Pensioni italiane: se 40 anni vi sembran pochi

Sono oggi a richiamare la vostra attenzione su un argomento ostico e sicuramente noioso per tanti: il sistema pensionistico, talvolta detto previdenziale.

Negli anni la normativa pensionistica ha visto veri e propri stravolgimenti ed è tradizionalmente stata un campo privilegiato per quel che riguarda la competizione elettorale. O almeno così è stato nei decenni passati. Oggi invece poiché la normativa pensionistica è diventata completamente incomprensibile, tanto da essersi diffuso fra le giovani generazioni il detto che “noi in pensione non ci andremo mai”, il popolo sembra essersi completamente dimenticato che esiste un sistema pensionistico in Italia per cui vale la pena incazzarsi e lottare.

INTRODUZIONE

E’ stata da poco approvata la terza legge di bilancio del governo Meloni. Sembra ieri che ancora scherzavamo dei neofascisti in Italia come di una burletta da teatro dei burattini e invece siamo a quasi due anni e mezzo di governo e alla terza legge finanziaria.
Le schifezze in termini di legislazione prese da questo governo sono tante e tali per cui anche un elenco sarebbe riduttivo, ma è utile richiamarlo per capire il contesto.
Lascio peraltro l’onere di allungare l’elenco a proprio piacimento al lettore.
Partiamo citando la normativa in fatto di immigrazione, varata all’indomani della strage di Cutro che ostacola il salvataggio di vite in mare, istituisce i centri in Albania e limita le possibilità di ottenere permessi umanitari.
Ci sono state poi le normative in materia di lavoro, di cui il primo pacchetto è stato approvato nella giornata del 1° maggio, che hanno liberalizzato il contratto a tempo determinato e quelle più recenti che sono intervenute in materia di “motivi del licenziamento” e tagliato la NASPI per centinaia di migliaia di persone.
Citiamo ancora la normativa fiscale con grossi favori ai redditi medio-alti e che hanno ridotto e quasi invertito la progressività del prelievo fiscale con la conseguenza di pescare sempre di più nelle tasche dei lavoratori poveri e sempre meno in quelle di chi i patrimoni li ha veramente (flat tax; burla degli extra-profitti; detassazione dei redditi da capitale).
E ancora i vari pacchetti sicurezza che a partire dal decreto sui rave, oggi tentano perfino di criminalizzare la resistenza passiva di quanti scendono in strada per protestare.
È stato abolito l’abuso d’ufficio, tipico reato dei colletti bianchi. Chi non è titolare di un ufficio pubblico non può commettere alcun abuso e ora neanche chi è titolare di un ufficio si deve preoccupare di alcunchè.
Per non parlare dell’attacco ai poveri con il taglio del reddito di cittadinanza; dell’approvazione ai vari pacchetti di sostegno all’invio delle armi in Ucraina; del permesso di vendita di armi ad Israele, dell’incremento delle spese militari; dell’approvazione della legge sull’autonomia differenziata e di tutti i progetti ancora in programma.

La normativa a difesa dei privilegi dei ricchi non è certamente una novità introdotta da questo governo e per ognuno di questi provvedimenti si può seguire tutta una stratificazione legislativa che porta nella stessa direzione, tanto che in svariati campi le modifiche sono a un livello così specializzato e tecnico da non far neanche rendere conto dei cambiamenti che prospetta.

Fatta questa lunga premessa, parliamo delle riforme introdotte in materia pensionistica, almeno quelle principali, passate più inosservate perchè sicuramente meno scenografiche, ma comunque peggiorative rispetto al panorama precedente.

CUNEO FISCALE

Nelle ultime due finanziarie la Meloni ha sventolato i benefici derivanti dall’abbassamento del cuneo fiscale.
Ma che cos’è questo cuneo fiscale?
Il cuneo fiscale è quella parte dello stipendio del lavoratore che viene destinato nel fondo di previdenza della pensione1.
Il nome trae in inganno perchè di solito si associa il termine fiscale alle tasse e quindi al reddito personale tassato progressivamente (IRPEF), mentre quando si parla di cuneo fiscale non si sta parlando precisamente delle tasse.
Le tasse noi le paghiamo senza sapere di preciso la destinazione che avranno. Sappiamo che i soldi delle tasse serviranno a finanziare la sanità, la scuola, i comuni, i lavoratori pubblici, che verranno dati in appalto a qualche ditta, che ci costruiranno un ponte o daranno dei soldi ai meno abbienti, che certamente ci pagheranno i poliziotti, l’esercito e le armi, ma nel dettaglio non c’è un collegamento diretto fra i soldi che si versano in tasse e la loro destinazione.
Quando invece parliamo di cuneo fiscale parliamo di una tassa molto particolare, che a ragion di logica non dovrebbe neanche essere considerata tale.
I soldi del cuneo fiscale si sa di preciso a cosa servono e non hanno nessun’altra destinazione possibile: vanno ad alimentare la cassa delle pensioni.
Il cuneo fiscale, in senso largo, è una delle principali fonti di finanziamento di metà della popolazione italiana. Nonni, nonne, mamme e papà che girottolano per tutta Italia facendo acquisti per sé e per le proprie famiglie.
Oltre chiaramente a costituire la forma di finanziamento delle future pensioni dei lavoratori di questo paese.

Dunque che significa ridurre il cuneo fiscale?
Varie cose, nessuna delle quali particolarmente positiva.

1- Innazitutto tagliare i soldi all’INPS significa definanziare direttamente le pensioni di oggi.
Seppure infatti i soldi sono solo un simbolo o un contratto e i governi hanno possibilità di erogarli in forma massiccia quasi all’infinito, sia ai lavoratori, sia ai nonni pensionati, nel concreto della verifica entrate-uscite, tagliare il cuneo fiscale significa che ci sono meno soldi da dare ai pensionati.

2- In secondo luogo tagliare il cuneo fiscale oggi, significa diminuire le pensioni di domani.
I contributi previdenziali infatti vengono versati proprio con lo scopo di andare a costituire un fondo per il pagamento della pensione futura, ma se questi non vengono versati, inutile poi aspettarsi che la pensione verrà erogata.
Cioè costituiscono quello che si chiama salario indiretto.
Salario del lavoratore differito nel tempo e non pressione fiscale. Se viene ridotto, molto semplicemente si taglia la parte differita. Non c’è neanche bisogno di scriverlo nella legge, che per quando i lavoratori andranno in pensione (fra 10 o 30 anni che siano) questo governo non sarà più al potere e nessuno gli chiederà alcunchè.

3- Un’altra interpretazione che vi propongo è invece meno pubblicizzata, ma non meno insidiosa. Infatti la normativa pensionistica è stata interessata da due misure principali di austerità, una collocata nel 1995 la cosiddetta legge Dini (legge 335/1995) e l’altra nel 2011 con la riforma Monti-Fornero. Queste due normative hanno revisionato moltissimo i requisiti richiesti per andare in pensione rispetto a quelli degli anni ’80-’90.
E’ stato allungato il numero di anni per cui dobbiamo lavorare prima di andare in pensione ed è stato tagliato sostanzialmente l’assegno pensionistico che andremo a percepire.
Entrambe queste riforme erano progettate per il domani, cioè non interessavano i requisiti immediati del pensionamento negli anni in cui sono state varate (o non completamente), ma i più grandi stravolgimenti si sarebbero verificati nel futuro. Cioè precisamente negli anni attuali.
Negli ultimi anni, e per qualche anno ancora, i risparmi previsti da queste riforme si sono fatti sostanziosi, cosicchè il saldo fra i soldi che l’INPS eroga annualmente in prestazioni e gli incassi contributivi potrebbe essere in positivo per decine di miliardi di euro2.
Invece di pensare a una riforma e dare la possibilità ai lavoratori di lavorare meno e andare in pensione prima, il governo ha pensato bene di inventarsi questo trucchetto di ridurre il cuneo fiscale per farci lavorare per un numero di anni crescenti ed abbassarci le pensioni future.

4- Nella versione 2025, inoltre, il cuneo fiscale non si configura direttamente come una riduzione dei contributi obbligatori, ma piuttosto come un bonus regalato e finanziato dallo Stato (quindi con fondi di fiscalità generale), ma che non concorre alla determinazione del reddito e su cui di conseguenza né il lavoratore, né il datore di lavoro saranno chiamati a pagare i contributi4.
Proprio in virtù del fatto che questo bonus non entra nel reddito fiscalmente imponibile e in virtù dell’allargamento della platea della not tax area (innalzata dalla precedente di 8147 all’attuale di 8500 euro) i lavoratori che percepiscono un reddito fra gli 8.000 e gli 8.500 euro, pur beneficiando del bonus in questione, che fino all’anno scorso comportava un innalzamento dell’imponibile IRPEF, quest’anno si ritroveranno con un reddito totale minore. Infatti nonostante il bonus non dovranno lo stesso presentare la dichiarazione dei redditi e pertanto si perderanno il bonus previsto per i redditi bassi.
Come a dire: da una parte ti danno dei soldi in busta paga, su cui peraltro non si versano contributi e non incrementano di niente la pensione, dall’altro ti tolgono però il bonus fiscale. In un gioco in cui però, poggio e buca non fanno assolutamente pari5.

Infine si tratta di una misura ad orologeria. Al momento infatti il cuneo fiscale è una misura temporanea e quando verrà revocata, auspicabilmente col cambio di governo, i lavoratori avranno la bella sorpresa di trovarsi il reddito mensile ridotto senza alcuna spiegazione.

DIPENDENTI PUBBLICI

Non si fa in tempo a dire destra al potere che i dipendenti pubblici devono correre a nascondersi da qualche parte sperando di non venir troppo presi di mira.
Certo ci sono classi di popolazione che vengono bastonate più violentemente dei dipendenti pubblici: studenti che vengono bastonati letteralmente nelle piazze, immigrati che vengono lasciati affogare in mare, lavoratori precari che vengono buttati sul lastrico se appena appena fanno sciopero e poveri che vengono abbandonati a se stessi. Per non parlare delle donne a cui addirittura si prospetta di dover andare ad elemosinare un aborto direttamente in faccia ai pro-life.
Comunque è certo che i dipendenti pubblici non sono trattati con tanto amore da questo governo. In materia pensionistica in modo del tutto discrezionale sono stati presi di mira i lavoratori degli enti locali, o meglio, solo quelli iscritti alla cassa pensionistica degli enti locali.
Una delle ragioni per cui si è colpito solo i dipendenti iscritti alla cassa degli enti locali e non anche i dipendenti iscritti alla Cassa Stato è sicuramente che fra questi ultimi ci rientrano tutte le forze dell’ordine (polizia, militari) e non sia mai che questo governo vada a fare uno sgarro alle sue amate divise.
Mentre fra i dipendenti degli enti locali, oltre ai lavoratori dei comuni, delle compagnie di rifiuti, delle varie privatizzate dell’acqua, ci sono anche circa 1,5 milioni di lavoratori della sanità.
E grazie tante per il sacrificio prestato durante la pandemia!

Dunque i dipendenti degli enti locali sono stati interessati da due riforme.

1- A chi va in pensione dal 2024 è stato significativamente tagliato l’assegno pensionistico agendo sui coefficienti di trasformazione fra contributi versati e maturazione dell’assegno pensionistico.

2 – Sempre a partire dal 2024 hanno allungato i requisiti del pensionamento. Mentre tutti i lavoratori vanno in pensione con i requisiti della pensione anticipata e con l’aggiunta di una finestra di 3 mesi, ai dipendenti degli enti locali questa finestra è stata allungata a 9 mesi6.
Vuol dire che dalla maturazione dei circa 42 anni di contributi7 previsti dalla legge Monti-Fornero devono trascorrere 9 mesi per avere diritto alla pensione. Mesi che possono essere lavorati o non lavorati, ma che comunque devono trascorrere. Così finchè erano solo 3 mesi qualcuno poteva scegliere di stringere la cinghia e stare senza stipendio, con 9 mesi di finestra la cosa diventa impossibile da sostenere economicamente.
La ratio di questa norma è chiara: da un lato serve a costringere i lavoratori sul luogo di lavoro anche dopo aver maturato il diritto a pensione, dall’altro lato c’è un calcolo molto utilitaristico nei confronti proprio dei dipendenti della sanità pubblica. Questi ultimi infatti cercano, tutti, strade per scappare il prima possibile dalle insostenibili condizioni di lavoro degli ospedali italiani, cosicchè se sono giovani si rivolgono in massa alla sanità privata, ma quando invece sono a fine carriera l’unico modo per convincerli a continuare a lavorare è quella di costringerli, allungando solo per loro i requisiti pensionistici.

PENSIONI CONTRIBUTIVE

Ma alla fin fine cosa ci importa dei lavoratori sessantenni?
Se non si incazzano per le loro pensioni, peggio per loro. Pensiamo alle nostre di pensioni!
In Italia infatti non esiste una normativa pensionistica unificata, ma esistono due sistemi di pensionamento.
Il primo è per i vecchi lavoratori, il secondo è per i nuovi lavoratori. La data spartiacque è il 31/12/1995.
Chi ha un contributo registrato al 31/12/1995 rientra nel sistema misto e fa capo alle varie normative varate dal 1945 al 1995, combinate con la legge 335/1995 (riforma Dini) e con la riforma Monti-Fornero.
Chi invece è iscritto a partire dal 1° gennaio 1996 rientra nel sistema contributivo e fa capo interamente alla normativa Dini, con le modifiche che successivamente stanno inserendo.
Ed è su questo versante che si prepara seriamente l’assalto alla diligenza.
La normativa pensionistica è stata la prima su cui si è fruttuosamente sperimentato il doppio sistema di diritti che vige in questo paese che poi è stato tanto ben implementato dal Job’s Act renziano. Si è creata cioè una divisione importante fra lavoratori ante ’95 e lavoratori post ’95.
I primi più tutelati dei secondi.
Come detto, quando si era nel 1995 progettare un nuovo modello pensionistico per i lavoratori cd. post ’95 significava progettare un sistema di pensionamento che sarebbe entrato in vigore come minimo 30 anni dopo e i cui effetti non erano immediatamente percepibili.
La ratio alla base della normativa era così formulata: poiché il sistema pensionistico dell’epoca era troppo dispendioso bisognava riformarlo, questo sopratutto in virtù del bisogno di rispettare i requisiti di ingresso in Unione Europea. Gli eventi che fecero tremare le casse dell’INPS erano in realtà contingenti e dovuti da un lato a macro-processi economici; dall’altro a errori finanziari dello Stato veri e propri8. Ma la narrazione che ne venne proposta era invece quella che affermava che il modello di calcolo delle pensioni era troppo generoso, cioè le pensioni che venivano erogate erano troppo alte.
E volendo seguire questo ragionamento verrebbe però da porsi una semplice domanda: da dove uscivano quei milioni di pensionati che vivevano sotto il livello di povertà e su cui un losco figuro come Berlusconi riuscì a fare la sua campagna elettorale principale (adeguamento al milione), se le pensioni degli anni ’90 erano veramente così alte?
Comunque la narrazione degli anni ’90 era che le pensioni fossero troppo alte perchè si basavano su quello che veniva chiamato sistema retributivo a capitalizzazione.
Dunque introduciamo qui altri due coppie concettuali molto di moda: “modello retributivo” vs “contributivo” e “sistema a capitalizzazione” vs “a ripartizione”.
Nella riforma del 1995 noi siamo passati da un modello retributivo a capitalizzazione ad un modello contributivo a ripartizione.

La coppia retributivo/contributivo fa riferimento al modo di calcolare la pensione.
Nel modello retributivo la pensione veniva calcolata sostanzialmente sulla media degli ultimi 10 anni di stipendio9. Cioè si trova lo stipendio medio e lo si moltiplica per un rendimento maturato in base agli anni di lavoro. Ogni anno vale circa il 2%. Cosicchè dopo 40 anni di lavoro si ha diritto all’80% dello stipendio medio degli ultimi 10 anni10. Se si lavorava più di 40 anni comunque esisteva una normativa che bloccava il calcolo all’80%.
Nel sistema contributivo, in vigore dal 1995, il calcolo si complica.
Non si prende più a riferimento lo stipendio medio, ma il montante contributivo.
Dal 1996 a tutte le casse pensionistiche, comprese quelle dei dipendenti pubblici, iniziano effettivamente ad arrivare i contributi per i propri lavoratori. Così i contributi versati, vengono accantonati e vanno a formare un montante (annualmente rivalutato). Arrivati al giorno del pensionamento questo montante determina la pensione che si andrà a percepire.
Per determinare l’importo della pensione, il montante viene diviso per un coefficiente rivisto ogni due anni. Ed è dal 1995 che ripetutamente e sistematicamente questi coefficienti vengono ridotti determinando un ammontare calante della pensione11.
Poniamo il caso che si sia accumulato un montante di 400.000 euro12, questo montante nel 1995 veniva diviso per 6,136% (a 67 anni di età) e determinava una pensione annua di 24.544 euro. Oggi invece (ultima approvazione 2025) questo coefficiente è stato ridotto a 5,608% e determina una pensione annua di 22.432 euro.
Dopo 40 anni di lavoro col retributivo invece si prendevano 24.000 euro, oggi invece si avrebbero 22.432 euro (a 67 anni di età). Una perdita del 6,50% circa (con 40 anni di lavoro e 67 anni di età).

Quanto all’opposizione fra il sistema a capitalizzazione e il sistema a ripartizione, qui la differenza è puramente inventata e la si usa a bella posta per fare scena di conoscere termini complicati.
Il sistema a capitalizzazione infatti prevede un modello in cui i contributi – tutti insieme quelli dell’intero ente previdenziale – vengono investiti in attività che rendono qualche cosa e coi risparmi così generati si dovrebbero pagare le pensioni.
Il sistema a ripartizione invece prevede che con i contributi versati oggi dai lavoratori, si paghi oggi la pensione dei pensionati viventi.
Insomma il sistema a capitalizzazione sta ad indicare un modello in cui i lavoratori e i loro contributi sono in numero maggiore dei pensionati ed era valido solo nei primi decenni del dopoguerra. Quello a ripartizione invece punta a raggiungere il pareggio fra entrate e uscite.
In realtà però il passaggio al sistema a ripartizione serve ad introdurre un concetto nella gestione dei conti pubblici e cioè che se le entrate, e cioè i contributi versati per i lavoratori attivi, diminuiscono, altrettanto devono fare le uscite e cioè i soldi che si erogano in pensioni.
È, per sintetizzare, la stessa zuppa del pareggio di bilancio in costituzione.

