50 anni di corsa. La crisi di sovrapproduzione mondiale.

 

Nel dibattito degli ultimi anni siamo rimasti un po’ fermi a una visione un po’ nostalgica di quelli che sono stati gli anni 70 e 80 in Italia e nel mondo.

Questo articolo vuole recuperare ed aggiornare un po’ questo scenario. Chiaramente si tratterà di una semplificazione, per altro molto artigianale, il cui unico obiettivo è quello di fornire delle coordinate minime di argomentazione politica dei processi passati, per quanto sono ancora importanti oggi, periodo in cui, oggettivamente, la situazione mi pare essere sfuggita a qualunque speranza di raziocinio.

La crisi degli anni ’70 può essere riassunta, in maniera estremamente sommaria, dicendo che era stata preceduta da un periodo di crescita imponente e di scala planetaria che a sua volta aveva seguito la tragica fine della seconda guerra mondiale.

Il mondo, spinto in oriente dalle politiche socialiste e in occidente dalle politiche keynesiane, aveva imboccato una strada contraddittoria, connaturata alla guerra fredda che portava guerra in ogni angolo del mondo, in particolare in Corea e in Vietnam, ma che in qualche modo come economia globale cresceva senza sosta.

Il modello entra in crisi proprio negli anni ’70. Anni che, paradossalmente, rappresentano anche, in Italia almeno, il punto più alto delle conquiste sociali (scuola, sanità, divorzio, scala mobile, lavoro, case popolari, ecc…).

Anche nel resto del mondo si fanno passi avanti, gli anni ’70 sono quelli in cui si consolida la cosiddetta terza via di sviluppo, non allineata né ai paesi socialisti, né ai paesi occidentali ed alimentata dal processo di decolonizzazione e in cui cadono le ultime dittature europee: Grecia, Spagna e Portogallo.

Non sono però tutte rose e fiori. Infatti è in questi anni che si manifesta la cosiddetta crisi di sovrapproduzione, che è principalmente di merci, ma con tratti di sovrapproduzione di capitali (che però troverà negli anni ’80 un suo sfogo particolare), in cui cioè il mercato, almeno quello occidentale inizia a segnalare problemi di saturazione e quindi di merci (principalmente auto ed elettrodomestici) che ristagnano nei magazzini.

Inoltre è sempre in questi anni che si hanno i primi segnali della crisi energetica, quando i paesi dell’OPEC (produttori di petrolio, ma non americani) si sfrancano dalla politica statunitense e impongono dei prezzi al petrolio di loro decisione. È quanto possono fare dato che la produzione del petrolio è un settore particolare, retto dalle regole di monopoli e oligopoli che seguono una formazione del prezzo tutta loro. I paesi dell’OPEC alzano il prezzo del petrolio per motivi politici e cioè per aiutare i loro fratelli palestinesi impegnati in una guerra con Israele, sanguinosa, ma non brutale. E scoprono di essere effettivamente padroni del mercato mondiale. Rientrano presto, però, nella politica statunitense, abbandonando la solidarietà musulmana.

Inoltre è il decennio fra i più duri dello scontro della guerra fredda che vede in particolare in Sud America, in quel decennio e nel successivo, succedersi svariati golpe di matrice statunitense che instaurano regimi sanguinari non molto dissimili da quelli nazisti da poco tempo tramontati in Europa.

Infine è il decennio in cui vengono abbandonati i famosi accordi di Bretton Wood del 1944, quelli in cui la comunità internazionale, con non pochi problemi, aveva accettato la proposta di agganciare il valore di tutte le monete mondiali (o almeno delle monete importanti) al valore del dollaro e di agganciare quest’ultimo ad una convertibilità con l’oro stabilita dalla FED. Nel 1974 per problemi vari, di cui ci interessa relativamente la spiegazione, gli USA decidono unilateralmente di abbandonare la convertibilità in oro del dollaro e dunque gli accordi di Bretton Woods formalmente crollano. In realtà, non essendoci nessun altra possibilità di stabilire il valore intrinseco della carta moneta tutti gli stati del mondo, almeno per trent’anni, restano agganciati al dollaro per convenzione.

Dopo questo periodo che succede nei successivi 50 anni? Come siamo arrivati ad oggi? E come mai non ce ne occupiamo più di tanto?

