi assicurati e questo non sarebbe un problema pubblico. L’altro motivo è che una compagnia privata pur facendo pagare premi giganteschi potrebbe sempre ridurre a piacimento l’erogazione delle pensioni, anche vigenti, perchè di nuovo, non sarebbe un problema pubblico, ma solo degli assicurati.
Quindi dal mio punto di vista la retorica dell’invecchiamento è assolutamente inventata e certamente, se proprio dobbiamo affrontarla da un punto di vista finanziario, quello che si può dire è che quanto più si spende oggi, tanto meno dovremo spendere domani. Garantire pensioni dignitose, significa garantire un po’ di autonomia in più ai pensionati. Se questa autonomia viene a cadere, ci ritroveremo invece con un problema di ordine pubblico molto più dispendioso da affrontare.
Note