Le riforme delle ultime finanziarie in materia di pensioni contributive non sono molto appariscenti, ma comunque significative.
Per andare in pensione col modello contributivo, non basta aver lavorato un certo numero di anni e raggiungere una certa età, ma bisogna anche raggiungere un importo soglia della pensione mensile (vedi oltre).
Questo perchè?
Dopo averci tanto pensato non sono riuscita a darmi altra spiegazione che la seguente: “se, pur avendo lavorato tu tantissimi anni, il calcolo della tua pensione è troppo basso è chiaro ed evidente e lampante come il sole che non potrai mantenerti economicamente con la pensione, dunque è meglio che continui a lavorare. Anzi, invece che è meglio, sei proprio obbligato a farlo! Se viceversa sei ricco puoi pure non lavorare più”. D’altronde l’importo sogia è stato introdotto proprio dalla Fornero.
In questo senso le riforme del governo Meloni non hanno fatto altro che confermare l’andazzo della normativa del 1995.

I – hanno alzato l’importo soglia per la pensione anticipata contributiva e previsto un incremento anche per il futuro. Era di 2,8 volte l’Assegno Sociale fino al 2023. L’anno scorso è diventato di 3 volte AS e nel 2030 diventerà 3,2 volte AS13

II- hanno incrementato il requisito per l’anticipata contributiva, erano 20 anni fino al 2023. Diventano 25 da quest’anno e 30 nel 2030.

III- hanno previsto la possibilità di sommare anche le quote della previdenza complementare per raggiungere questi importi soglia (vedi oltre).

Insomma in teoria, sorvolando sugli errori di bilancio dello Stato, sorvolando sulle trasformazioni nella struttura produttiva italiana, sorvolando sulla perdita secca di un 6-7% di rendimento delle pensioni, tutto sembra filare.
Se ci sono pochi contributi, si tagliano le pensioni.
Se si allunga l’età media, si ritarda il momento di andare in pensione.
Il sacrificio sulla carta è relativo, ma il vantaggio è quello di stare dentro il sistema economico europeo. Vantaggio che dovrebbe servire a compensare i sacrifici degli aspiranti pensionati.
Ma è proprio così?
Fila veramente tutto così liscio nella realtà come fila sulla carta?

LIMITI DELL’ATTUALE MODELLO PENSIONISTICO

Quello pensionistico è un modello assicurativo.
E non si chiede a un’assicurazione di essere giusta.
Mi sono trovata in questi giorni a dover sottoscrivere un’assicurazione sugli incendi. Per 30 anni di assicurazione mi hanno fatto pagare meno di 600 euro, con la motivazione che ormai gli incendi non scoppiano più e pertanto si può pagare un premio di 20 euro l’anno per un evento che se succedesse mi rimborserebbe di decine di migliaia.
Ma a stare a sentire le notizie di quanto accaduto a Los Angeles, le compagnie assicurative sapevano già da tempo che sarebbe successo un incendio epocale e avevano disdetto tutti i contratti con gli assicurati.
Perchè le assicurazioni sono così, ti assicurano per un evento che statisticamente non succederà e se invece diventa probabile, allora la copertura assicurativa sparisce improvvisamente.
Non si chiede alle assicurazioni di essere giuste.

Da un modello di previdenza statale invece è proprio la giustizia che ci si aspetta.
Il passaggio dal retributivo al contributivo nella narrazione ufficiale è stato giustificato come un passaggio da un sistema in cui la pensione era un diritto pagato da altri soggetti a un sistema in cui quello che versi è quello che avrai di pensione. Si è fatta pulizia di tutti i privilegi14, ma si è fatta pulizia anche di tanti diritti.
Tirando un po’ le fila del ragionamento ci sono vari aspetti da sottolineare che costituiscono problemi molto grossi dell’attuale modello pensionistico. E ora vi svelerò tutte le magagne.

1- Il problema principale e qui lo riportiamo per primo è quello del legame che si crea fra gli stipendi percepiti nel corso della carriera lavorativa e il calcolo della pensione. Come visto, nel retributivo l’arco temporale preso a riferimento per il calcolo della pensione era esclusivamente quello degli ultimi 10 anni di carriera, mentre col contributivo il calcolo viene fatto a partire dal primo contributo accreditato.
La ratio l’abbiamo già più volte richiamata: si tratta della retorica del “pagarsi da sé la pensione” del non regalare niente ai pensionati. La pensione è esclusivamente e unicamente quella per cui sono stati versati i contributi e da questa matematica non si scappa.
Ma il problema che si profila all’orizzonte in merito all’importo delle pensioni future, in virtù di questo meccanismo, è gigantesco.
Come visto, a stipendi costanti in un intero arco temporale di 40 anni, la differenza fra l’importo calcolato col retributivo e quello calcolato col contributivo è significativa, ma non abissale.
Il problema però è che i lavoratori che possano vantare uno stipendio stabile nell’arco della carriera lavorativa non sono tutti e non sono di certo neanche una maggioranza qualificata.
Chiariamo: anche col retributivo se gli ultimi 10 anni di stipendio erano bassi, la pensione sarebbe venuta bassa a sua volta e ne esistono di persone sessantenni che percepiscono uno stipendio basso. Ma l’idea di usare solo gli ultimi 10 anni per trovare l’importo medio, serviva proprio ad individuare il periodo della carriera che nella maggioranza dei casi segnava la stabilità raggiunta del lavoratore.
Prendendo invece a riferimento l’intera carriera lavorativa, inevitabilmente si impatterà con due tipi di problemi.

I – da un lato il problema dei lavoratori precari e dei lavoratori poveri. Nell’attuale modello produttivo infatti sono tantissime le persone che passano ben più della metà della propria carriera lavorativa in condizioni di precarietà. Saltando da un lavoro all’altro, alla ricerca di quello che sia il lavoro stabile. O che pur avendo un lavoro stabile, ci mettono tantissimi anni a raggiungere un livello salariale adeguato. Questo a causa della selva di contratti utilizzabili dalle aziende che proprio la variabile del salario vanno a comprimere.
È un problema di equità molto importante su cui occorrerebbe fare ragionamenti seri.

II – dall’altro lato anche per i lavoratori più qualificati, a meno che non siano proprio iper-qualificati, non è facile raggiungere gli importi soglia per il pensionamento anticipato a 64 anni di età in quanto la carriera lavorativa è inevitabilmente più breve, dato che per accedere a lavori qualificati bisogna portare avanti lunghi periodi di formazione che non sono affatto retribuiti e che ritardano di molto l’ingresso nel mondo del lavoro. In sintesi se si avessero 40 anni di carriera ai 64 anni di età, si riuscirebbe effettivamente a perdere poco terreno rispetto al retributivo, ma è molto difficile accumulare tutta quella anzianità a 64 anni di età.

2- La retorica insopportabile e indigeribile che martella i lavoratori sostenendo che il nostro sistema previdenziale non si basa solo sui contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro, ma DEVE fagocitare in tutti i modi anche i soldi del TFR.
Questa riforma, voluta da Pier Ferdinando Casini e sostenuta a spada tratta dal PD, sostiene che il nostro sistema previdenziale si basa su 3 pilastri. I contributi obbligatori del lavoratore e del datore di lavoro e il TFR. Senza TFR tutta la struttura previdenziale italiana è destinata a crollare miseramente a terra, schiacciata dall’insostenibilità economica e dallo squilibrio di dover pagare delle pensioni dopo che sono stati versati fior fiore di contributi.
Caso strano questo TFR da utilizzare, a titolo del tutto e completamente volontario, non e sottolineo non è gestito dall’INPS, ma da fondi privati. Peraltro la scelta del fondo è spesso incoraggiata o vincolata, nel senso che ogni ramo di lavoratori ha un fondo specifico dedicato e non ne può scegliere un altro.
E guarda sempre che strana coincidenza, questi fondi sono gestiti dai sindacati confederali.
Ora, se la CGIL gestisce un fondo pensione, un lavoratore penserà che senza dubbio è una buona cosa fatta nell’interesse del lavoratore stesso. Ci mancherebbe altro!
Infatti alla CGIL, attenzione, non gestiscono un fondo di rischio che va ad investire nel mercato finanziario, ma una normale forma assicurativa ricalcata più o meno sul modello dell’INPS, dove i TFR versati oggi, servono a pagare le quote di pensione di oggi.
Dunque di che preoccuparsi?

A- intanto può sorgere il sospetto che la CGIL non si batta proprio contro se stessa e pertanto che, a prescindere da qualunque motivazione, sosterrà sempre che è bene deviare i soldi del TFR alla previdenza complementare. Alla sua chiaramente.

B- C’è poi il contentino che se dai il tuo TFR alla previdenza complementare, anche il datore di lavoro è costretto a dare un 1,5% di quanto tu versi ad incremento del tuo stesso versamento. Che per essere proprio pignoli quando si parla di contributi nelle casse dell’INPS questo calcolo è fatto invece nella misura del 200% di quanto versa il lavoratore.

C- C’è il piccolissimo problema che una volta che devi il tuo TFR alla CGIL quella non te lo rende finchè non hai raggiunto i requisiti pensionistici. E quando raggiungi i requisiti pensionistici te lo rende solo un pochino per volta. Cosicchè se rimani senza lavoro o per qualche motivo vuoi licenziarti e cambiare vita ti ritrovi come nell’800 sbattuto per strada e senza un soldo di buona uscita.

D- C’è la retorica che i lavoratori non sappiano amministrare i propri soldi e che quindi non sia bene a fine carriera di dargli un par di decine di migliaia di euro in contanti, per farsi una vacanza, comprarsi una macchina o pagare il matrimonio della figlia.
Che d’altronde nel nostro paese, si respira con l’aria il puzzo della miseria e seppure hai lavorato tutta una vita, anche da vecchio devi avere paura che lo Stato ti abbandoni e di non poter contare su niente.

E- infine, ovviamente, c’è una mera questione economica. I soldi del TFR, infatti, sono normati per legge e se stanno dentro l’azienda vengono rivalutati al costo della vita, cioè all’inflazione. Mica come i contratti del pubblico impiego. Il nostro TFR nell’ultimo triennio in azienda è cresciuto di un 15% senza stare tanto a mercanteggiare. I fondi della CGIL purtroppo non possono fare altrettanto. Perchè la CGIL, per quanti servizi possa offrire, non è un’azienda produttiva e l’inflazione la subisce, non può cavalcarla.

3- L’obiettivo non dichiarato della normativa pensionistica, ma certo non molto ben nascosto, è di portare tutti a lavorare fino a 67 anni di età. Stando ben attenti che se l’allungamento della vita media dovesse continuare questo limite si incrementerà ulteriormente per via dell’automatismo introdotto dalla Fornero.
Il meccanismo di adeguamento all’allungamento della vita media prevede infatti che se l’aspettativa di vita aumenta, anche il requisito pensionistico aumenta; viceversa quando diminuisce non si abbassano i requisiti ma solo si bloccano. Cioè non tornano mai indietro.
Questo meccanismo è stato bloccato per via legislativa solo sperimentalmente dal governo dei 5S e poi si è bloccato da solo per via dell’avvento del covid.
Ma non è mai tornato indietro.

4- Non esiste in nessun altro paese d’Europa un requisito pensionistico così elevato. Chi si avvicina più di tutti è la Germania che colloca a riposo al più tardi a 65 anni di età.

5- Esistono e sono in costruzione varie forme di pensionamento anticipato. Sia nel modello retributivo, sia in quello contributivo.
Citiamo solo di passaggio la sperimentazione di quota 100 che è stata in vigore per 3 anni e poi archiviata con tanti saluti.
In generale si può dire che la pensione anticipata è ormai diventata una merce a tutto tondo. Annualmente il governo si inventa una nuovo prodotto pensionistico che vale solo per l’anno in corso come se si andasse a comprare in una boutique: che modello di pensione mi propone quest’anno? Quanto devo dimagrire per infilarmi in quel bustino?
Le forme più selvagge si sono sperimentate peraltro proprio sulla pelle delle donne a cui, se hanno carichi familiari aggiuntivi, vengono proposti sistemi pensionistici che ti permettono di occuparti dei tuoi cari per 24 ore al giorno, ma che in compenso ti tolgono un 40% abbondante di pensione15.
Esistono anche modelli deluxe, accessibili a quanti hanno percepito stipendi altissimi. Anche in questo caso sono previsti, solitamente, tagli all’assegno pensionistico, ma in questi casi si passa da stipendi da capogiro a una pensione corrispondente al reddito medio di un lavoratore dipendente a tempo indeterminato con 40 anni di carriera. Insomma una pensione decente. Ma, appunto, accessibile solo a chi ha guadagnato già abbastanza per mettersi da parte tutti i soldi necessari a continuare a vivere nel lusso, anche con una pensione normale.

6- Il problema della rivalutazione. Esiste una differenza importante anche in termini di rivalutazione degli stipendi per il calcolo dell’assegno.
Nel retributivo gli stipendi presi a riferimento per il calcolo della pensione non sono quelli nominali, ma quelli rivalutati in base all’inflazione. Questo per non penalizzare i pensionati. Dal momento che gli stipendi usati sono quelli degli ultimi 10 anni e dato che è facile che in 10 anni ci siano forti sbalzi inflattivi che facciano perdere valore al salario, questo viene automaticamente adeguato all’inflazione, così che alla fine si abbia un importo più veritiero dello stipendio percepito.
Nel contributivo, invece, che indicatore hanno scelto per la rivalutazione? Non l’inflazione, ma la crescita del PIL e bontà loro che quando il PIL diminuisce non erodono il montante, ma solo lo lasciano identico.
Non voglio entrare troppo nel dettaglio di questa scelta, ma è chiaro che hanno scelto l’indicatore più basso di tutti. Non è ipotizzabile neanche nel 1995 che sperassero che il paese potesse fare chissà che forte crescita economica.
Il PIL come indicatore ha problemi importantissimi e in primo luogo che viene gonfiato anche attraverso produzioni nocive. Le guerre, se combattute in altri paesi, fanno crescere il PIL. Se c’è un epidemia che fa lavorare a pieno regime gli imprenditori di pompe funebri cresce il PIL. Insomma il PIL è il semplice numeratore delle attività economiche di un paese, non importa se siano giuste o desiderabili.
Inoltre, cosa importante per il discorso che stiamo facendo oggi, il PIL espresso in termini percentuali tende a decrescere. Non può proprio crescere all’infinito. Perchè, e dovrebbe risultare semplice da capire, crescere di un 2-3% quando la produzione dell’anno precedente equivale a 100 miliardi è abbastanza facile (+ 2/3 miliardi), ma fare lo stesso salto percentuale quando la produzione di riferimento è di 1000 mld (+20/30 miliardi) è tutto un altro paio di maniche.
Tutti lo sanno, lo insegnano alle superiori nell’ABC dell’economia: le economie in via di sviluppo hanno tassi di crescita elevati proprio perchè iniziano percorsi di produzione industriale che li fanno galoppare in termini di crescita, ma per i paesi avanzati che hanno già raggiunto il massimo della capacità produttiva non è altrettanto facile far innalzare la percentuale del PIL.
Il che non significa che il paese cade in rovina! Stare stazionari su un sistema di ricchezza non ha niente di negativo.
Ma legare l’incremento pensionistico al PIL vuol dire penalizzare le pensioni.

7- Problema dei doppi requisiti. Come visto esistono due sistemi di pensionamento in Italia. Questi due sistemi di pensionamento non riguardano solo il calcolo della pensione, ma anche i requisiti per accedere al pensionamento. Così per chi è nel modello ante ’95 i requisiti del pensionamento sono quelli più o meno noti e richiamati anche in questo articolo.
Tutte le forme di pensionamento anticipato, dagli APE sociale alla pensione anticipata, dai precoci ad opzione donna sono tutte forme previste solo per chi ha un contributo ante ’95 e non si sa niente se queste forme facilitate di pensionamento verranno previste anche nel modello contributivo.
Allo stesso modo, ma in maniera speculare si porrà il problema col maxi gradone del 31/12/1995. Via via che passa il tempo infatti cresce il numero di quanti si troveranno con pochissima anzianità al ’95 (e quindi con un beneficio in termini di assegno pensionistico minimo) per arrivare alla situazione limite di chi avrà solo una settimana accreditata nel ’95 e si ritroverà a dover aspettare per andare in pensione il raggiungimento dei requisiti Monti-Fornero.
Nel modello contributivo, infatti ad oggi sono previste solo 3 uscite pensionistiche. A 64 anni di età; a 67 anni o a 71. Per quanti possono ambire a raggiungere l’uscita ai 64 anni di età, a normativa vigente, avere anzianità al 31/12/1995 diventa un problema irrisolvibile16.

8- Problema degli importi soglia. Tenete a mente il termine importo soglia perchè ne sentirete tanto parlare nella vostra carriera lavorativa.
L’importo soglia è stato introdotto dalla l. 214/2011 esclusivamente per chi si trova nel modello contributivo e prevede che non si possa andare in pensione, neanche con l’anzianità e l’età richiesta dalla normativa, se il proprio assegno pensionistico non supera una certa soglia.
Ora, come detto, il calcolo della pensione col modello contributivo risulta penalizzante rispetto al retributivo e inoltre dipende strettamente dal reddito percepito e dai contributi versati.
Questo vuol dire semplicemente che in pensione a 64 anni di età ci possano andare solo ed esclusivamente i redditi alti e nessun altro. Non lavoratori dipendenti, non autonomi o commercianti, non lavoratori pubblici.
Inoltre questo importo soglia è calcolato su un multiplo dell’assegno sociale. L’assegno sociale è la vecchia pensione sociale che viene data a 67 anni se 1- non si può accedere alla pensione normale perchè o ci sono pochi contributi o non si è mai lavorato addirittura; 2- in base al reddito. Insomma l’assegno sociale è la prestazione assistenziale per gli indigenti.
Legare l’importo soglia a un multiplo dell’assegno sociale vuol dire che se anche un governo, un giorno, volesse incrementare il sostentamento per gli anziani poveri, manderebbe in crisi tutti gli aspiranti pensionati, scatenando così una guerra fra poveri.
Certo è una normativa che grida vendetta e dovrà essere cambiata, ma per il momento è ancora in vigore.

9- Le pensioni indirette e di inabilità. Chiariamo subito: questo tipo di pensioni sono del tutto residuali nel sistema pensionistico, riguardano i casi in cui il lavoratore deceda prima di aver raggiunto l’età pensionabile oppure, per un qualunque motivo, diventi inabile al lavoro.
Teniamo conto che parliamo di due eventi che non migliorano in nessun modo la qualità di vita dei familiari superstiti17 o del lavoratore inabile, ma la rendono più gravosa. La perdita del reddito da lavoro infatti precipita anche il reddito del nucleo familiare.
La pensione indiretta o la pensione di inabilità anche nel modello retributivo non avevano benefici particolari18 e si beccavano il calcolo della pensione maturata al momento del decesso o della certificazione di inabilità.
Anche in questo caso, in cui ci aspetterebbe che una condizione come questa venga tutelata e garantita, invece di migliorare la normativa, i legislatori del 1995 sono riusciti a peggiorarla.
La perdita in termini di assegno pensionistico in questo caso non è più del 6,5% ma, se il decesso occorre prima dei 57 anni, si attesta intorno al 33% per ridursi poi progressivamente coll’aumentare dell’età.
Perchè hanno tagliato queste prestazioni? Chiaramente sempre perchè la pensione erogata deve corrispondere precisamente ai contributi versati. Neanche per mandare i figli all’università si possono fare sconti. Non parliamo se poi ti capita di perdere il marito o la moglie coi bambini ancora in fasce. Fai prima ad andare a fare l’elemosina ai bordi delle strade che i passanti distratti sono comunque più generosi dei freddi contabili dello Stato italiano.