Certo, sia la storia degli anni successivi alla seconda guerra mondiale, sia la storia degli ultimi 50 anni non può essere riassunta bellamente dentro un articolo così breve. È un po’ come cercare di coprire un letto matrimoniale con un lenzuolo da una piazza, puoi tirare da una parte o tirare dall’altra, ma qualche parte resta sempre scoperta.

Anni ’80

Il movimento sociale, dopo la batosta degli anni ’70 è quasi inesistente. Si hanno ancora dei movimenti di organizzazione nelle fabbriche, ma già a metà anni ’80 con la marcia dei colletti bianchi subisce una battuta d’arresto totale. Il PCI, unica organizzazione di sinistra ancora organizzata e popolare prende ancora percentuali di voti intorno al 30% (quando a votare andava quasi il 90% della popolazione), ma non penserà mai di affrancarsi dalle destre. Anzi è proprio in questi anni, prima con Berlinguer e ancor più marcatamente dopo la sua morte, che si compie la trasformazione del partito in un partito di fatto contrario al comunismo e sostenitore del capitalismo. Infatti in quegli anni lo scontro ideologico si caratterizza per essere fra un capitalismo moderato e un capitalismo selvaggio. Vince il capitalismo selvaggio.

Sono gli anni più duri infatti nei paesi a capitalismo maturo che aprono le porte in tutto il mondo ad un cambio di passo:

  • abbandono delle politiche keynesiane
  • sviluppo senza precedenti e un po’ in tutto il mondo dell’inflazione (conseguente sia 1 – all’aumento dei prezzi del petrolio; 2 – alla sovrapproduzione di merci e forse anche di capitale, che almeno in occidente manda in crisi le aziende e spinge processi di licenziamenti di massa, accorpamenti e fusioni; 3 – all’abbandono del legame del dollaro con l’oro così che i prezzi presi da capogiro iniziano a fluttuare verso l’alto; 4 – alle politiche del debito pubblico che pesano come un macigno e sopratutto ingenerano un timore non meglio specificato per il futuro).
  • Ripiegamento in senso liberista nei paesi anglosassoni, prima in Inghilterra con la Teacher e poi negli USA con Reagan.

Anni ’90.

E’ in questo decennio che avvengono i più grandi sconvolgimenti. Due sono i fenomeni principali.

1- la caduta dell’URSS e 2- l’avvento della rivoluzione informatica.

Ed è più che altro questo secondo fattore che frena la prevedibile orgia del potere che sarebbe potuta seguire alla caduta dell’URSS. Infatti sopratutto negli USA la possibilità aperta di ristrutturazione totale del mercato e della produzione in seguito all’avvento dei computer e dei PC lascia ampi spazi di guadagno che momentaneamente distolgono i capitalisti dal bisogno di ricorrere a guerre sanguinose per il controllo di quella parte del mondo che prima era sotto il controllo sovietico. Seppure in realtà guerre ci sono e si preparano.

La corsa tecnologica negli USA è furibonda, dando per un breve momento anche l’illusione di poter raggiungere un monopolio che però non verrà mai stabilito. D’altronde anche i paesi produttori di petrolio diventano amici fidati degli USA e si ha l’illusione che gli USA possano mantenere la supremazia grazie a questi espedienti.

Tutto il mondo però accelera la sua corsa sulla scia della III rivoluzione industriale. In alcuni paesi (tipo l’Italia) senza che questo scalfisca sostanzialmente nulla della struttura produttiva precedente ed anzi con alcuni ritardi e resistenze. Ma altri paesi, in primo luogo Cina, India e i paesi dell’est asiatico diventano presto protagonisti della partita. Per un po’ sembra che siano ancora sotto il controllo USA, ma presto l’illusione sparisce e la Cina in particolare inizia il suo programma di sviluppo che la porterà in breve tempo fuori dal novero dei paesi in via di sviluppo e ad essere invece un leader indiscusso della partita tecnologica.

È sempre in questi anni inoltre che si sviluppano le ultime rivoluzioni politiche di stampo chiaramente socialista. In Venezuela con Chavez che riporta spinta, coraggio e speranza a tutto il continente (pur con le sue contraddizioni) e in Sud-Africa con la vittoria di Nelson Mandela.

Non sono anni indolore però.

Nel vecchio continente, le tensioni seguite alla morte di Tito (1980) si acuiscono e sfociano nella prima guerra guerreggiata sul suolo europeo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Con la guerra in Bosnia e in Serbia.

Anche in Turchia per un momento, con la guida di Ochalan, si spera di poter creare almeno un angolino di libertà per il popolo curdo, ma la cosa ha vita breve e si instrada subito nelle forme tutt’ora note di guerra permanente.