10- Per completare il quadro citiamo da ultimo anche il fatto che moltissime maggiorazioni previste per legge (e ce ne sono di ogni tipo, per il tipo di lavoro svolto se pericoloso, per il lavoro svolto in zone disagiate, per le inabilità, ecc..) sono sopravvissute al passaggio al sistema contributivo, ma sono state completamente depotenziate. Nel senso che servono ad incrementare l’anzianità, ma non invece l’importo dell’assegno, cosa che invece avveniva nel sistema retributivo. Essendo presenti requisiti di importo soglia così alti, perciò, le maggiorazioni risultano per essere del tutto inutili.

L’unica categoria che si salva sono i ciechi assoluti per cui la maggiorazione vale sia per il diritto che per la misura.

PROPOSTE E ULTERIORI PROBLEMI

Al termine della lettura dell’articolo potrebbe balenare il pensiero che il nostro Stato non abbia poi molta voglia di garantire i lavoratori nell’ultima parte della loro vita e che anzi faccia di tutto per ritardare il momento dell’accesso alla pensione e il costo della previdenza.
Sarebbe bello dire che è un’idea sbagliata. Oppure che era così, ma oggi le cose stanno cambiando.
La verità è che l’opinione comune in questo caso è molto vicina alla realtà.
Chiaramente la speranza che le cose possano cambiare rimane forte, ma trattandosi di una materia che parla ai lavoratori di quella che sarà la loro vita fra 30 o 40 anni ci vorrebbe un po’ meno di incertezza e un po’ più di idee chiare.
Per esempio i lavoratori che oggi in numero consistente sono laureati o con specializzazioni formative importanti, dovrebbero sapere se conviene o no riscattare gli anni di studio.
Con l’attuale sistema previdenziale, infatti, riscattare il titolo di studio si configura né più né meno che come un atto di beneficenza nei confronti dell’ente previdenziale e non come un investimento sul proprio futuro. A memoria, credo che sia la prima volta che capita.
Inoltre mentre ci sono paesi in Europa – l’Europa dell’austerity – che riconoscono gli anni di studio come direttamente utili alla pensione, cioè a costo zero per il lavoratore, in Italia abbiamo addirittura spedito una pletora intera di giovani a fare lavoro gratuito con la buona scuola, senza prevedere né assicurazione infortunistica (introdotta solo a seguito del verificarsi di incidenti mortali di minorenni) né copertura previdenziale.

Le proposte per riformare il sistema previdenziale dunque devono ancora essere pensate. Io qui mi limito a dare giusto qualche idea.

In generale bisogna certamente mettere mano a tutti i problemi detti prima. Per cui la mancanza di forme agevolate di pensione per i lavori usuranti (gravosi, nocivi o comunque li si voglia chiamare), va inserita. Vanno previste forme di tutela maggiori per tutti i diritti costituzionalmente tutelati (inabilità, superstiti, ecc..). Va garantita una contribuzione, almeno figurativa se non proprio obbligatoria, per gli studenti della buona scuola. Va ampliata la platea dei riscatti possibili, migliorando però il calcolo fra il pagato e quanto si accredita nel montante.
Va studiata una possibilità di optare al contributivo, anche nell’accesso ai requisiti per tutti i lavoratori che hanno pochissima anzianità al 1995.
Va eliminato del tutto l’importo soglia che non ha ragione di esistere nel momento in cui si prevedono requisiti di età e anzianità precisi. Il raggiungimento di un importo soglia è un requisito puramente discriminatorio che dà l’accesso solo ai lavoratori più fortunati.
Va abbassata l’età della pensione. Dai 71 anni in cui si liquida a chi ha meno di 20 anni di contribuzione, bisogna abbassarla a 67 anni che è l’età in cui qualunque datore di lavoro caccia a calci in culo i lavoratori, che abbiano o meno diritto a pensione.
La vecchiaia ordinaria deve invece essere abbassata dagli attuali 67 anni ai 65. Si possono chiaramente prevedere forme di trattenimento in servizio volontarie, ma queste possono essere veramente volontarie, solo se l’importo della pensione è sostanzioso ed equiparabile a quello dello stipendio (chiaramente la pensione sarà sempre più bassa dello stipendio, ma perchè in pensione si spende anche meno rispetto a quando si lavora, fosse anche solo perchè non si prendono i mezzi o la macchina per recarsi a lavoro, non si mangia fuori così spesso e insomma lavorare, come sanno tutti, comporta costi anche per il lavoratore).
La pensione anticipata deve essere abbassata dagli attuali 64 a 60 anni.
Questo anche per dare la possibilità ai pochi lavoratori giovani ancora esistenti di prendere effettivamente parte al mercato del lavoro.

Quanto al calcolo della pensione, spesso si sente la proposta di tornare ad un sistema retributivo. Di sicuro un modello retributivo semplificherebbe il calcolo della pensione, ma resterebbe comunque molto dispendioso per chi a fine carriera fa l’impennata di reddito e per cui ci sarebbe lo stesso bisogno di correttivi, che non è così facile inserire.
Se invece si volesse mettere mano al contributivo, senza cancellarlo, allora il discorso diventerebbe quello di studiare un sistema di valorizzazione dei contributi che porti ad ottenere una pensione dignitosa per tutta la vecchiaia. Provocatoriamente questa rivalutazione potrebbe essere l’indicatore migliore fra la crescita del PIL e l’inflazione, ma realisticamente si potrebbe invece prevedere un sistema che valorizza il meglio fra la crescita effettiva e una crescita presunta dello 0,5% del PIL.

Ci sono almeno due retoriche che occorre contrastare:

1 – la prima quella dei costi. Riformare in senso progressivo il panorama pensionistico costa troppo.

2 – proprio in virtù dell’invecchiamento della popolazione il sistema previdenziale deve ridurre il proprio budget.

Quanto ai costi, è certo: per fare le riforme servono i soldi. Le fonti di finanziamento però, come abbiamo visto scorrendo le problematiche, esistono. Si tratta innanzitutto di eliminare gli sgravi contributivi, sia per i lavoratori che per i datori di lavoro. Per mandare in pensione la gente bisogna spendere e anche per far lavorare la gente bisogna spendere.
Il fatto stesso di aver introdotto la prescrizione dei contributi a 5 anni19 nell’epoca della digitalizzazione in cui è molto più facile che tracce di un rapporto di lavoro in nero possano essere reperite, ci fa capire da che parte guarda la nostra classe di governo.

Bisogna poi alzare i salari, non esiste altro sistema sicuro e stabile per alzare i contributi.
È importante l’introduzione del salario minimo, ma tenendo conto che il salario minimo in INPS esiste già. C’è infatti un minimale contributivo da versare nel momento in cui si registra un rapporto di lavoro dipendente, che corrisponde a un salario di circa 9,30 euro l’ora, annualmente rivalutato. Così succede che il contributo per il salario minimo viene già versato e l’introduzione di un salario legale al datore di lavoro costerebbe solo i soldi materiali in più da versare al lavoratore.
Dico per dire, non che ci si debba incazzare con gli imprenditori che risparmiano anche là dove già spendono di tasca propria.
È imprescindibile però una battaglia per l’aumento salariale di tutti i lavoratori, che fra il minimo legale e una vita dignitosa comunque di soldi in busta in paga da mettere ne servono assai.

Si potrebbero incentivare i lavoratori stessi a riscattare e prevedere forme di copertura contributiva. L’agevolazione fiscale aiuta, ma non convince, se l’idea generale è che pur lavorando e pur riscattando, la pensione sarà comunque più bassa del 40-50% rispetto allo stipendio.

Si dovrebbe mettere mano seriamente alla normativa sul gradone del 1995. Esistono situazioni, molte situazioni, in cui chi ha un contributo al 1995 – e mancano ancora almeno 15 anni prima che questi contributi cessino di fare danno – anche per la parte contributiva non vede l’applicazione del massimale. Spiego: il massimale opera per i lavoratori del contributivo, quelli post ’95, che laddove guadagnino oltre una certa soglia (circa 106.000 euro l’anno, annualmente rivalutato) il contributo versato comunque si ferma alla soglia indicata.
Chi però ha anche solo un contributo prima del 1995 vede versarsi l’intero ammontare dei contributi. Questo comporta un dispendio in termini di pensione che è enorme, sopratutto per la quota retributiva, che come abbiamo visto prende a riferimento gli ultimi anni della carriera. Così manager di ogni fatta e dimensione che facilmente guadagnano a fine carriera medie stipendiali di 500.000 euro (e anche superiori) si trovano applicati rendimenti pensionistici per i primi anni di carriera (in cui magari facevano i cantastorie o i lavapiatti, come spesso gli piace raccontare) da capogiro.
Molto semplicemente, se davvero c’è interesse a inserire e rispettare un massimale, questo deve esserci anche col sistema misto. Da oggi in avanti, per i redditi superiori a 106.000 l’anno si applichi il massimale anche per la parte retributiva, cosicchè almeno gli abbassiamo un po’ la media.
Poi vediamo che fanno gli imprenditori: se si incazzano vuol dire che la norma è giusta!

Quanto alla retorica dell’invecchiamento della popolazione, sul tema, tutti i più patinati economisti si affollano a immaginare un futuro di crisi e distruzione per tutta la società. Bisogna stare attenti perchè è un discorso assolutamente deprimente.
Da un lato parla di un futuro in cui le giovani generazioni non potranno prosperare e crescere felici perchè tutte le risorse saranno rubate dai vecchi, dall’altro di un futuro in cui i vecchi saranno abbandonati a se stessi perchè non ci saranno abbastanza risorse per sostenerli.
Il risvolto sulle pensioni poi è così declinato: non basta aver fatto tutti i tagli che sono già stati fatti, lo stesso nel futuro lo squilibrio fra contributi versati e pensioni si allargherà al punto da mandare in rovina le casse dell’INPS, motivo per cui ci sarà bisogno di tagliare ulteriormente.
Secondo me è un problema esasperato di proposito per inserire un principio semplice: le pensioni pubbliche non sono sostenibili, in nessun caso, per cui ognuno deve pensare per sé e farsi la pensione privata.
In realtà anche una compagnia privata vivrebbe lo scompenso demografico, ma il problema sarebbe nascosto per due motivi molto semplici. Il primo è che il destino delle società private non entra in un dibattito pubblico, per cui una compagnia che dichiarasse fallimento per insostenibilità finanziaria manderebbe gambe all’aria i suoi assicurati e questo non sarebbe un problema pubblico. L’altro motivo è che una compagnia privata pur facendo pagare premi giganteschi potrebbe sempre ridurre a piacimento l’erogazione delle pensioni, anche vigenti, perchè di nuovo, non sarebbe un problema pubblico, ma solo degli assicurati.
Quindi dal mio punto di vista la retorica dell’invecchiamento è assolutamente inventata e certamente, se proprio dobbiamo affrontarla da un punto di vista finanziario, quello che si può dire è che quanto più si spende oggi, tanto meno dovremo spendere domani. Garantire pensioni dignitose, significa garantire un po’ di autonomia in più ai pensionati. Se questa autonomia viene a cadere, ci ritroveremo invece con un problema di ordine pubblico molto più dispendioso da affrontare.

Note

1Più nel dettaglio per i lavoratori dipendenti i contributi vengono versati nella misura di circa il 30% del salario, di cui il 9% viene detratto dallo stipendio del lavoratore e la restante parte è a carico del datore di lavoro. Il cuneo fiscale riguarda solo il 9% a carico del lavoratore.

2Nella realtà in virtù delle normative come quella sul cuneo, ma sopratutto dei vari sgravi contributivi dati ai datori di lavoro e dei bassi salari vigenti, il bilancio INPS risulta in attivo per appena 1 mld e spiccioli di euro. Se poi si va a vedere esclusivamente il saldo fra contributi versati e prestazioni pensionistiche erogate questo è addirittura in negativo di poco meno di 5 mld. Motivo per cui l’attuale presidente INPS Gabrile Fava continua a sostenere che la spesa pensionistica è troppo alta. Inutile parlare con chi vuol esser sordo, però.

4Della legge di bilancio 2025 ad oggi mancano ancora i decreti attuativi per cui su alcune cose sto andando un po’ a interpretazione

5Vedi qui una comoda tabella riassuntiva dei redditi che guadagnano e perdono da questo giochetto

6I mesi di finestra sono 4 nel 2025; 5 nel 2026; 7 nel 2027: 9 nel 2028.

7Per essere precisi sono 41 anni e 10 mesi per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini.

8In particolare gli eventi erano due: un ricorso massiccio alla cassa integrazione che gravava sulle casse INPS a cui si faceva spesso ricorso per aiutare chi veniva gettato sul lastrico proprio dalle imprese italiche che delocalizzavano fingendo una crisi; l’altro era invece la creazione della cassa INPDAP dei dipendenti pubblici, in particolare dei dipendenti dello Stato, già in rosso nel momento in cui venne creata.

9Per il calcolo dei 3 anni fra il 1993 e il 1995 si prende invece a riferimento la media di tutti gli stipendi percepiti nella carriera lavorativa, abbassando così sostanzialmente la media.

10In realtà ogni cassa ha le sue regole di calcolo della pensione per la parte retributiva e in INPS esistono oltre 70 fondi pensione (lavoratori dipendenti; ferrotranvieri; postale; aereo; agricolo; dipendenti pubblici degli enti locali; dipendenti pubblici dello stato; fondo clero; commercianti; artigiani; giornalisti; ecc…)

11Poichè anche questi coefficienti risentono del meccanismo di adeguamento della speranza di vita, unicamente nel biennio 2023-2024 successivo alla pandemia si sono alzati di pochissimo.

12 Per mettere da parte un montante di 400.000 euro con uno stipendio di 30.000 euro l’anno ci vogliono circa 40 anni di lavoro

13Bontà loro, hanno però ridotto quello a 67 anni di età ed erano già diversi anni che tanta gente aspettava questa riforma, nell’indifferenza dei governi precedenti.

14I privilegi in questione in particolare riguardavano due tipi di pensionati: baby pensionati e pensioni d’oro. I baby pensionati sono quelli che accedevano alla pensione con 40 anni di età perchè chiaramente avevano iniziato a lavorare quand’erano solo ragazzi (18 – 20 anni) e quindi raggiungevano il requisito dei 20 anni di contribuzione minima necessaria molto presto e si godevano la pensione per oltre 30-40 anni generando così uno scompenso fra anni lavorati e anni di pensione. Altrettanto chiaramente però se andavano in pensione troppo presto prendevano anche una pensione molto bassa.
Mentre le pensioni d’oro esistevano sopratutto nel mondo pubblico in cui molti dirigenti facevano i furbi e accedevano alla pensione non appena avevano la garanzia di avere una media degli ultimi stipendi molto più elevata di quelli percepiti durante l’intera carriera lavorativa. Quest’ultima forma di privilegio non è ancora stata debellata.

15Opzione donna, sia nella sua forma originaria introdotta nel 2019, sia nella versione aggiornata dalla Meloni è un vero e proprio atto di guerra nei confronti delle lavoratrici che per andare in pensione 4 o 5 anni prima si trovano con importi calcolati al limite della soglia di povertà.

16Da tenere presente che neanche con l’opzione al contributivo si risolve il problema, infatti l’opzione vale solo ai fini del calcolo della pensione e non anche per l’accesso ai requisiti di pensionamento. Chi sceglie l’opzione al contributivo solitamente ha redditi alti che col contributivo vengono maggiormente valorizzati rispetto al retributivo.

17I familiari superstiti sono raggruppati in 3 grandi categorie: coniuge; figli minori o figli studenti; figli inabili. In mancanza di questi, al ricorrere di precise condizioni di legge, le pensioni indirette possono spettare anche ai genitori o ai fratelli/sorelle.

18La pensione di inabilità, sia nel retributivo che nel contributivo, in alcuni casi prevede un calcolo più favorevole, quando l’inabilità accertata sia totale e permanente. Mentre per l’inabilità ordinaria che solo riduce la capacità lavorativa e comporta comunque una dispensa dal lavoro, non ci sono maggiorazioni.

19Erano 10 fino alla l. 335/1995

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Il keynesismo di guerra

FASE  1

Per inquadrare il concetto di “economia di guerra” dobbiamo guardare brevemente a come si sviluppa il fatto economico della guerra attraverso i secoli.

La guerra accompagna la Storia dell’uomo fin dai tempi antichi. Se è improprio chiamare guerre gli scontri che si verificano fra le popolazioni nomadi della preistoria, certamente quelle greche – per quanto riguarda l’occidente – possono essere considerate guerre vere e proprie.

La prima cosa che caratterizza uno scontro armato in quanto guerra è la presenza di eserciti che si confrontano sul campo di battaglia.

Nei secoli poi la storia della guerra si ingrossa e differenzia per strategia, armamentario tecnico, e aspetto economico.

Ovviamente sono sempre esistiti motivi economici per cui si scende in guerra, ma non tutti i fatti di guerra sono riducibili al movente economico. I moventi politici, di conquista del territorio, spartizione di influenze politiche e a volte anche etici, come nel caso delle guerre di religione del medio-evo, sono sempre stati presenti.

Quanto al “fatto economico” della guerra fino a tutto il XIX secolo, con molte semplificazioni, è abbastanza semplice: chi vince la guerra si arricchisce anche economicamente, chi la perde invece si immiserisce. Sono molto rari nella storia i casi in cui un esercito vittorioso  sia invece disastrato dal punto di vista finanziario, seppure esistono. In particolare citiamo come esempi di eserciti in grado di condurre vittoriose battaglie, ma troppo costose per le tasche dello stato che li finanzia, quello romano verso la fine dell’età dell’impero e quello inglese alla fine del ‘600 quando seppure risultava vittorioso contro la Francia, al termine della guerra dei trent’anni, scontava gravi carenze economiche.

In generale comunque ancora nell’ottocento, e in questo senso anche le guerre coloniali ci rientrano, chi vinceva una guerra solitamente si arricchiva. La vittoria della guerra garantisce anche l’arricchimento. Chiaramente in questa sede si intende che ad arricchirsi siano le classi dirigenti e non certo le masse popolari che dalla guerra non hanno mai avuto niente da guadagnare.

FASE 2

Questo paradigma entra seriamente in crisi solo con la prima guerra mondiale. La prima guerra mondiale  aveva una caratteristica peculiare che la differenziava da tutte quelle precedenti: lo sviluppo delle capacità tecnologiche aveva convinto ogni singolo esercito e Stato di essere fortissimo e invincibile e che perciò la guerra sarebbe durata “poco”. In realtà la prima guerra mondiale si è protratta per oltre 4 anni con una violenza inaudita e un’estensione, appunto, mondiale. E al termine della guerra, seppure, la cartina politica dell’Europa ne uscì molto cambiata non esistevano Stati vincitori che dalla guerra avessero guadagnato di più di quanto avevano speso per combatterla.

Con l’unica eccezione, forse, degli USA che quantomeno non essendo stati colpiti direttamente nel loro territorio sembra che abbiano avuto una capacità di ripresa maggiore. È significativo comunque che al termine della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti tornino velocemente a una politica isolazionista e che l’opinione pubblica continui ad essere profondamente contraria alla partecipazione degli USA nei casini europei. Secondo l’opinione prevalente, infatti partecipare alle guerre del vecchio continente implica una spesa economica eccessiva per i benefici che ne possono derivare.

Da questo punto di vista, infatti, la prima guerra mondiale potrebbe essere letta piuttosto che come un tragico errore – la lettura tradizionale vuole infatti che gli Stati europei siano scesi in guerra spinti non tanto da rivalità politiche serie, ma in conseguenza di un domino di alleanze da cui nessuno voleva tirarsi fuori, in cui quando è cascata la prima tessera, tutte le altre sono seguite di conseguenza – come il primo segnale di una crisi economica e politica profonda e duratura. Dalla prima guerra mondiale, fino a tutta la seconda compresa, le crisi economiche e politiche che scuotono i quattro angoli della terra sono innumerevoli. Citiamo solo quelle principali: la crisi economica dell’iperinflazione in Germania fra il 1924 e 1926; la crisi finanziaria del 1929 negli USA che racconta di un’economia solo illusa di essere forte; le crisi democratiche in Europa che portano all’avvento di regimi dittatoriali prima in Italia, poi in Spagna infine in Germania; lo sgretolamento dell’impero cinese. È chiaro che la prima guerra mondiale non aveva certamente portato prosperità e ricchezza a nessuno stato in particolare.

In questo scenario, la presa del potere da parte di Hitler convince moltissimi strati della borghesia a ritenere le democrazie fondamentalmente inutili, o almeno inutili per gli affari, e piegarsi a cedere il potere alle dittature.

Ripassiamo brevemente gli eventi salienti del periodo dal punto di vista politico.

1-  In primo luogo in seguito alla fine della prima guerra mondiale si crea un organismo internazionale chiamato “Società delle Nazioni” che avrebbe avuto il compito di istituire una sorta di democrazia mondiale fra Stati, ma questa istituzione, troppo avanguardista e poco specializzata, non riesce a risolvere e nemmeno a discutere nessuno dei principali problemi reali che si pongono e rimane un’istituzione solo sulla carta.

2- Nel 1936 quando in Spagna un golpe militare guidato dal generale Franco rovescia il governo legittimamente proclamato del Fronte Popolare nonostante l’esercito popolare che subito si organizza per cacciare l’usurpatore e che richiede a gran voce aiuti agli stati democratici di Francia e Inghilterra, viene bellamente ignorato ed è sostenuto solo di malavoglia dall’URSS di Stalin.

3- Infine nel 1938 quando la Germania di Hitler invade la Cecoslovacchia di nuovo le nazioni libere di Francia e Inghilterra si incontrano a Monaco e decidono di lasciar correre l’invasione e “non rispondere a provocazioni”. L’evento è noto, ma significativo: Hitler promette che non avrebbe compiuto nessun altro atto ostile, ma di lì a qualche mese nel settembre del 1939 dà invece luogo all’invasione della Polonia e finalmente anche Francia ed Inghilterra vengono costrette a schierarsi e dichiarare guerra alla Germania.

È l’inizio conclamato della seconda guerra mondiale.

Per i primi mesi della guerra il fronte si trova in Polonia e i cosiddetti alleati (a cui ancora non si sono associati USA e URSS, quest’ultima alleata proprio della Germania e impegnata a portare avanti una guerra regionale contro la Finlandia) si limitano a sostenere economicamente e militarmente la Polonia nel fare fronte all’invasore tedesco.

Tutti sappiamo che all’inizio del 1940 la Polonia, il cui esercito viene barbaramente sconfitto, si arrende alla Germania e il fronte est della guerra mondiale si acquieta per alcuni mesi. In realtà al momento è ancora l’unico fronte.

Inghilterra e Francia, infatti, ancora si illudono che le promesse di Hitler abbiano un loro corso e quindi di non venire colpite.

C’è una persona però che prende seriamente la dichiarazione di guerra, in particolare dell’Inghilterra alla Germania. È un economista di nome John Maynard Keynes.

Ancora lui.

Certo, non è il solo che prende sul serio la dichiarazione di guerra. Anche chi l’ha dichiarata probabilmente è una persona molto seria, si chiama infatti Winston Churchill e il nome risuona come un programma.

Come che sia, il punto è che sia in Francia – nazione che ben presto verrà invasa e capitolerà a sua volta – sia in Inghilterra – sia in Polonia, in Austria, in Italia e la lista è molto lunga ancora – esistono posizioni che oggi chiameremmo di falchi pronte a suggerire una resa del proprio paese ad Hitler sperando di ricavarne qualche beneficio.

Keynes non è fra questi e fra la fine del 1939 e l’inizio del 1940 scrive un opuscolo, intitolato “Come pagare il costo della guerra” per convincere la classe capitalista inglese e dietro di lei quella a stelle e strisce a prendersi l’impegno della guerra seriamente, ribaltando l’illusione che fare la guerra non si possa più perché troppo dispendioso.

Diciamolo chiaramente, l’analisi storica ed economica vorrebbe leggere questo opuscolo come un’applicazione concreta delle teorie keynesiane le quali avevano trovato la più compiuta elaborazione nel 1936 nella sua Teoria Generale. Libro, neanche a dirlo, scritto per risolvere la crisi economica del 1929 (e non solo, chiaramente). Dunque una teoria economica pensata per tempi di pace, diviene la base di un’economia reale di guerra.

In questo opuscolo si ipotizzano alcune cose.

In primo luogo si ipotizza che l’economia riconvertita a scopi di guerra debba produrre al massimo delle sue capacità. Appunto si chiamano capacità produttive. E che pertanto non sia possibile produrre niente di più di quanto si trova oltre questo limite. Concretamente le misure che secondo Keynes bisogna adottare sono quelle di allungare la giornata lavorativa, richiamare tutti i disoccupati a lavorare e infine ricorrere anche al lavoro minorile.

Questa capacità produttiva dovrebbe, secondo Keynes, ampliare il prodotto interno lordo, cioè il prodotto finale e totale dell’economia nazionale, almeno del 40-50%.

E costando la guerra dal punto di vista dell’esercito che va allestito, alimentato e armato ci si troverebbe nella situazione che anche l’accresciuto livello produttivo non basterebbe per fare fronte sia ai bisogni di consumo della popolazione nazionale, sia ai bisogni dell’esercito.

Dunque che fare? Certo si può importare quanto manca, mettendo mano alle riserve, cioè ai risparmi dello Stato. Ma anche così facendo ci si troverebbe a poter affrontare lo sforzo bellico solo per un breve periodo, massimo un anno o due. Mentre Keynes ritiene che la guerra sarà lunga.

La situazione che si prospetta, sotto tutti i punti di vista, è dunque quella di trovarsi in piena crisi inflattiva. Cioè secondo Keynes si sarebbe potuto verificare quanto già accaduto con la prima guerra mondiale, quando la scarsità di risorse e materie prime ha condotto inevitabilmente ad un aumento di prezzo che ha drenato risorse dalle tasche delle classi lavoratrici a quelle dei capitalisti. Non tutti infatti sentono la penuria quando c’è una guerra, alcuni si arricchiscono e lo fanno molto più degli altri.

Dunque, come abbiamo detto, all’inizio della seconda guerra mondiale si paventa per gli antagonisti di Hitler lo scenario dell’insostenibilità finanziaria ed economica.

Come saltarne fuori?

Keynes in primo luogo si fa forte di una posizione piuttosto in voga in quel periodo nel suo paese. I sindacati non riuscivano infatti ad alzare tanto la voce da chiedere la fine della guerra, che non era stata causata direttamente dall’Inghilterra, ma quantomeno, dato che si trattava di una guerra di capitalisti chiedevano che la guerra la pagassero questi ultimi.

Keynes è d’accordo, ma da misero economista quale lui è, quasi ragioniere, afferma risolutamente che neanche in questo caso le risorse economiche sarebbero bastate. Tassiamo il doppio, il triplo, togliamo metà o i due terzi della ricchezza ai capitalisti, dice, ma i soldi così ricavati non basteranno che a sostenere qualche mese di guerra.

Il problema per Keynes infatti era che durante la guerra, essendo tutti i soldi disponibili deviati a fare fronte al mantenimento delle spese militari, il suo bel moltiplicatore del reddito e della ricchezza non poteva funzionare in quanto questo moltiplicatore era basato sul consumo, ma poiché il consumo dei lavoratori sarebbe stato impedito e deviato tutto a scopi bellici, prevedibilmente l’economia sarebbe finita gambe all’aria.

Dunque elabora un piano. Il suo piano è questo: chiede in prestito ai lavoratori la loro ricchezza (ed anche ai capitalisti) con la promessa un po’ sconsiderata di restituire tutto sotto forma di welfare al termine della guerra. Il suo piano è tutto qui.

Nel frattempo concretamente fra le misure economiche immediate da prendere per scongiurare l’inflazione e la crisi economica suggerisce una serie di misure.

1 – mettere una tassa sugli extraprofitti, molto semplici da conteggiare: prendendo il prezzo base a quello ante guerra, tutto quanto realizzato in più sul prezzo maggiorato è tassato e riportato nelle tasche dello Stato. 2 – prevedere una tassazione universale durante la guerra su tutti i cittadini e invece una tassazione post-guerra principalmente redistributiva che colpisca direttamente la classe capitalista. 3 – garantire però un minimo di reddito esente dal pagamento delle tasse. 4 – garantire assegni famigliari in base al numero dei componenti del nucleo famigliare e del reddito disponibile. 5 – garantire un sistema di adeguamento salariale non contrattuale basato sul prezzo di un paniere di beni primari, di modo che se aumenta il prezzo di quei beni il salario si adegui automaticamente e di conseguenza (la scala mobile nella sua forma basilare, per intenderci).

È evidente che in questo programma si chiedono sacrifici immediati alla classe dei lavoratori  che deve lavorare di più solo difesa da un mantenimento del proprio status di vita corrente e le promesse sono di venir ripagati di questo incremento lavorativo solo al termine della guerra con la tassazione vera e propria sui capitalisti.

Cioè nel frattempo debiti, prestiti e tutto il carrozzone.

FASE  3

Dobbiamo ora rispondere a una domanda: c’era bisogno di Keynes per convincersi che la guerra fosse un buon affare? Questo non è dimostrato dalla storia.

Quello che si sa è che il piano di Keynes, nelle nazioni occidentali, viene in buona misura rispettato o comunque si pone come base per la programmazione e pianificazione dell’economia bellica. Non possiamo in realtà essere certi che il reddito delle classi lavoratrici sia stato tutelato nel corso del conflitto secondo le prescrizioni di Keynes, mentre è sicuro che la seconda guerra mondiale è costata tantissimo in termini di risorse economiche e di vite umane. Ma sappiamo che Keynes non era un propagandista socialista, ma invece una persona degna della massima considerazione a livello di analisi economica mondiale tanto che sia al termine della prima guerra mondiale quando era poco più che un neolaureato, sia al termine della seconda, Keynes siede al tavolo di contrattazione per la ricostruzione post-bellica. In particolare al termine della seconda guerra mondiale partecipa agli accordi di Bretton-Woods pur se la sua proposta di un piano di ristrutturazione economica viene scartato a favore della ricomposizione sotto il cappello degli USA. Ma il fatto stesso di averci partecipato con posizioni che oggi definiremmo “progressiste” ci racconta di un personaggio che non solo chiacchierava, ma a cui qualcuno pure prestava attenzione.

Comunque in questa sede non ci interessa attardarci a discutere dell’influenza effettiva e concreta della teoria keynesiana, ma vorremmo dare un’occhiata alle conseguenze per come si sono tratteggiate nella storia reale.

La seconda guerra mondiale non è stata vinta dagli alleati perché avevano un piano economico per le popolazioni civili, ma è stata vinta mandando eserciti in battaglia, schierando sottomarini e bombardieri, con tecnologie di comunicazione all’avanguardia, con strategie militari e ovviamente con l’alleanza con l’URSS che apre il fronte orientale e infine hanno pure lanciato una bomba atomica.

In tutto questo il keynesismo di guerra non c’entra niente e probabilmente si sarebbe potuto fare tutto ciò anche senza mantenere in piedi il reddito delle classi lavoratrici. Ma l’opuscolo di Keynes è importante perché segnala di un cambio di mentalità che si fa strada nelle classi dirigenti.

Al termine della guerra, inaspettatamente e in maniera un po’ raffazzonata, le promesse keynesiane vengono più o meno mantenute e specie in Inghilterra si avvia un programma di welfare state abbastanza epocale che inaugura una prosperità economica relativamente solida per tutto il vecchio continente. Gli USA invece nello stesso periodo affondano in un politica Maccartista e impiegheranno una decina di anni per liberarsi dalle politiche di austerità.

Per quanto attiene invece al blocco cosiddetto comunista non ci attarderemo a fare analisi, in quanto le politiche di welfare state compaiono molto prima, già al termine della prima guerra mondiale e non è un caso che tantissimi analisti dicano che Keynes le ha copiate pari pari da questi ultimi.

Dunque al termine della seconda guerra mondiale, le promesse sul “consumo differito” per usare l’espressione precisa keynesiana, vengono mantenute.

Ma c’è un altro effetto che si dipana sulla scia della teoria keynesiana, probabilmente non voluto né previsto dall’economista. L’economia di guerra diventa infatti una materia specifica e una risorsa sempre valida a cui ricorrere in tempi di crisi e poiché il capitalismo è sempre in crisi, dal termine della seconda guerra mondiale in avanti la guerra assume una valenza del tutto nuova.

Non si fa più infatti la guerra per vincerla, ma solo per farla. O ancora meglio: non è più importante vincere una guerra per arricchirsi, l’importante è farla. Questo diviene il nuovo modello e paradigma economico di sviluppo – implicito, mai apertamente dichiarato e contradditorio – dell’età contemporanea. Modello economico che si trascina fino ad oggi[1] e di cui dovremmo imparare a fare a meno.

 

 

[1] Vedere a tal proposito le recentissime dichiarazioni di Draghi sugli obiettivi dell’economia UE qui

 

 

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Che cos’è l’economia? Marx – parte prima. Origine del capitalismo.

Sono qui e nelle prossime puntate a presentare un riassunto dell’opera principale di Marx. Chiaramente trattandosi di un riassunto non può contenere tutti gli aspetti dell’opera scritta, tenterò tuttavia di riportare i passaggi principali dell’analisi economica marxiana. L’intento non è quello di scrivere un compendio del Capitale, quanto piuttosto di dare una guida sintetica alla lettura dello stesso, in quanto ritengo che lo sviluppo dell’argomentazione non sia del tutto comprensibile se non inquadrandola nel contesto storico. Quindi via via che ci allontaniamo dal periodo storico in cui Marx stesso è vissuto la lettura del Capitale diventa più difficile. Il fatto che sia difficile non la rende però meno necessaria, non per un sentimento di affetto rispetto al lavoro del capostipite dell’analisi critica dell’economia, ma proprio perchè ancora fondamentale per capire lo sviluppo dell’economia nel mondo contemporaneo.

L’opera di Marx nel dibattito accademico ottocentesco e contemporaneo.

Abbiamo già esaminato come sia nata la materia economica in occidente e le idee dei primi esponenti, definiti proprio da Marx come “classici”1, i quali pur provandoci non erano però riusciti a trovare una spiegazione completamente convincente sull’origine del valore.
Nel contesto di incertezza delle proposizione economiche di fine ottocento, Marx è stato l’autore che più di tutti è riuscito a sistemare e sintetizzare i temi della materia economica dandogli una trattazione organica. In questo senso può essere definito come l’ultimo dei classici e il primo critico dell’economia politica. Non troverete però questa descrizione di Marx nei libri di storia economica e nemmeno nei libri di economia o di filosofia ed anzi fra gli economisti successivi, pur essendo chiaro che la maggior parte si sono effettivamente confrontati col lavoro di Marx, quasi nessuno recupera o sviluppa l’analisi marxista esplicitamente.
Solitamente infatti quando un economista successivo a Marx si riferisce alla “teoria del valore” nomina spesso Ricardo e raramente Marx, pur essendo del tutto evidente che i richiami in questione riguardino la teoria marxista e non certo quella ricardiana il cui apporto all’economia scientifica è quasi tutto di stampo liberista, come diremmo oggi.
Nei prossimi articoli mi soffermerò sull’analisi marxista e in particolare sulla parte che critica e completa l’analisi classica.

Vi propongo una lista delle parole chiave marxiste. È molto lunga e già da questa lista si capisce che il contributo ricardiano nella teoria marxista è poca cosa.
Ecco la lista delle parole chiave o caratteristiche dell’analisi marxista:

  • comparsa e definitiva affermazione della merce, che esisteva anche nel medio-evo, ma che ora serve come strumento di arricchimento. Una merce è tale per il suo valore di scambio. E il valore di scambio permette di creare il modello D-M-D’ (Denaro – Merce – più Denaro).
  • Distinzione fra valore di scambio e valore d’uso (di base e quasi data per scontata)
  • Distinzione fra lavoro semplice e lavoro complesso
  • Tutto il lavoro viene però ridotto a lavoro astratto, socialmente necessario, cioè medio.
  • Affermazione del denaro come equivalente generale che nasconde il ruolo del lavoro e funzioni della moneta.
  • Trasformazione del lavoro da attività creatrice di valori d’uso ad attività creatrice di valori di scambio.
  • Circolazione delle merci e circolazione del capitale
  • Analisi del plusvalore
  • Formazione del valore e del prezzo. Sul valore non c’è dubbio, il prezzo invece in parte soggiace alla volontà del mercato, questo è infatti un punto delicato.
  • processo lavorativo e processo di valorizzazione
  • Plusvalore assoluto e saggio di plusvalore
  • plusvalore relativo
  • cooperazione → manifattura → macchinismo. Nascita della classe operaia
  • Ruolo del salario
  • Accumulazione e accumulazione originaria
  • Rapporto capitale costante – capitale necessario o variabile
  • Saggio di profitto
  • Crisi di sovrapproduzione

In realtà su questi ultimi 2/3 punti potremo solo dire cose molto veloci (per non dire di tutte le cose che sicuramente abbiamo tralasciato in questo elenco).
Marx è un autore che ha scritto tantissimo non solo di economia e non sempre per spiegarla. Quanto al Capitale chi conosce bene la storia dei suoi lavori dice che la maggior parte dei testi che lo hanno preceduto, dal punto di vista economico, erano propedeutici alla sua stesura.
Il Capitale è formato da 3 libri, ma solo il primo è stato dato alle stampe quando Marx era ancora in vita, quelli successivi sono stati invece messi in circolazione da Engels dopo la morte dell’autore. Non che Engels abbia travisato quanto aveva scritto Marx, semplicemente quanto aveva scritto Marx era in prima stesura e quindi non completo di suo.
Era giusto? Era sbagliato? Difficile metterci un punto. Sicuramente era importante.
E se dovessimo giudicare sempre le teorie economiche da quanto di giusto e corretto prevedono del movimento economico della società, avremmo già finito di discutere.