In Palestina le cose non vanno meglio. Si giunge agli accordi di Oslo, ma senza l’URSS a fare da vigilante internazionale si intuisce subito che quelli sono accordi di disperazione e il cammino che proprio sugli accordi di Oslo si inizia è quello di una politica genocidaria in maniere già palese.

L’Italia segue un percorso tutto suo, completamente fuori sincrono col resto del mondo. Da un lato vede acuirsi i processi aziendali di ristrutturazione che licenziano decine di migliaia di persone; dall’altro si realizza o comunque regge il percorso del made in Italy sulle spalle delle piccole e medie imprese del lusso e del design.

Inoltre in Italia ci si preoccupa principalmente di problemi politici: 1 – si assiste alla caduta del sistema di potere della DC con l’inchiesta di Tangentopoli, la conseguente ascesa del biscione e della Lega, il macchilage del PCI in PDS; 2 – si avvia il processo di avvicinamento e creazione dell’Unione Europea che impone anche la messa in svendita dell’intero patrimonio pubblico statale. Fatto in maniera raffazzonata, improvvisata e selvaggia, come nessun altro paese attua.

Privatizzare! È l’ordine e loro svendono tutto. Salvo poi rendersi conto decenni dopo che privatizzare era un modo di dire per gli altri paesi e si intendeva solo: “fate società per azioni”. Si assiste così alla corsa a cercare di ricomprare tutto quello che si era venduto, ma in un tentativo di salvataggio così difficile da divenire quasi impossibile.

Anni 2000

Il primo decennio del nuovo millennio si apre in maniera veramente bizzara, già al suo apice con fenomeni precursori di tutto lo sviluppo successivo.

Nel 2001 infatti ci sono due eventi storici. A partire dal movimento di Seattle rinasce e rifiorisce un movimento spontaneo di critica al capitalismo e alla globalizzazione che vede nelle giornate di Genova compiersi un’importante opera di repressione capace di frenare l’intero movimento internazionale.

Pochi mesi dopo nel settembre 2001 si assiste alla caduta delle torri gemelle a New York.

Questi due momenti segnano distintamente e caratterizzano tutto il decennio. È come se per un breve momento cause ed effetti si fossero invertiti e prima si manifestano i risultati di un percorso e poi invece si assiste ai processi che li hanno generati. Non potendo essere così spiegata la storia però è certo che le spiegazioni debbano essere un po’ più articolate. Quello che è certo è che movimenti sociali ed economici che scorrevano sottotraccia escono allo scoperto, le contraddizioni esplodono e diventano manifeste a tutti.

Per quanto riguarda lo sviluppo dei movimenti politici e di critica del sistema capitalista, Genova nasce sul filone di quelli che sono i movimenti di Seattle. Una serie di meeting che riuniscono vari attivisti, cosiddetti post-ideologici, che effettivamente non sposano mai un’ideale socialista apertamente dichiarato, ma individuano comunque nei fenomeni di globalizzazione e di neo-colonialismo dei motivi importanti di critica al modello di produzione capitalista. Inoltre sono movimenti che nascono anche dalla confluenza dei movimenti ambientalisti e pacifisti che erano gli unici che negli anni ’90 cercavano ancora di organizzarsi (in Italia per esempio si erano visti movimenti pacifisti e antinucleari).

Paradossalmente pur non centrando completamente la critica al modello economico individuano un nemico significativo nei meeting internazionali dei grandi gruppi economici occidentali.

Soffermiamoci un attimo. Questi meeting (il G8, ma anche i raduni del FMI, del WTO, dei GATT, ecc..) sono degli incontri di fatto sovrastatali, che non hanno nessun rispecchiamento in leggi o trattati internazionali precedenti, ma che spuntano come funghi per definire un nuovo modello di commercio internazionale. Sono cioè il risultato di quelle manovre di liberalizzazione del mercato che erano nate negli anni ’80. Vi si stabiliscono le regole del commercio internazionale o meglio, vi si abbandonano le regole del commercio internazionale. Vengono eliminati tutti i vincoli (salvo forse qualcuno di natura sanitaria che rimane in piedi). Si può produrre dovunque, in qualunque modo, inquinando, rubando, sfruttando, uccidendo e nessuno ha diritto di limitare il commercio. Si può commerciare qualunque cosa: merci, armi, rifiuti, energie, animali e persone. Si può sfruttare qualunque risorsa. Si può comprare qualunque debito pubblico.