C’è poi da inquadrare il contesto storico in cui Marx scrive. Siamo nel pieno dell’ottocento, in un periodo storico molto convulso, ma ancora “tradizionale” in molti suoi aspetti.
La società è ancora una società statica, basata principalmente sull’agricoltura, in cui vige una rigida divisione in classi che non sono solo economiche, ma di origine culturale. I poveri sono tali non solo in quanto gli è impedito l’accesso a dei livelli di consumo dignitosi (anche se nell’ottocento la povertà dilaga), ma in quanto non possiedono né diritti politici, quali il diritto di voto, né diritti sociali, quali l’istruzione e questa condizione è ancora sorretta da un apparato ideologico imponente.
La tecnologia ha fatto un balzo avanti gigantesco, ma è pur sempre una tecnologia che si basa sul carbone e sul vapore. Si iniziano a costruire ferrovie e grandi navi per i viaggi trans-oceanici, ma per muoversi da una città all’altra si prende ancora la carrozza o il carretto.
Quanto alla politica degli Stati, siamo in un periodo in cui si afferma la colonizzazione e la formazione degli imperi che iniziano a sfruttare sistematicamente le risorse delle colonie come possedimenti personali, se non dei sovrani (e a volte proprio dei sovrani), quanto meno degli Stati e in questi Stati si vanno affermando compagnie che hanno il monopolio statale di sfruttamento delle risorse.
L’Inghilterra traina la cordata e Marx è in Inghilterra per l’ultima parte della sua vita a lavorare.
Gli Stati Uniti galoppano, ma sono ancora un paese di frontiera, senza alcuna velleità di influire su nessuno scenario politico internazionale.
L’analisi economica è ancora prevalentemente di origine borghese e Marx con la sua analisi è completamente fuori contesto. Lui mentre studia l’economia, lavora anche per creare la prima internazionale dei lavoratori o almeno un’organizzazione comunista internazionale in grado di far fronte all’avanzata impetuosa del capitalismo. Con gli economisti classici che discutono dell’origine della formazione della ricchezza (il problema è l’esser ricchi) Marx non c’entra niente.

Già Lenin parlando di Marx indicava a chi si cimentava a studiarlo alcune avvertenze. Prendendo in mano Il Capitale, infatti, si può provare un certo spaesamento, perchè ci si trova di fronte ad un testo economico vero e proprio, scritto in un linguaggio tecnico e scientifico. E c’è tantissima matematica.
Lo spaesamento che si può registrare è dovuto al fatto di non trovarci niente di quella che a scuola (al liceo e nelle università) o nelle aule di partito è comunemente insegnata come teoria marxista. Non c’è niente riguardo la classe e men che meno riguardo la lotta di classe. Niente che abbia a vedere con la storia o col materialismo come metodo di analisi. Marx cita un sacco di fonti, autori, leggi, anche letteratura e filosofia, ma nessuna teoria politica. Nè mai effettua ricerche empiriche, come diremmo oggi. Non ci sono risposte a questionari nelle pagine di Marx. Niente riguardo la società, la struttura e la sovrastruttura. Niente sulla religione, niente sulla teoria e prassi, niente sull’organizzazione.
Insomma leggendo il capolavoro di Marx non ci troviamo niente di quanto abbiamo imparato a conoscere come teoria marxista e la cosa può generare spaesamento.
Prima di declassare il libro di Marx a semplice compendio di economia, ci sono da tenere a mente almeno alcune questioni.
Intanto in maniera assolutamente unica nella storia economica, Marx non lavorava da solo, ma in collegamento e stretta sinergia con Friedrich Engels. E già sapendo questo si capisce perchè un 30% del libro circa è dedicato ad un’analisi di dettaglio delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nelle fabbriche, collegando questa descrizione all’orario lavorativo e alle trasformazioni industriali. E in questo tema di ricerca fu Engels l’apripista che condusse in età giovanile un’inchiesta sulla condizione di vita della classe operaia in Inghilterra.
Inoltre gran parte dei temi detti prima e che noi colleghiamo in maniera più o meno esplicita con la teoria marxista, sono in realtà elaborazioni dello stesso Engels, il quale ha compiuto degli studi che servivano a corroborare la teoria marxista in senso proprio ed essendo questi studi molto più comprensibili ed accessibili del Capitale stesso sono sicuramente passati più facilmente nella tradizione socialista e comunista successiva, contribuendo in maniera significativa a definire il recinto della teoria marxista.
Infine, come dicevo prima, è ad opera anche di Lenin che abbiamo una categorizzazione del pensiero marxista. Lenin, infatti, avverte che quando ci troviamo di fronte all’opera di Marx, se vogliamo inquadrarla correttamente, si devono riconoscere almeno tre aspetti dell’analisi marxista. Una chiave è quella filosofica (Marx ben prima di essere un economista è un filosofo) e si riaggancia sia ai suoi studi giovanili sia al periodo storico da lui trascorco in Germania. Un’altra chiave è quella politica e socialista che trova un’origine nel periodo trascorso in Francia. Infine la chiave economica viene collegata temporalmente con l’ultima parte della sua vita e geograficamente all’Inghilterra.
Chiaramente quella di Lenin è una semplificazione del pensiero marxista e non ci sono steccati fra un Marx e l’altro. Così il primo Marx più filosofico è strettamente legato a quello politico in cui l’esigenza di conoscere la realtà con gli strumenti della filosofia ha subito un risvolto politico importante nei suoi scritti. Allo stesso modo il Marx economico sorge quasi in contemporanea al suo lavoro come divulgatore e animatore politico.
Quello che è certo è che alla fine dei suoi studi, Marx decide di dedicarsi principalmente (e mai in maniera esclusiva) alla critica della teoria economica politica, allora in fasce, ma già pericolosissima.
E lo fa con la terminologia tipica dell’analisi economica.

Come abbiamo visto nello scorso capitolo gli “economisti classici” avevano un grande interesse per una categoria economica particolare, cioè la categoria del valore. Erano in particolare ossessionati dal cercare di capire come si generava questo valore, che cosa fosse e perchè tantissime persone (fra cui loro stessi economisti medesimi) grazie a questo si erano arricchite in maniera incredibile.
Il problema principale era che valore e denaro accumulato non coincidevano.
Il loro denaro, nelle loro mani, ben sapevano che non aveva alcun valore e che da un giorno all’altro si sarebbe potuto trasformare in carta straccia, eppure loro restavano ricchi lo stesso.
Avevano cercato di agganciare l’origine del valore alla presenza di ricchezze in un paese (oro, tesori e altri beni di lusso), ma poi questo oro erano costretti a trasformarlo in denaro sonante (monete e talleri) e a farlo circolare fra tutti i cittadini e la cosa non gli tornava. Avevano poi provato a risolvere la questione con il tema dei possedimenti, così che diventava il possesso della terra l’origine della ricchezza, ma questa teoria causava altrettanti problemi di quanti ne risolvesse, giacchè pur essendo scrittori di tanto tempo fa vedevano bene che c’erano tante categorie di ricchi che nascevano e che non possedevano né il tesoro di Stato, né appezzamenti terrieri.
Alla fine avevano scoperto che il valore derivava dalla circolazione dei beni e che questi beni per essere messi in commercio dovevano prima essere “lavorati” e, con non poche lamentele, avevano finito per riconoscere che anche gli operai avessero un loro posto nella catena della creazione del valore.
Diciamo che il posto che veniva assegnato agli operai era quello delle bestie da soma o di poco superiore.
Di questo loro quadro così edificante, avevano fatto un dogma e dichiarato che questo modello era valido in qualunque epoca e a qualunque latitudine.
E seppure, preso singolarmente, ogni economista, poteva anche discostarsi parzialmente da una visione di questo tipo, nel complesso il quadro era questo.

Fra quanti sicuramente si sono discostati di più da questo quadro il posto principale spetta ad Adam Smith, a cui infatti Marx dedica svariatissime pagine e disseminate in ogni dove per criticarne le conclusioni.
L’inizio stesso del capitale è una citazione diretta de “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith. Il Capitale infatti inizia così: “La ricchezza delle società, nelle quali domina il modo di produzione capitalistico, si presenta come una enorme raccolta di merci”. Se uno toglie quell’inciso fastidioso sul modo di produzione capitalistico e quel riferimento alla “società” invece che alla nazione è una citazione diretta del titolo del libro di Adam Smith.
Di A. Smith, i cui contributi principali alla teoria economica abbiamo visto nello scorso capitolo, ci sono da dire alcune cose.
Pur non dovendo perderci troppo tempo, possiamo dire che è l’autore più importante dell’economia classica in quanto ha inaugurato lo studio economico come materia a se stante ed ha definito gran parte dei concetti economici (valore d’uso, valore di scambio, prodotto interno lordo, prezzo naturale, prezzo di mercato, ecc…). Inoltre ha spiegato il meccanismo della concorrenza, parola magica che ancora fino a non molto tempo fa risuonava continuamente nei discorsi dei politici.
Come persona però Adam Smith non era un accademico rigoroso.
Originariamente professore di filosofia, era un simpatizzante (ma non esponente) dell’utilitarismo, convinto che il benessere collettivo fosse l’obiettivo principale da porsi e che questo lo si potesse raggiungere solo attraverso il perseguimento del benessere individuale. I suoi testi e le sue analisi pur essendo intelligenti e precisi nell’individuare molti dei gangli fondamentali dell’analisi economica, sono completamente irreali e idilliaci dal punto di vista storico.
Insomma Adam Smith è lo scienziato che sviluppa una grande scoperta teorica, ma convinto filosoficamente del buon andamento del mondo, è incapace di dare una descrizione veritiera della realtà.
Per A. Smith infatti l’uomo è certamente un essere sociale, ma ciò che lo caratterizza e differenzia dagli altri animali è precisamente la necessità di scambiare i beni. Mentre un animale adulto può vivere una vita come essere indipendente, l’uomo ha bisogno della cooperazione dei suoi simili (fratelli, dice lui) e ottiene questo aiuto dando qualcosa in cambio. La ricchezza dunque, secondo lui, deriva dalla divisione e specializzazione del lavoro, ma la società invece si fonda sullo scambio e la concorrenza.
L’interesse di Ricardo (di cui pure ci siamo occupati nel capitolo precedente) riguardo l’analisi smithiana, fu di stringerla dentro delle strettoie logiche da Adam Smith stesso inaugurate, ma da cui non potesse più sciogliersi, per contrastare il concetto fondamentale che “la ricchezza” non appartiene affatto alle nazioni, ma invece alla classe dei capitalisti e dei proprietari terrieri se proprio vogliamo ancora includerli fra i ricchi.
Il quadro che ne viene fuori, ancora oggi dominante e su cui se avremo tempo torneremo in futuri articoli, è un quadro statico con delle leggi che valgono per sempre.
Ad essere precisi si riconosceva nella figura dell’imprenditore o del capitalista un nuovo soggetto sociale, ma questo capitalista non era trattato come un soggetto storico, con delle caratteristiche dipendenti dal contesto, incarnava invece la forma dell’Uomo compiutamente realizzata, quasi metafisico.
Teoricamente e di fatto, o meglio teoricamente perchè di fatto, il padrone del mondo.
Espongo il concetto per essere chiara. La figura dell’imprenditore, del capitalista, dell’uomo nuovo è quella di una persona che applicando dei sani principi di astensione dal consumo e di risparmio e grazie alle sue capacità intuitive, erige una grande impresa che dirige come il pater familia dirige una casa nel feudalesimo, in modo retto, economico e protettivo. Insomma l’uomo nuovo è parsimonioso, autorevole, retto, onesto, intelligente e grande innovatore.
In poche parole del tutto inesistente.
Sopratutto in Inghilterra è una figura antistorica, giacchè era da tempo che in quel paese si erano affermate le compagnie private e le forme societarie di proprietà. Inoltre gli industriali avevano già colonizzato la scena politica e tutto si può dire tranne che la loro ricchezza dipendesse dal loro genio e non invece da una legislazione ormai da tempo piegata al loro volere. Nella migliore delle ipotesi la figura di imprenditore che viene tratteggiata nei trattati degli economisti di inizio ottocento è una figura appartenente al medioevo, quando la borghesia era una classe nascente e il mercante colui che apriva nuove rotte commerciali espandendo in tal modo i confini delle città e dei villaggi, ma di questa persona nell’ottocento non esiste più alcuna traccia.
All’operaio, al bracciante, al contadino veniva riservato un ruolo che era perfettamente continuo con la visione del servo della gleba del medioevo: un soggetto passivo e manovrabile che i capitalisti potevano amministrare nel numero, nel luogo e nel modo di impiego a proprio piacimento.
Insomma inizia il cammino della teoria economica, una teoria classista e pericolosa.

La teoria marxista. La merce, il lavoro, la forma di valore.
Converrà ribaltare la prospettiva e iniziare a mettere dei punti fermi, che possano servirci per capire l’analisi marxista e le teorie economiche. Un punto fondamentale è di inquadrarle nel loro contesto storico e culturale.
Non voglio in questa sede addentrarmi nei legami che sempre si realizzano fra realtà effettiva, materialistica come direbbe Marx, e comprensione approssimativa, nella migliore delle ipotesi, della stessa. Quel che è certo è che gli economisti non fanno l’economia, ma si limitano a studiarla, riportano quanto vedono e dalle loro parole esce una visione più o meno accurata di quanto si sta svolgendo nella realtà economica sotto i loro stessi occhi, di questa realtà poi esprimono un parere (mi piace non mi piace) e questo è tutto.
Dunque è certamente uno dei contributi fondamentali dell’analisi marxista quello di aver posto con certezza lo sviluppo del modello di produzione capitalistico nella storia, legandolo a specifiche condizioni storiche, ma senza un vero e proprio determinismo.
La Storia passa per il capitalismo, ma il capitalismo non è affatto la fine della Storia.
Il capitalismo ha infatti vari fattori che ne preparano l’ascesa, ma fino a che non trovano l’elemento determinante, non inducono a un processo di trasformazione totale della realtà economica. L’elemento determinante è abbastanza lampante ai tempi di Marx: cioè il processo di industrializzazione.
Prima dell’avvento della grande industria o macchinismo o rivoluzione industriale infatti esistono forme economiche – che cercheremo di illustrare – che tratteggiano la nascita e lo sviluppo di una nuova classe, quella borghese, ma non esiste ancora una trasformazione vera e propria della società in società capitalista. Questo salto avviene proprio sotto gli occhi di Marx e le caratteristiche da lui descritte restano fondamentalmente valide anche nei secoli successivi, seppure il capitalismo ha letteralmente cambiato l’aspetto del mondo da quei tempi ad oggi.
Iniziamo a vedere quali sono.

I beni e servizi2, che circondano e definiscono la nostra vita materiale, hanno alcune caratteristiche:
1- sono frutto del lavoro umano
2- sono utili, devono servire cioè a soddisfare un’esigenza o bisogno particolare
3- da essi dipende la nostra sopravvivenza nel mondo
4- con essi garantiamo la riproduzione della specie umana
Ma i beni, da un certo stadio di sviluppo in poi, non si danno in natura (i prodotti della terra) e non vengono “autoprodotti” per l’autoconsumo o, per meglio dire, l’autoproduzione non è sufficiente a produrre tutto quanto un uomo necessita, così per vivere gli uomini devono scambiarsi questi beni, facendoli passare di mano in mano e trasformandoli perciò in semplice merce.
La merce, categoria di partenza dell’analisi marxista, ha una caratteristica specifica e a suo modo incredibile cioè quella di avere una natura duplice, in quanto esprime contemporaneamente sia un valore d’uso sia un valore di scambio.
Abbiamo già visto che cosa sono il valore d’uso e il valore di scambio, ma lo ripeto perchè sono termini fondamentali dell’analisi marxista.
Come valori d’uso le merci si differenziano per qualità, sono cioè prodotti differenti e di vario tipo che soddisfano vari bisogni umani. Questi bisogni non devono per forza “nascere dallo stomaco”, ma possono nascere anche dalla “fantasia” dell’uomo3.
Come valori di scambio le merci si differenziano invece per quantità (costano prezzi differenti), “non contengono neppure un atomo di valore d’uso”4.
La merce è dunque un valore d’uso che può essere scambiato, e solo la merce possiede questa duplice caratterizzazione.
Alcuni beni, quali un campo, la legna, l’acqua di fonte, ecc… possono non avere valore di scambio perchè si danno in natura, e quindi non esser merci, ma mantenere comunque un valore d’uso loro.
Altri beni, come il diamante, l’oro, un quadro bello, ecc… possono avere anche un loro valore d’uso, principalmente estetico e valido solo per una categoria piccolissima di persone, cioè gli ultra ricchi. La cosa che li caratterizza è invece di essere portatori di un altissimo valore di scambio.
La gran massa delle merci però, senza arrivare a questi estremi, possiede sia un valore d’uso che un valore di scambio socialmente riconosciuto e alla portata di un numero più o meno vasto di persone.

Da questa caratteristica della merce sorgono due tipi di problemi, specifici dell’epoca capitalista.
1- da che cosa dipende il valore di scambio della merce?
2- come si fa ad accumulare questo valore di scambio?

Il valore di scambio di una merce è quello che permette di mettere in relazione svariate merci fra di loro, cioè di dare le proporzioni in cui due tipi di merci – mediamente utili per un gran numero di persone – possano passare dalla mano di una persona, alla mano di un’altra.
Per spiegare per bene il processo, Marx compie una delle sue famosi astrazioni cioè assume, a questo stadio dell’analisi, che tutti gli uomini siano ugualmente produttori.
Mario produce vino, ma non pane.
Tobia produce pane, ma non vino.
Entrambi sono abbastanza specializzati nella produzione dei loro beni (hanno probabilmente una famiglia alle spalle che li aiuta in questa produzione) da produrre oltre al valore d’uso a loro necessario, anche un sovrappiù che per loro non rappresenta un valore d’uso.
Così Mario e Tobia si incontrano, mercanteggiano un po’, magari si dicono anche:
“Guarda a me non serve affatto questa bottiglia di vino, prendila tu”
“Ma per carità, non potrò mai ricompensare un dono così gradito con del semplice pane”
e insomma alla fine scambiano 3 kili di pane per un litro di vino.
Questa proporzione 3 kg di pane = 1 lt di vino è ciò che manda ai matti gli economisti borghesi.
Le merci per stare così in proporzione devono avere una cosa che le eguaglia e questa cosa è la quantità di lavoro necessario a produrle, cioè la produzione di 3 kg di pane necessita di altrettanto tempo di lavoro quanto la produzione di un litro di vino.5

“Se si prescinde dal valore d’uso dei corpi delle merci non resta loro che una proprietà: quella di essere prodotti del lavoro”6

Citiamo al riguardo un brano di Marx, perchè se è il tempo di lavoro impiegato a produrre una merce a definirne il valore (e di qui in avanti se non diversamente specificato valore avrà sempre il significato di valore di scambio), allora potrebbe sembrare che quanto più tempo un operaio impiega a produrre quella merce, tanto più essa valga sul mercato.

“Potrebbe sembrare che, essendo il valore di una merce determinato dalla quantità di lavoro speso nella sua produzione, quanto più un uomo è pigro o inabile, tanto più la sua merce abbia valore, perchè abbisogna di un tempo tanto maggiore per essere finita. Ma il lavoro che costituisce la sostanza dei valori è lavoro umano eguale, dispendio della medesima forza lavoro umana. Qui l’intera forza lavoro della società figura come una sola e medesima forza lavoro umana, benchè sia composta di innumerevoli forze lavoro individuali. Ognuna di queste è forza lavoro umana identica alle altre, in quanto possiede il carattere di forza lavoro sociale media e come tale agisce. Non abbisognando nella produzione di una merce che del tempo di lavoro mediamente o socialmente necessario”7

Questa definizione di lavoro mediamente o socialmente necessario, nonché quella di lavoro astratto socialmente necessario, è una categoria centrale dell’economia marxista e dipende da tantissime variabili. Non è infatti il tempo di lavoro individuale che determina il valore di scambio di una merce, ma quello che deriva da quanto tempo tutti i produttori di quella merce impiegano nel produrre la stessa identica merce.
La grandezza di valore di una merce infatti rimarrebbe costante se fosse costante il tempo di lavoro richiesto per produrla, ma questo varia continuamente.
La concreta misurazione del valore di una merce da una parte dipende dal meccanismo della concorrenza e dello sfruttamento della forza lavoro che mette i produttori in competizione fra di loro e li spinge a produrre tante più merci nel minor tempo possibile; e dall’altra parte e principale dipende dalle forze produttive impiegate nel processo di produzione. È questa una delle più famose leggi marxiste: quanto più crescono le forze produttive, tanto diminuisce il valore di una merce.

“In Inghilterra, per citare un esempio, dopo l’introduzione del telaio a vapore bastò forse la metà del lavoro di prima per trasformare in tessuto una data quantità di filo. In realtà per questa trasformazione, al tessitore a mano inglese occorreva lo stesso tempo di lavoro che in passato, ma adesso il prodotto della sua ora lavorativa individuale rappresentava soltanto mezz’ora di lavoro sociale; quindi, discese alla metà del valore precedente”8

Anche il lavoro ha una duplice natura: come lavoro utile e concreto, cioè specializzato in qualche forma (sartoria, tessitura, ecc…) è sempre esistito. Per Marx infatti è il lavoro che definisce l’essere umano e media il rapporto di ricambio organico dell’uomo con la natura. In questo senso la divisione sociale del lavoro nasce prima dell’avvento della merce e ne è condizione di sviluppo, ma nel momento in cui la merce prende il sopravvento nel rapporto economico e diventa l’unico riferimento del modo di produzione, il lavoro concreto ed utile viene ridotto ad un’unica sua qualità, cioè quella di essere dispendio di forza lavoro umana. Cioè lavoro che crea valore.
È utile a questo punto aggiungere un’altra distinzione marxista. Abbiamo infatti visto la distinzione fra lavoro utile, concreto e tempo di lavoro socialmente necessario.
Ora vediamo quella fra lavoro complesso e lavoro semplice. Non è sempre bene specificato a quali tipi di lavoro si riferiscano questi due termini, ma in generale con lavoro complesso potrebbe intendersi quello che necessita di periodi lunghi di formazione e con lavoro semplice quello che si può fare senza formazione.
Marx cerca in questo modo di risolvere e ricomprendere la dicotomia fra “lavoro duro” e “lavoro semplice” di A. Smith che introducendo una distinzione di questo tipo voleva rappresentare il fatto che non tutti i tipi di lavoro producono la stessa quantità di valore di scambio.
Marx accetta questa distinzione, cioè che non tutti i lavori concreti producano lo stesso valore a parità di tempo impiegato e lo fa cercando il minimo comune denominatore nel lavoro medio astratto, di modo da scomporre ogni lavoro concreto in parti di lavoro sociale uguale. Per questo motivo il lavoro complesso viene anche detto lavoro potenziato o moltiplicato perchè vale come moltiplicazione di lavoro semplice e per cui una minor quantità di lavoro complesso è uguale a una maggior quantità di lavoro semplice9.

Torniamo al mondo astratto e ideale dei semplici produttori. In questo mondo ideale gli uomini si scambiano fra di loro i prodotti del lavoro. Tela contro abito. Abito contro vino. Vino contro Bibbia. Le più svariate proporzioni in cui le merci si scambiano, costituiscono quelle che Marx definisce “forme di valore” e di cui individua le principali caratteristiche.
La forma di valore semplice è quella caratterizzata da questo tipo di relazione: 20 braccia di tela = 1 abito (x merce a = y merce b). In questa relazione 1 abito vale come equivalente di 20 braccia di tela. Cioè, ancora, per il tessitore che produce tela e ha sovrabbondanza di tessuto, 1 abito è l’equivalente di quante braccia di tela è disposto a produrre per entrare in possesso di 1 vestito intero. In questa forma di valore semplice già si svela l’origine del valore. Esiste cioè qualcosa che eguaglia questi due valori d’uso e questo qualcosa è il tempo di lavoro necessario a produrli. In questa relazione l’abito funge da equivalente della tela. Cioè il suo valore d’uso si trasforma “in forma fenomenica del suo opposto”, cioè del valore di scambio.
Questa sua metamorfosi che sembra eguagliare due cose diverse, mele e pere, utilità e valore, è ciò che occulta e rende difficile capire la relazione economica che si nasconde nella produzione e nel commercio capitalista.
Se messa in moto questa forma di valore semplice è in grado di spiegare anche il variare delle proporzioni in cui si scambiano le merci. Infatti al dimezzarsi del tempo di lavoro necessario a produrre la tela, per esempio perchè è stato introdotto il telaio meccanico, anche il suo valore si dimezza e 20 braccia di tela potranno essere scambiate solo con mezzo abito (per es. un paio di pantaloni). Se invece si dimezza il tempo di produzione necessario per entrambe le merci, la proporzione in cui si scambieranno resterà identica…
Che succederà in questo caso al tempo di produzione così risparmiato? Niente di buono.
Se proviamo ad estendere questa prima forma di valore, abbiamo poi quella che si chiama forma di valore totale o dispiegata. 20 braccia di tela = 1 abito; oppure 1 busta di caffè; oppure 2 buste di the, ecc… (x merce a = y merce b; z merce c, ecc…)
La forma di valore dispiegata mostra che non sono i diversi tipi di valore d’uso che vengono scambiati fra di loro e neanche i diversi lavori concreti che si comparano l’un l’altro, ma solo il tempo di lavoro socialmente necessario a produrli. Questa forma di valore, così come quella precedente, è indipendente dalle volontà dei singoli produttori o permutanti, è invece la situazione che questi si trovano effettivamente di fronte quando devono quantificare il valore del loro lavoro concreto. Il lavoro concreto e utile si trasforma “in forma fenomenica del suo opposto” cioè in lavoro astrattamente umano, il lavoro privato in forma di lavoro immediatamente sociale.
Facciamo un terzo passaggio e passiamo alla forma di valore più complicata (ma più ovvia). Cioè la forma di valore generale. Questa forma di valore legge l’uguaglianza precedente all’incontrario (1 abito; oppure 1 busta di caffè; oppure 2 buste di the = 20 braccia di tela). In questo caso è la tela che funge da equivalente di tutte le altre merci e serve a mettere in luce il ruolo stesso dell’equivalente.
Qui le 20 braccia di tela, assurgono a un ruolo incredibile: il suo possessore è in grado di ottenere qualunque altra merce in cambio della tela. Ogni merce si riflette nel valore della tela e chiunque possegga della tela è un uomo libero che può entrare in possesso di qualunque altro bene gli serva. In questo esempio la tela funge cioè da “equivalente generale”, categoria centrale e fondante dell’economia.
Ma prescindendo dall’esempio specifico della tela, che cosa mai sarà questo equivalente generale di tutte le merci? Lo abbiamo già detto, ma lo ripeto, perchè la cosa non è di immediata comprensione: si tratta del lavoro.
Storicamente però questa forma di valore generale non è così appariscente come ve l’ho spiegata io e ruolo di equivalente generale lo ha invece assunto il denaro.
La quarta e ultima forma di valore è la forma di denaro che è appunto questa (1 abito; oppure 1 busta di caffè; oppure 2 buste di the = 20 grammi d’oro).
In economia questa forma di valore è quella tipica e viene chiamata prezzo.

Prima di addentrarci nelle problematiche relative al denaro e alla sua funzione principale che è quella di mediare e portare in vita la circolazione delle merci, converrà spendere ancora due parole su una conseguenza che la forma di valore genera nella società e tema caro a Marx stesso, cioè quello del feticismo delle merci.
Per trovare un paragone efficace di come la forma di valore riesca a nascondersi, mimetizzarsi, camuffarsi, occultarsi e quasi dileguare alla coscienza bisogna, secondo Marx, cercare un paragone col mondo religioso. Da ateo qual era, Marx riteneva che Dio e tutti gli dei precedenti, non fossero mai esistiti e che fossero in realtà solo una creazione immaginaria dell’essere umano. Una rappresentazione ideata dagli uomini, che nel momento in cui va in scena, si separa dagli uomini stessi, acquista gambe proprie e si relaziona con gli uomini come se fosse realmente esistente.
Così come il misticismo anche il valore di scambio acquista una parvenza propria, separata da ciò che lo ha generato, cioè dal tempo di lavoro. Il valore delle cose non appare confrontando direttamente lavoro omogeneo a lavoro omogeneo, ma solo nel rapporto fra le cose stesse. Non sono gli uomini a confrontarsi fra di loro in questo rapporto sociale, ma gli oggetti, le merci, che solamente all’apparenza hanno un valore intrinseco. Il fatto stesso che questo valore muti di continuo rafforza l’idea che sia stato generato da qualche cosa di esterno all’uomo stesso, che sia proprio delle merci stesse e così finisce per imporsi nel rapporto con gli esseri umani come qualcosa di estraneo di cui gli uomini possono solo prendere atto.
La scoperta che il valore delle merci è determinato mediante il tempo di lavoro socialmente necessario a produrle è una legge scientifica che appare però solo dopo averla analizzata.

Scambio e circolazione delle merci semplice. La funzione del denaro.

Abbiamo visto che la forma di valore semplice (x merce a = y merce b) contiene già tutti gli elementi del processo di scambio delle merci. Un valore d’uso si confronta quantitativamente con un altro valore d’uso diverso e solo in questo confronto si verifica se c’è un’utilità sociale effettiva che permette lo scambio. Questa è nota come forma del baratto che, tutti sanno, si posiziona agli albori della storia umana.
Per vedere affermarsi il valore di scambio bisogna però passare dalla comunità arcaica in cui solo saltuariamente avviene lo scambio tramite il baratto, cioè quando la comunità produce di più di quanto gli sia necessario in quel momento, alla società moderna in cui lo scambio diventa il processo normale per procurarsi qualunque bene necessario alla vita (e il baratto scompare). Stessa metamorfosi devono fare oro e argento che da diventare saltuariamente espressione di equivalente devono guadagnarsi il posto di equivalente generale per tutte le merci.
Noi qui assumiamo che oro e argento siano l’unica forma di denaro. In realtà già ai tempi di Marx, la grande quantità di miniere d’argento che era stata scoperta, stava rendendo questo metallo non più in grado di valere come misura del valore, ma giacchè lo era stato per secoli e secoli, Marx continua a considerarlo tale accanto all’oro. Noi oggi siamo in una fase ancora diversa, in cui il denaro ha solo un corso forzoso e non più una materia vera e propria, ma dato che questa trasformazione è stata completata proprio durante l’epoca industriale conviene arrivare a spiegarla seguendo il ragionamento di Marx stesso.
Intanto il valore dell’oro come equivalente generale viene determinato nella stessa maniera in cui tutte le altre merci si valutano. Attenzione dunque: non è la scarsità che ne determina il valore, anche se in prima battuta appare così, ma invece la difficoltà a reperirlo e il tempo di lavoro necessario ad estrarlo. Si aggiunga inoltre che l’oro ha un valore d’uso scarsissimo (serve solo a fare qualche monile) e che viene estratto proprio per la sua funzione di equivalente generale.
Da secoli, infatti, ogni Stato grande come l’impero romano o piccolo come una città stato dell’antica Grecia, ha usato l’oro per finanziare le guerre. E le miniere di Stato in cui gli schiavi lavoravano senza sosta e il bottino che i guerrieri facevano quando conquistavano una città sono sempre stati rivolti ad ammassare grandi quantità di oro con cui pagare armi e mercenari.
Fuori dal contesto della guerra, esempio troppo facile in realtà, cerchiamo di capire come avviene che il denaro assuma questo ruolo centrale nell’economia.
Di forme di denaro nella storia ne sono state usate tantissime, dalle conchiglie al bestiame, ci sono voluti secoli e forse anche millenni perchè oro e argento diventassero i rappresentanti ideali del denaro.
Ci sono cinque funzioni del denaro che andremo a vedere e, qui avviso, queste funzioni sono rimaste tali fino ad oggi ed altre probabilmente se ne sono aggiunte. Si tratta delle seguenti: 1 – misura di valore; 2 – mezzo di circolazione; 3 – tesaurizzazione; 4 – mezzo di pagamento: 5 – denaro mondiale.
La prima caratteristica che il denaro deve svolgere è quella di fungere da misura del valore, funzione derivata direttamente dalle forme di valore esaminate prima. Oro e argento ben si prestano a questo poichè sono facilmente trasportabili e divisibili, per cui originariamente e in realtà fino a ieri, era il peso che incarnava quella che viene chiamata “scala dei prezzi”. Infatti 20 grammi d’oro esprimono un valore doppio di 10 grammi e 5 grammi sono una parte aliquota di 10 e di 20. Così grazie a queste due caratteristiche (trasportabilità e divisibilità) l’oro diventa il rappresentate ideale del prezzo. Lo diventa così tanto che anche quando viene sostituito dalle banconote, queste raffigurano in un primo tempo, l’oro stesso e vengono emesse in diversi tagli per incarnare la scala dei prezzi.
Inoltre l’oro mantiene queste sue proprietà anche in presenza di cambi di valore. Se per qualche motivo si verifica una scarsità di oro, il valore (il prezzo) aumenterà, ma il fatto che 20 grammi valgano ancora il doppio di 10 grammi non cambierà. Così al variare del valore dell’oro o delle merci, il prezzo di tutte le merci varierà contemporaneamente, segnalando con questo anche che la scala dei prezzi e la misura del valore sono due cose distinte, che solo in rari momenti possono sovrapporsi.
Per quel che riguarda l’oro, fatto fisso il valore delle merci (per esempio questo succedeva in certi periodi nel medio-evo) al variare del valore dell’oro tutti i prezzi delle merci si adeguavano. Se il valore dell’oro aumenta (per esempio perchè l’oro defluisce tutto dai forzieri per travasarsi in qualche altro Stato), il prezzo delle merci cala. Viceversa se il valore dell’oro cala, il prezzo di tutte le merci sale.
Fatto invece fisso il valore dell’oro si avrà che un aumento del valore delle merci (per esempio in seguito a una carestia) determina un incremento del prezzo; mentre una diminuzione del valore (per esempio per l’introduzione di nuove tecniche di produzione) determina una diminuzione anche del prezzo.
Chi è però che mette un prezzo alle merci?
L’uomo, ma non basta dare un prezzo alle cose per trasformarle in oro10.
Prima bisogna realizzare questa trasformazione nello scambio.
Infine se anche una merce dà buona prova di sé e realizza il suo valore di scambio non è automatico che l’oro così ottenuto, in seguito si possa convertire nella stessa quantità di merce. Infatti il valore delle merci cambia continuamente, col variare del tempo di lavoro socialmente necessario a produrle e così anche la sua equivalenza con l’oro o l’argento che esprimono la scala dei prezzi. Dunque là dove in un primo momento 2 sterline d’oro sono l’equivalente preciso di 1 quintale di grano, in un secondo momento questo quintale potrebbe equivalere solo a 1 sterlina o invece a 3.

“Lungi dall’essere un difetto di questa forma, tale possibilità la eleva a forma adeguata di un modo di produzione, nel quale la regola può farsi valere solo come legge media dell’irregolarità, una legge operante alla cieca”11.