I capitalisti pretendono il predominio totale sul mondo e si organizzano di conseguenza.

Certi dell’impunità tengono i loro meetings in bellissime città moderne o d’arte.

Il movimento di Seattle che nasce anche dalla rivoluzione informatica autogestita e dal basso, non ha una strategia per criticare e costruire un’alternativa, ma individua un nemico chiaro e questo dà potenza a tutto il movimento.

Rifiorisce l’organizzazione dal basso, la critica sociale e rinasce la speranza di poter lottare per un mondo migliore.

In Italia questo movimento si lega da subito con quanto era sopravvissuto alla crisi degli anni ’70. Trovando le sue forme di organizzazione nei sindacati, nei centri sociali, nei movimenti pacifisti e cattolici, nelle organizzazioni ambientaliste e pacifiste, appunto i luoghi in cui si era tenuta accessa la fiammella per tutti gli anni ’90.

Pur essendo un momento repressivo molto violento, le giornate di Genova segnano una svolta nel movimento italiano, che seppure disorganizzato può tornare a far sentire la sua voce. Scende in piazza in 300.000 e, si, si rende conto che gli antagonisti (come si diceva allora) in Italia esistono ancora. Si guarda in faccia e si riconosce.

Anche i capitalisti però coltivano i loro sogni, o peggio i nostri incubi, e a partire dall’attentato alle torri gemelle del settembre 2001 dichiarano guerra all’intero pianeta. Si inizia una sequenza di attacchi a tutto il mondo non occidentale. Tutti i paesi vengono messi nel mirino a meno che non siano abbastanza grandi da possedere armi atomiche. La lista è infinita. Si parte con l’Afghanistan, si prosegue con l’Iraq, si scavalla il decennio e si arriva a Libia, Siria, Yemen, un altro decennio e dopo la breve pausa imposta dal Covid vengono attaccate Russia e Palestina.

In una guerra il cui obiettivo non è più quello di conquistare alcunché, ma solo di perpetuare la guerra stessa come fonte di finanziamento del capitalismo ormai in crisi irreversibile.

Gli anni 2000 sono questa cosa qui: la globalizzazione che estende le sue mani su ogni angolo del pianeta, cementificando e depredando qualunque risorsa; lo sviluppo delle tecnologie informatiche che fa baluginare la speranza di poter lavorare meno e invece velocizza i processi di globalizzazione e le catene dello sfruttamento mondiale; una finanziarizzazione dell’economia che prende il predominio su qualunque idea di crescita nella prosperità.

In Italia il lato della medaglia è quello specchiato: a partire dallo stralcio della Costituzione operato nel 2001, alle privatizzazioni più selvagge, alla distruzione dei diritti dei lavoratori. È in questo decennio che le conquiste degli anni ’70 vengono prese a martellate. Tutto il patrimonio pubblico (treni, aerei, acciaierie, energie, poste, banca nazionale, uffici, autostrade e strade, parchi nazionali, farmacie e industrie farmaceutiche, cantieri, tutto) viene venduto al privato, cedendo il controllo pubblico.

La disoccupazione dilaga e a fare da ciliegina sulla torta si preannuncia la crisi globale scatenata dalla finanza nel 2007.

La crisi finanziaria del 2007/8 nata negli USA non è dissimile da nessun altra crisi finanziaria. Si tratta di una truffa orchestrata su larga scala, alimentata dalla promessa di guadagnare soldi facilmente. Si promette a debitori di diventare più ricchi indebitandosi; si promette a investitori di diventare più ricchi comprando aziende prima che facciano utili, nella solita illusione: too big to fail.

 

2010

Avvicinandosi al presente il senso degli avvenimenti tende a svanirci sotto mano. Quel che è certo è che il decennio appena trascorso è in parte la fotocopia del decennio precedente. A livello internazionale prima con la presidenza Obama e poi con quella Trump si è vissuto una vaghissimo rallentamento degli attacchi perpetrati dalla più grande potenza mondiale al resto del mondo, poiché è invece tornato a voltare gli artigli contro i nemici vicini: Messico e Sud America.

In compenso la crisi generata dagli USA ha lasciato i suoi segni sul vecchio continente, dove in particolare in Italia (ma anche in altri paesi cugini) ha portato alla distruzione del sistema pensionistico, alla totale precarizzazione dei rapporti di lavoro, alla gestione dei cocci causati dal decennio precedente. Macelleria che è stata solo brevemente rallentata dall’ascesa del M5S e dall’avvento della pandemia.