Andiamo a vedere questa legge e entriamo nel vivo delle contraddizioni del capitalismo.
Il denaro, oltre alla funzione di misura del valore, possiede altre caratteristiche.
La seconda e altrettanto importante della prima è quella di fungere da mezzo di circolazione. Per realizzarsi, la circolazione delle merci si scompone in due fasi o metamorfosi come le chiama Marx.
Da un lato c’è il momento della vendita o prima metamorfosi della merce: merce si scambia con denaro (M-D), dall’altro c’è il momento della compera o seconda metamorfosi della merce, dove il denaro ottenuto dalla prima vendita si scambia con altra merce (D-M).
Il processo completo è dunque M-D-M.
Merce, denaro, altra merce.
Vendere per comprare.
Pane – denaro – vino.
Il possessore del pane, che ha bisogno del vino, vende 3 kili di pane, ottiene 20 grammi d’oro e subito li va a spendere per comprarsi il vino. Il possessore del vino col denaro ricavato andrà a comprarsi una bibbia. E via di seguito in una catena ininterrotta di scambi che disegnano un circolo ideale.
La circolazione delle merci infrange il muro del baratto, inserendo una catena ininterrotta di scambi di merci. Il denaro funge qui solo da mediatore della circolazione delle merci, cioè da mezzo di circolazione.
Già però si addensano le nubi del capitalismo.
Infatti mentre la circolazione delle merci disegna idealmente un circolo conchiuso, un’altra circolazione è in agguato e precisamente quella del denaro. Infatti il processo può ben essere letto D-M-D, ma ci arriveremo a spiegare questa seconda circolazione, tipica del modo di produzione capitalistico.
Prima seguiamo l’analisi di Marx. Abbiamo visto che il venditore di pane in realtà ha come obiettivo quello di acquistare il vino. Ma i due momenti vendita del pane (M-D) e acquisto del vino (D-M) invece di avvenire nella stessa identica giornata possono accadere in momenti separati.
Al calar della notte tutti gli scambi si chiudono e quello che resta della circolazione delle merci, le quali hanno tutte cambiato di mano, e diciamo pure, in questo mondo ideale chiuso alla sola sfera della circolazione delle merci, mediato il ricambio organico dell’uomo con la natura, cioè fatto il proprio dovere di garantire la sopravvivenza ancora per un giorno del genere umano, al calar della notte, dicevamo, quel che resta è il denaro12.
Tantissimi momenti di vendita senza compera.
Ma quanto denaro resta al calar della notte che il giorno seguente servirà nuovamente per la circolazione delle merci?
Certo, è una domanda un po’ oziosa, ma dato che Marx ci dedica svariate pagine, presumiamo fosse un tema appassionante all’epoca. D’altronde parliamo ancora di grammi d’oro e non di sassolini raccolti per via e può ben essere che capitasse che ce ne fosse troppo o troppo poco.
Dunque ci sono tre aspetti da tenere in considerazione: il valore dell’oro; il valore delle merci e infine il numero degli scambi.
Abbiamo già detto che a valore delle merci costanti, una mutazione nel valore dell’oro o dell’argento comportano una mutazione inversa nel prezzo delle merci. Dunque se il valore dell’oro e dell’argento diminuisce, il prezzo delle merci aumenta e servirà più oro e argento cosiddetto circolante; viceversa se il valore dell’oro e dell’argento diminuiscono. Se sono invece oro e argento a non mutare di valore, il prezzo delle merci rappresenterà solamente mutazioni di valore delle merci stesse. Così all’aumentare del valore delle merci, aumenterà il prezzo e servirà più oro e argento come circolante.
Per quel che riguarda il numero degli scambi invece dobbiamo considerare la quantità di scambi che si realizzano in un ciclo. Dato che abbiamo visto che ogni vendita è in funzione di una compera, quanto più alta sarà la velocità degli scambi, tanto minore sarà la necessità di avere del denaro come circolante. C’è proprio una formula matematica al riguardo che trovate in nota13. Ora questa osservazione a noi potrà pur sembrare banale, ma è materia a cui invece certi soggetti, in primo luogo gli Stati e i capi delle Zecche, hanno dedicato molti studi, quando l’oro e l’argento funzionavano come denaro.
Inoltre la notazione che la velocità degli scambi è essenziale alla circolazione delle merci è una spiegazione non banale tutt’oggi del perchè molte crisi potenziali in realtà non si manifestano, infatti se c’è una diminuzione della rotazione delle “monete omonime” e cioè una diminuzione del numero degli scambi che si realizzano in un ciclo (giornaliero, settimanale, mensile), la diminuzione della velocità darà l’illusione di una scarsità generale di denaro. Viceversa se la velocità degli scambi aumenta, la stessa quantità di “monete omonime” e cioè oro e argento, basteranno per un maggior numero di scambi. Questa caratteristica del numero incrementato di scambi che può essere sviluppato solo con una rotazione accelerata della moneta è diventata fondamentale con lo sviluppo della globalizzazione dove il denaro può spostarsi da un lato all’altro del globo, praticamente nell’arco di una giornata.
In generale infine nella circolazione semplice è raro che venga a mancare il circolante, dato che le variazioni si compensano a vicenda e garantiscono una certa stabilità. Non è proprio la descrizione dell’equilibrio del mercato, tema che in seguito ossessionerà gli economisti, ma è pur sempre una buona descrizione del perchè il mercato sta in equilibrio.
Chi fissa la quantità di circolante? Lo abbiamo già detto strada facendo, ma è meglio soffermarsi.
Sono gli Stati (i comuni, i ducati, le città, le regioni, i regni, gli imperi, ecc…). Questo capitolo è forse l’unico in cui Marx è costretto a parlare di queste entità istituzionali, riconoscendogli un ruolo ufficiale nello sviluppo del modo di produzione capitalista. Gli Stati dunque, che ruolo hanno in questa questione di gestire il denaro?
Seguiamo lo sviluppo del denaro e lo scopriremo.
“Dalla funzione del denaro come mezzo di circolazione nasce la sua forma di moneta”14. Non facciamoci trarre in inganno da Marx: denaro e moneta sono di fatto termini sinonimi, ma vengono usati in maniera diversa per seguire il divorzio che si realizza fra l’oro come denaro e la moneta di corso forzoso.
Abbiamo introdotto alcuni aspetti di cui sarà bene dare una spiegazione. Intanto che cosa sono le “monete omonime”? In questo caso Marx fa un riferimento sicuramente all’economia passata e non so se anche all’economia del suo tempo. Fatto sta che 1- come abbiamo già visto esistono due tipi di metallo che avevano assunto il ruolo di denaro cioè l’oro, ma anche l’argento. E in seguito il rame, per arrivare ai nostri tempi in cui anche l’acciaio va bene. Spesso monete d’oro e monete d’argento circolavano con lo stesso identico valore, in questo senso erano “omonime”; 2- immagino, ma non sono sicurissima, che si tratti anche del commercio internazionale, in cui, sempre parlando di tempi antichi, spostandosi tra la Repubblica di Venezia e il regno di Francia le monete avevano un nome molto diverso perchè “battute” da due entità giuridiche diverse, ma è probabile che avessero lo stesso valore, essendo di solito formate dallo stesso metallo, oro e argento. Per cui di nuovo si può usare il termine di Marx “monete omonime”; 3- infine l’introduzione delle banconote stesse all’inizio del suo percorso storico può essere considerata creazione di monete “omonime”.
Abbiamo anche detto che in questa fase diviene determinante il ruolo degli Stati ed è da tenere sempre presente il contesto di queste circolazioni monetarie che nascono a una data non meglio precisata nel medioevo e arrivano fino a tutto il 1700 e gli inizi dell’ottocento, a seconda anche degli sviluppi politici degli Stati in questo periodo.
Così compito dello Stato è anche quello di fissare la scala dei prezzi e in conseguenza di questa, coniare le monete. La scala dei prezzi originariamente riflette direttamente il peso dei metalli, cioè vengono coniate monete del peso di 5 grammi, 10 grammi, 20 grammi, ecc…
Presto però si realizzano due fenomeni che portano sempre più a divergere il peso dell’oro dalla sua coniatura in monetine. Da un lato c’è un divorzio fra sfere nazionali di circolazione della moneta e mercato mondiale in cui le diverse monete e il valore stesso dei metalli non coincidono più. Dall’altro anche all’interno della stessa circolazione nazionale il valore nominale della moneta e il suo valore reale iniziano a divergere. Cioè per essere più chiari il peso delle monete e quanto lo Stato dichiara che pesano inizia a non coincidere più.
Marx qui è veramente generoso nei confronti dello Stato ed è disposto a riconoscere che questo problema derivi innanzitutto dall’uso che viene fatto delle monete. Il fatto che queste siano soggette ad un uso quotidiano che avviene in modo sempre più esteso e sempre più frequente, logora le monete. Così che quando il Palazzo conia delle monete nuove, queste pesano di più delle loro cugine già in circolazione nel mercato.
Questo fatto che peso reale e quindi valore reale della moneta e valore nominale prendano strade diverse viene via via accentuato dallo Stato stesso.
Marx cita solo di passaggio questa eventualità che invece i sovrani hanno utilizzato spesso e coscientemente: “prendete questo fiorino nuovo di zecca, luccica più di quello che state usando ora, ma pesa un pochino meno, così poco che neanche ve ne accorgerete”.
Insomma di fatto e per non farla troppo lunga è l’uso stesso della moneta, coniata dagli Stati, cioè da istituzioni che via via tutti i commercianti e i lavoratori riconoscono, che inaugura l’avvento della moneta come puro segno di valore. Perso ogni legame col suo peso aureo o argenteo, la moneta diviene tale solo in virtù di quanto c’è scritto sopra che vale. Nascono le monete spicciole, di metallo comune, nascono le banconote.
In un primo tempo e per un paio di secoli in realtà, ancora le banconote rappresentano direttamente un peso aureo, che la banca può sempre convertire. Ed è solo storia recentissima (1974) che ci si sia risolti a scindere il valore del denaro da quello dell’oro.
Il cuore di questo processo di separazione fra valore reale e valore nominale della moneta sostiene Marx è comunque fortemente agganciato al ruolo di questa nella sola sfera della circolazione delle merci. Fintantochè, infatti, ci troviamo ancora nella situazione in cui il denaro funge da mediatore della circolazione delle merci (M-D-M) è ancora nella sua veste immatura in cui vale solo come mezzo di circolazione e in questa funzione può ben essere sostituita da un puro simbolo, dopo quel paio di millenni in cui è rimasta solidamente agganciato al valore dell’oro.

Ci sono infine altre tre importanti funzioni del denaro legate però alla circolazione capitalistica e non a quella di semplice circolazione delle merci.
Nella tesaurizzazione l’oro torna padrone della scena: “il denaro si pietrifica in tesoro e il venditore di merci diventa tesaurizzatore”16.
Dalla circolazione delle merci nasce la passione di conservare il prodotto della prima metamorfosi della merce (M-D), cioè si vende non più per comprare, ma per acquisire il denaro come prodotto.
L’oro è infatti la forma sempre pronta della ricchezza sociale e nel momento in cui ogni merce si muta in oro, non si sa più da che cosa sia stata originata. Così l’oro, a prescindere dalle sue funzioni di misura dei valori e di mezzo di circolazione, acquista una nuova funzione e un nuovo “valore d’uso” come merce in sé e il mercato di questi metalli preziosi si estende. L’oro e l’argento diventano espressioni del superfluo e della ricchezza e in ogni punto del commercio si formano tesori argentei e aurei.
Il tesaurizzatore non è ancora il capitalista e l’unico strumento a cui può far ricorso per ammassare questi tesori è quello di comprare meno di quanto venda. “Vendere molto e acquistare poco è la somma della sua economia politica”17

Come mezzo di pagamento (o moneta di credito) il denaro non è la stessa cosa del mezzo di circolazione. In realtà nell’analisi marxista in questa forma sono ricomprese tutte le variegate modalità di prestiti (pubblici o privati, a breve o a lunga scadenza). In questa forma, infatti, il denaro viene anticipato senza che sia stata fatta una vendita precedente e si formano le figure del debitore e del creditore. La massa del denaro che funge da circolante in un dato periodo e la massa degli scambi di merci non coincidono più, non avvengono nello stesso periodo, ma si creano delle catene reciprocamente dipendenti di debiti e crediti, che vengono a scadenza in momenti diversi.
Finchè tutto va bene le catene si compensano a vicenda e il denaro funge bene da mezzo di pagamento, ma non appena il meccanismo si inceppa, si generano quelle che Marx definisce crisi monetarie. Basta infatti una falla in qualche punto della catena perchè questa si ripercuota a tutti i livelli.
Perchè il denaro come mezzo di circolazione possa essere sostituito in gran parte dal denaro come mezzo di pagamento, il modo di produzione deve essersi molto sviluppato in direzione capitalista. Questo sviluppo che vede alternarsi varie fasi in cui il denaro come mezzo di circolazione e il denaro come mezzo di pagamento si sovrappongono, nel momento in cui prende piede impone la forma del pagamento in denaro come unica possibile, e questa viene adottata anche dagli Stati.
Col suo solito modo di fare contradditorio Marx cita un esempio storico risalente al periodo dell’impero romano, in cui l’Impero si mise in testa di riscuotere i tributi a certe date precise non più in natura, ma in denaro. Il tentativo fallì per ben due volte e per molti secoli a seguire, perchè facendo così l’impero finiva per drenare anche il denaro che invece era necessario come mezzo di circolazione, mandando gambe all’aria l’economia.
Pare oggi difficile capire questo esempio, perchè con le varie forme di pagamento elettronico non può più capitare che in certe scadenze il denaro come numerario, nel suo vestito di banconota sonante, venga a mancare perchè tutta riversata nelle casse delle banche o dello Stato per rispettare le scadenze dei pagamenti, ma nell’antichità e fino a tutto l’ottocento, era in realtà un fenomeno frequente. Se oggi la catena dei pagamenti si interrompe accade per altre ragioni che non sono quelle semplici della mancanza del circolante.

L’ultima funzione e baluardo del ruolo dell’oro come denaro è quella di denaro mondiale. Su questo palcoscenico (nell’ottocento marxista) solo l’oro poteva fungere da mediatore degli scambi internazionali: rappresentante di valore, mezzo di circolazione e sopratutto strumento di tesaurizzazione. Qui l’oro e l’argento vengono incamerati dagli Stati per due vie: 1- come merce (o prodotto delle colonie) con un movimento che va dagli stati produttori di metalli preziosi a tutti gli altri; 2 – col commercio internazionale che si basava sul legame strettissimo della moneta con l’oro. Motivo per cui gran parte dell’economia classica era ossessionata dalla preoccupazione che la bilancia dei pagamenti fosse in attivo e cioè che dal commercio internazionale affluisse oro, nella sua forma di denaro mondiale, nelle casse degli Stati.

 

 

1Oltre a quelli citati nell’articolo precedente Marx ne nomina molti altri. Mentre alcuni di quelli che io ho nominato la volta scorsa, tipo Malthus, Marx li piazza semplicemente fra gli economisti “volgari” cioè non scientifici, a suo parere.

2Nell’analisi ottocentesca la merce è composta solo dai prodotti materiali dell’attività umana, ma già a partire dall’analisi di Marx le caratteristiche della merce si appiccicano a tutta una serie di attività che non producono un bene materiale, ma solo un servizio (l’affitto della casa, i servizi delle banche, i bisogni dello spirito). In seguito poi il servizio (assicurazioni, assistenza medica, il rider che consegna a domicilio, il commerciante, ecc…) entrerà a pieno titolo nell’attività economica generale al pari dei beni prodotti.

3Per fantasia Marx si riferisce per esempio a quei bisogni di natura spirituale o passionale, tutti quelli appartenenti al vasto regno della fantasia. Potremmo dire più in generale che non sono bisogni legati alla mera sopravvivenza fisiologica.

4Cfr. Marx il Capitale, UTET edizioni, 2017, pag.110

5Marx, persona più seria di me, parla invece di tela e abito, vino e Bibbia.

6ibidem

7Ivi pag 111-112

8Ivi pag 112

9In seguito a partire da questa distinzione si svilupperà un filone di studi più specifico che seguendo l’analisi smithiana legge anche le differenze stipendiali come derivate da due condizioni: 1- il salario sarebbe il compenso per la fatica e la rinuncia al tempo libero; 2- i differenti salari dipenderebbero dal tempo di vita dedicato al lavoro e il tempo di vita dedicato alla formazione, così che i maggiori salari destinati al lavoro complesso sarebbero un compenso per i periodi di studi che sono improduttivi e dispendiosi.
In realtà nessuna di queste due spiegazioni regge alla prova dei fatti e rimane centrale invece il ruolo del salario come compenso per la vendita della forza lavoro e unico strumento di sopravvivenza dei lavoratori.

10Cfr. Marx, Il Capitale, pag. 177

11Ivi pag. 184

12 “La circolazione [delle merci] trasuda costantemente denaro”. Marx, ivi pag 196.

13Somma dei prezzi delle merci in un ciclo / numero dei giri delle monete omonime = massa del denaro funzionante come mezzo di circolazione, cioè circolante.
Da questa formula non è possibile ricavare in alcun modo la variabile “prezzo delle merci”, trattandosi di una sommatoria in cui tutte le mucche sono nere. Costruita a posteriori è formula utile solo alle Zecche di Stato per capire quante monete coniare per la circolazione semplice delle merci.

14Ivi pag 210

16Ivi pag 217

17Ivi pag 221

 

 

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50 anni di corsa. La crisi di sovrapproduzione mondiale.

 

Nel dibattito degli ultimi anni siamo rimasti un po’ fermi a una visione un po’ nostalgica di quelli che sono stati gli anni 70 e 80 in Italia e nel mondo.

Questo articolo vuole recuperare ed aggiornare un po’ questo scenario. Chiaramente si tratterà di una semplificazione, per altro molto artigianale, il cui unico obiettivo è quello di fornire delle coordinate minime di argomentazione politica dei processi passati, per quanto sono ancora importanti oggi, periodo in cui, oggettivamente, la situazione mi pare essere sfuggita a qualunque speranza di raziocinio.

La crisi degli anni ’70 può essere riassunta, in maniera estremamente sommaria, dicendo che era stata preceduta da un periodo di crescita imponente e di scala planetaria che a sua volta aveva seguito la tragica fine della seconda guerra mondiale.

Il mondo, spinto in oriente dalle politiche socialiste e in occidente dalle politiche keynesiane, aveva imboccato una strada contraddittoria, connaturata alla guerra fredda che portava guerra in ogni angolo del mondo, in particolare in Corea e in Vietnam, ma che in qualche modo come economia globale cresceva senza sosta.

Il modello entra in crisi proprio negli anni ’70. Anni che, paradossalmente, rappresentano anche, in Italia almeno, il punto più alto delle conquiste sociali (scuola, sanità, divorzio, scala mobile, lavoro, case popolari, ecc…).

Anche nel resto del mondo si fanno passi avanti, gli anni ’70 sono quelli in cui si consolida la cosiddetta terza via di sviluppo, non allineata né ai paesi socialisti, né ai paesi occidentali ed alimentata dal processo di decolonizzazione e in cui cadono le ultime dittature europee: Grecia, Spagna e Portogallo.

Non sono però tutte rose e fiori. Infatti è in questi anni che si manifesta la cosiddetta crisi di sovrapproduzione, che è principalmente di merci, ma con tratti di sovrapproduzione di capitali (che però troverà negli anni ’80 un suo sfogo particolare), in cui cioè il mercato, almeno quello occidentale inizia a segnalare problemi di saturazione e quindi di merci (principalmente auto ed elettrodomestici) che ristagnano nei magazzini.

Inoltre è sempre in questi anni che si hanno i primi segnali della crisi energetica, quando i paesi dell’OPEC (produttori di petrolio, ma non americani) si sfrancano dalla politica statunitense e impongono dei prezzi al petrolio di loro decisione. È quanto possono fare dato che la produzione del petrolio è un settore particolare, retto dalle regole di monopoli e oligopoli che seguono una formazione del prezzo tutta loro. I paesi dell’OPEC alzano il prezzo del petrolio per motivi politici e cioè per aiutare i loro fratelli palestinesi impegnati in una guerra con Israele, sanguinosa, ma non brutale. E scoprono di essere effettivamente padroni del mercato mondiale. Rientrano presto, però, nella politica statunitense, abbandonando la solidarietà musulmana.

Inoltre è il decennio fra i più duri dello scontro della guerra fredda che vede in particolare in Sud America, in quel decennio e nel successivo, succedersi svariati golpe di matrice statunitense che instaurano regimi sanguinari non molto dissimili da quelli nazisti da poco tempo tramontati in Europa.

Infine è il decennio in cui vengono abbandonati i famosi accordi di Bretton Wood del 1944, quelli in cui la comunità internazionale, con non pochi problemi, aveva accettato la proposta di agganciare il valore di tutte le monete mondiali (o almeno delle monete importanti) al valore del dollaro e di agganciare quest’ultimo ad una convertibilità con l’oro stabilita dalla FED. Nel 1974 per problemi vari, di cui ci interessa relativamente la spiegazione, gli USA decidono unilateralmente di abbandonare la convertibilità in oro del dollaro e dunque gli accordi di Bretton Woods formalmente crollano. In realtà, non essendoci nessun altra possibilità di stabilire il valore intrinseco della carta moneta tutti gli stati del mondo, almeno per trent’anni, restano agganciati al dollaro per convenzione.

Dopo questo periodo che succede nei successivi 50 anni? Come siamo arrivati ad oggi? E come mai non ce ne occupiamo più di tanto?

Certo, sia la storia degli anni successivi alla seconda guerra mondiale, sia la storia degli ultimi 50 anni non può essere riassunta bellamente dentro un articolo così breve. È un po’ come cercare di coprire un letto matrimoniale con un lenzuolo da una piazza, puoi tirare da una parte o tirare dall’altra, ma qualche parte resta sempre scoperta.

Anni ’80

Il movimento sociale, dopo la batosta degli anni ’70 è quasi inesistente. Si hanno ancora dei movimenti di organizzazione nelle fabbriche, ma già a metà anni ’80 con la marcia dei colletti bianchi subisce una battuta d’arresto totale. Il PCI, unica organizzazione di sinistra ancora organizzata e popolare prende ancora percentuali di voti intorno al 30% (quando a votare andava quasi il 90% della popolazione), ma non penserà mai di affrancarsi dalle destre. Anzi è proprio in questi anni, prima con Berlinguer e ancor più marcatamente dopo la sua morte, che si compie la trasformazione del partito in un partito di fatto contrario al comunismo e sostenitore del capitalismo. Infatti in quegli anni lo scontro ideologico si caratterizza per essere fra un capitalismo moderato e un capitalismo selvaggio. Vince il capitalismo selvaggio.

Sono gli anni più duri infatti nei paesi a capitalismo maturo che aprono le porte in tutto il mondo ad un cambio di passo:

  • abbandono delle politiche keynesiane
  • sviluppo senza precedenti e un po’ in tutto il mondo dell’inflazione (conseguente sia 1 – all’aumento dei prezzi del petrolio; 2 – alla sovrapproduzione di merci e forse anche di capitale, che almeno in occidente manda in crisi le aziende e spinge processi di licenziamenti di massa, accorpamenti e fusioni; 3 – all’abbandono del legame del dollaro con l’oro così che i prezzi presi da capogiro iniziano a fluttuare verso l’alto; 4 – alle politiche del debito pubblico che pesano come un macigno e sopratutto ingenerano un timore non meglio specificato per il futuro).
  • Ripiegamento in senso liberista nei paesi anglosassoni, prima in Inghilterra con la Teacher e poi negli USA con Reagan.

Anni ’90.

E’ in questo decennio che avvengono i più grandi sconvolgimenti. Due sono i fenomeni principali.

1- la caduta dell’URSS e 2- l’avvento della rivoluzione informatica.

Ed è più che altro questo secondo fattore che frena la prevedibile orgia del potere che sarebbe potuta seguire alla caduta dell’URSS. Infatti sopratutto negli USA la possibilità aperta di ristrutturazione totale del mercato e della produzione in seguito all’avvento dei computer e dei PC lascia ampi spazi di guadagno che momentaneamente distolgono i capitalisti dal bisogno di ricorrere a guerre sanguinose per il controllo di quella parte del mondo che prima era sotto il controllo sovietico. Seppure in realtà guerre ci sono e si preparano.

La corsa tecnologica negli USA è furibonda, dando per un breve momento anche l’illusione di poter raggiungere un monopolio che però non verrà mai stabilito. D’altronde anche i paesi produttori di petrolio diventano amici fidati degli USA e si ha l’illusione che gli USA possano mantenere la supremazia grazie a questi espedienti.

Tutto il mondo però accelera la sua corsa sulla scia della III rivoluzione industriale. In alcuni paesi (tipo l’Italia) senza che questo scalfisca sostanzialmente nulla della struttura produttiva precedente ed anzi con alcuni ritardi e resistenze. Ma altri paesi, in primo luogo Cina, India e i paesi dell’est asiatico diventano presto protagonisti della partita. Per un po’ sembra che siano ancora sotto il controllo USA, ma presto l’illusione sparisce e la Cina in particolare inizia il suo programma di sviluppo che la porterà in breve tempo fuori dal novero dei paesi in via di sviluppo e ad essere invece un leader indiscusso della partita tecnologica.

È sempre in questi anni inoltre che si sviluppano le ultime rivoluzioni politiche di stampo chiaramente socialista. In Venezuela con Chavez che riporta spinta, coraggio e speranza a tutto il continente (pur con le sue contraddizioni) e in Sud-Africa con la vittoria di Nelson Mandela.

Non sono anni indolore però.

Nel vecchio continente, le tensioni seguite alla morte di Tito (1980) si acuiscono e sfociano nella prima guerra guerreggiata sul suolo europeo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Con la guerra in Bosnia e in Serbia.

Anche in Turchia per un momento, con la guida di Ochalan, si spera di poter creare almeno un angolino di libertà per il popolo curdo, ma la cosa ha vita breve e si instrada subito nelle forme tutt’ora note di guerra permanente.

In Palestina le cose non vanno meglio. Si giunge agli accordi di Oslo, ma senza l’URSS a fare da vigilante internazionale si intuisce subito che quelli sono accordi di disperazione e il cammino che proprio sugli accordi di Oslo si inizia è quello di una politica genocidaria in maniere già palese.

L’Italia segue un percorso tutto suo, completamente fuori sincrono col resto del mondo. Da un lato vede acuirsi i processi aziendali di ristrutturazione che licenziano decine di migliaia di persone; dall’altro si realizza o comunque regge il percorso del made in Italy sulle spalle delle piccole e medie imprese del lusso e del design.

Inoltre in Italia ci si preoccupa principalmente di problemi politici: 1 – si assiste alla caduta del sistema di potere della DC con l’inchiesta di Tangentopoli, la conseguente ascesa del biscione e della Lega, il macchilage del PCI in PDS; 2 – si avvia il processo di avvicinamento e creazione dell’Unione Europea che impone anche la messa in svendita dell’intero patrimonio pubblico statale. Fatto in maniera raffazzonata, improvvisata e selvaggia, come nessun altro paese attua.

Privatizzare! È l’ordine e loro svendono tutto. Salvo poi rendersi conto decenni dopo che privatizzare era un modo di dire per gli altri paesi e si intendeva solo: “fate società per azioni”. Si assiste così alla corsa a cercare di ricomprare tutto quello che si era venduto, ma in un tentativo di salvataggio così difficile da divenire quasi impossibile.

Anni 2000

Il primo decennio del nuovo millennio si apre in maniera veramente bizzara, già al suo apice con fenomeni precursori di tutto lo sviluppo successivo.

Nel 2001 infatti ci sono due eventi storici. A partire dal movimento di Seattle rinasce e rifiorisce un movimento spontaneo di critica al capitalismo e alla globalizzazione che vede nelle giornate di Genova compiersi un’importante opera di repressione capace di frenare l’intero movimento internazionale.

Pochi mesi dopo nel settembre 2001 si assiste alla caduta delle torri gemelle a New York.

Questi due momenti segnano distintamente e caratterizzano tutto il decennio. È come se per un breve momento cause ed effetti si fossero invertiti e prima si manifestano i risultati di un percorso e poi invece si assiste ai processi che li hanno generati. Non potendo essere così spiegata la storia però è certo che le spiegazioni debbano essere un po’ più articolate. Quello che è certo è che movimenti sociali ed economici che scorrevano sottotraccia escono allo scoperto, le contraddizioni esplodono e diventano manifeste a tutti.

Per quanto riguarda lo sviluppo dei movimenti politici e di critica del sistema capitalista, Genova nasce sul filone di quelli che sono i movimenti di Seattle. Una serie di meeting che riuniscono vari attivisti, cosiddetti post-ideologici, che effettivamente non sposano mai un’ideale socialista apertamente dichiarato, ma individuano comunque nei fenomeni di globalizzazione e di neo-colonialismo dei motivi importanti di critica al modello di produzione capitalista. Inoltre sono movimenti che nascono anche dalla confluenza dei movimenti ambientalisti e pacifisti che erano gli unici che negli anni ’90 cercavano ancora di organizzarsi (in Italia per esempio si erano visti movimenti pacifisti e antinucleari).

Paradossalmente pur non centrando completamente la critica al modello economico individuano un nemico significativo nei meeting internazionali dei grandi gruppi economici occidentali.

Soffermiamoci un attimo. Questi meeting (il G8, ma anche i raduni del FMI, del WTO, dei GATT, ecc..) sono degli incontri di fatto sovrastatali, che non hanno nessun rispecchiamento in leggi o trattati internazionali precedenti, ma che spuntano come funghi per definire un nuovo modello di commercio internazionale. Sono cioè il risultato di quelle manovre di liberalizzazione del mercato che erano nate negli anni ’80. Vi si stabiliscono le regole del commercio internazionale o meglio, vi si abbandonano le regole del commercio internazionale. Vengono eliminati tutti i vincoli (salvo forse qualcuno di natura sanitaria che rimane in piedi). Si può produrre dovunque, in qualunque modo, inquinando, rubando, sfruttando, uccidendo e nessuno ha diritto di limitare il commercio. Si può commerciare qualunque cosa: merci, armi, rifiuti, energie, animali e persone. Si può sfruttare qualunque risorsa. Si può comprare qualunque debito pubblico.

I capitalisti pretendono il predominio totale sul mondo e si organizzano di conseguenza.

Certi dell’impunità tengono i loro meetings in bellissime città moderne o d’arte.

Il movimento di Seattle che nasce anche dalla rivoluzione informatica autogestita e dal basso, non ha una strategia per criticare e costruire un’alternativa, ma individua un nemico chiaro e questo dà potenza a tutto il movimento.

Rifiorisce l’organizzazione dal basso, la critica sociale e rinasce la speranza di poter lottare per un mondo migliore.

In Italia questo movimento si lega da subito con quanto era sopravvissuto alla crisi degli anni ’70. Trovando le sue forme di organizzazione nei sindacati, nei centri sociali, nei movimenti pacifisti e cattolici, nelle organizzazioni ambientaliste e pacifiste, appunto i luoghi in cui si era tenuta accessa la fiammella per tutti gli anni ’90.

Pur essendo un momento repressivo molto violento, le giornate di Genova segnano una svolta nel movimento italiano, che seppure disorganizzato può tornare a far sentire la sua voce. Scende in piazza in 300.000 e, si, si rende conto che gli antagonisti (come si diceva allora) in Italia esistono ancora. Si guarda in faccia e si riconosce.

Anche i capitalisti però coltivano i loro sogni, o peggio i nostri incubi, e a partire dall’attentato alle torri gemelle del settembre 2001 dichiarano guerra all’intero pianeta. Si inizia una sequenza di attacchi a tutto il mondo non occidentale. Tutti i paesi vengono messi nel mirino a meno che non siano abbastanza grandi da possedere armi atomiche. La lista è infinita. Si parte con l’Afghanistan, si prosegue con l’Iraq, si scavalla il decennio e si arriva a Libia, Siria, Yemen, un altro decennio e dopo la breve pausa imposta dal Covid vengono attaccate Russia e Palestina.

In una guerra il cui obiettivo non è più quello di conquistare alcunché, ma solo di perpetuare la guerra stessa come fonte di finanziamento del capitalismo ormai in crisi irreversibile.

Gli anni 2000 sono questa cosa qui: la globalizzazione che estende le sue mani su ogni angolo del pianeta, cementificando e depredando qualunque risorsa; lo sviluppo delle tecnologie informatiche che fa baluginare la speranza di poter lavorare meno e invece velocizza i processi di globalizzazione e le catene dello sfruttamento mondiale; una finanziarizzazione dell’economia che prende il predominio su qualunque idea di crescita nella prosperità.

In Italia il lato della medaglia è quello specchiato: a partire dallo stralcio della Costituzione operato nel 2001, alle privatizzazioni più selvagge, alla distruzione dei diritti dei lavoratori. È in questo decennio che le conquiste degli anni ’70 vengono prese a martellate. Tutto il patrimonio pubblico (treni, aerei, acciaierie, energie, poste, banca nazionale, uffici, autostrade e strade, parchi nazionali, farmacie e industrie farmaceutiche, cantieri, tutto) viene venduto al privato, cedendo il controllo pubblico.

La disoccupazione dilaga e a fare da ciliegina sulla torta si preannuncia la crisi globale scatenata dalla finanza nel 2007.

La crisi finanziaria del 2007/8 nata negli USA non è dissimile da nessun altra crisi finanziaria. Si tratta di una truffa orchestrata su larga scala, alimentata dalla promessa di guadagnare soldi facilmente. Si promette a debitori di diventare più ricchi indebitandosi; si promette a investitori di diventare più ricchi comprando aziende prima che facciano utili, nella solita illusione: too big to fail.

 

2010

Avvicinandosi al presente il senso degli avvenimenti tende a svanirci sotto mano. Quel che è certo è che il decennio appena trascorso è in parte la fotocopia del decennio precedente. A livello internazionale prima con la presidenza Obama e poi con quella Trump si è vissuto una vaghissimo rallentamento degli attacchi perpetrati dalla più grande potenza mondiale al resto del mondo, poiché è invece tornato a voltare gli artigli contro i nemici vicini: Messico e Sud America.

In compenso la crisi generata dagli USA ha lasciato i suoi segni sul vecchio continente, dove in particolare in Italia (ma anche in altri paesi cugini) ha portato alla distruzione del sistema pensionistico, alla totale precarizzazione dei rapporti di lavoro, alla gestione dei cocci causati dal decennio precedente. Macelleria che è stata solo brevemente rallentata dall’ascesa del M5S e dall’avvento della pandemia.

Del 2020 non c’è niente da dire che già non si sappia: pandemia, guerra in Ucraina, guerra in Palestina e superamento del limite invalicabile dell’aumento della temperatura globale di 1,5 gradi medi.

Se il decennio si mostra dai suoi primi anni, c’è di che essere terrorizzati.

Ah, giusto c’è anche l’AI e Star Link, meno male via…

 

 

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La nave immaginaria

I mezzi di trasporto moderni hanno tutti una caratteristica in comune che non lascia gran che spazio all’immaginazione. Se pensiamo ad un treno, a un aereo o a un autobus tutti questi mezzi sono adibiti al trasporto di un gran numero di passeggeri, ma a condurli sono sempre una o due persone più, se va bene, qualche membro dell’equipaggio. Ci saliamo sopra e ci lasciamo trasportare a destinazione senza impiegare il minimo sforzo fisico o mentale. I mezzi di trasporto moderni non hanno bisogno della collaborazione dei passeggeri per muoversi.

Io ultimamente mi sento e penso che tutti siamo come a bordo di un mezzo di trasporto che corre a grandissima velocità, così veloce che si sente fischiare il vento sotto di noi e tremare la cabina che ci contiene. Fischia e vibra il nostro mezzo di trasporto a grande velocità e la vista è cieca e non sappiamo dove stiamo andando, ma alcuni segnali ci inducono a pensare che stiamo precipitando, o deragliando o finendo fuori strada.
Ce ne accorgiamo perchè non si sente rumore di freni, non c’è nessuna luce che si aziona lampeggiando, non ci sono imprecazioni che giungono dalla cabina di pilotaggio “guarda questo come guida!”, niente di tutto questo eppure la velocità del nostro viaggio aumenta sregolatamente. Ci viene il sospetto che alla guida non ci sia nessuno, ma noi che vorremmo verificare e magari intervenire, se siamo su un treno, un autobus o un aereo che possiamo fare? Solo chiudere gli occhi e pregare.

Allora forse converrà pensare di essere su un altro mezzo di trasporto, cioè la nave.

Certo una nave, col suo placido ondeggiare, e il rumble rumble delle onde che si infrangono sulla carena, non è molto adatta a spiegare la metafora della caduta sregolata, di quella velocità così forte che ci dà la sensazione di essere sul punto di schiantarsi a 300 all’ora contro un binario morto.

Ma una nave può certamente perdere il suo comandante e andare alla deriva e se il tempo non è bello finire in una tempesta o contro uno scoglio. Non può precipitare, ma può affondare che non è una bell destino lo stesso.

Anche le navi moderne possono essere alimentate da un motore rombante e aver bisogno solo di un timone per essere orientate, ma insomma un po’ di equipaggio serve per condurre una nave e inoltre magari la nostra nave è un po’ sgangherata e viene dal passato, da un luogo dell’anima non proprio reale. È una nave che se perde il motore a benzina, va a carbone, e se il motore si inceppa può montare le vele, e se manca il vento può calare i remi.

Così noi siamo a bordo di questa nave immaginaria come passeggeri che devono compiere una traversata, lunga per definizione. Tanta gente ha preso la nave per andare in Sardegna o in Corsica ed ha bello che raggiunto la sua destinazione, ma noi siamo rimasti a bordo e ci accingiamo a traversare l’oceano o a virare in direzione antartico.

A dire il vero non abbiamo idea di dove la nave stia andando giacchè dell’equipaggio a bordo non c’è più alcuna traccia.

O forse, peggio, siamo noi l’equipaggio!

E il comandante è sparito…

Mi sa che è morto.

C’è aria di ammutinamento in questa nave e c’è già chi si sente padrone del veliero e pensa di prendere il controllo con la frusta e le catene e di farci precipitare tutti al medioevo. Ma già precipitare al medioevo sarebbe qualcosa e invece la nostra nave corre e corre e nessuno la sa condurre.

 

 

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