Del 2020 non c’è niente da dire che già non si sappia: pandemia, guerra in Ucraina, guerra in Palestina e superamento del limite invalicabile dell’aumento della temperatura globale di 1,5 gradi medi.

Se il decennio si mostra dai suoi primi anni, c’è di che essere terrorizzati.

Ah, giusto c’è anche l’AI e Star Link, meno male via…

 

 

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La nave immaginaria

I mezzi di trasporto moderni hanno tutti una caratteristica in comune che non lascia gran che spazio all’immaginazione. Se pensiamo ad un treno, a un aereo o a un autobus tutti questi mezzi sono adibiti al trasporto di un gran numero di passeggeri, ma a condurli sono sempre una o due persone più, se va bene, qualche membro dell’equipaggio. Ci saliamo sopra e ci lasciamo trasportare a destinazione senza impiegare il minimo sforzo fisico o mentale. I mezzi di trasporto moderni non hanno bisogno della collaborazione dei passeggeri per muoversi.

Io ultimamente mi sento e penso che tutti siamo come a bordo di un mezzo di trasporto che corre a grandissima velocità, così veloce che si sente fischiare il vento sotto di noi e tremare la cabina che ci contiene. Fischia e vibra il nostro mezzo di trasporto a grande velocità e la vista è cieca e non sappiamo dove stiamo andando, ma alcuni segnali ci inducono a pensare che stiamo precipitando, o deragliando o finendo fuori strada.
Ce ne accorgiamo perchè non si sente rumore di freni, non c’è nessuna luce che si aziona lampeggiando, non ci sono imprecazioni che giungono dalla cabina di pilotaggio “guarda questo come guida!”, niente di tutto questo eppure la velocità del nostro viaggio aumenta sregolatamente. Ci viene il sospetto che alla guida non ci sia nessuno, ma noi che vorremmo verificare e magari intervenire, se siamo su un treno, un autobus o un aereo che possiamo fare? Solo chiudere gli occhi e pregare.

Allora forse converrà pensare di essere su un altro mezzo di trasporto, cioè la nave.

Certo una nave, col suo placido ondeggiare, e il rumble rumble delle onde che si infrangono sulla carena, non è molto adatta a spiegare la metafora della caduta sregolata, di quella velocità così forte che ci dà la sensazione di essere sul punto di schiantarsi a 300 all’ora contro un binario morto.

Ma una nave può certamente perdere il suo comandante e andare alla deriva e se il tempo non è bello finire in una tempesta o contro uno scoglio. Non può precipitare, ma può affondare che non è una bell destino lo stesso.

Anche le navi moderne possono essere alimentate da un motore rombante e aver bisogno solo di un timone per essere orientate, ma insomma un po’ di equipaggio serve per condurre una nave e inoltre magari la nostra nave è un po’ sgangherata e viene dal passato, da un luogo dell’anima non proprio reale. È una nave che se perde il motore a benzina, va a carbone, e se il motore si inceppa può montare le vele, e se manca il vento può calare i remi.

Così noi siamo a bordo di questa nave immaginaria come passeggeri che devono compiere una traversata, lunga per definizione. Tanta gente ha preso la nave per andare in Sardegna o in Corsica ed ha bello che raggiunto la sua destinazione, ma noi siamo rimasti a bordo e ci accingiamo a traversare l’oceano o a virare in direzione antartico.

A dire il vero non abbiamo idea di dove la nave stia andando giacchè dell’equipaggio a bordo non c’è più alcuna traccia.

O forse, peggio, siamo noi l’equipaggio!

E il comandante è sparito…

Mi sa che è morto.

C’è aria di ammutinamento in questa nave e c’è già chi si sente padrone del veliero e pensa di prendere il controllo con la frusta e le catene e di farci precipitare tutti al medioevo. Ma già precipitare al medioevo sarebbe qualcosa e invece la nostra nave corre e corre e nessuno la sa condurre.

 

 

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Che cos’è l’economia? Parte 1: sull’economia classica e la teoria del valore.

È un paradosso che la terra gira intorno al sole
e che l’acqua è costituita da due gas molto infiammabili.
Le verità scientifiche sono sempre paradossi quando
vengono misurate alla stregua dell’esperienza quotidiana,
la quale afferra solo l’apparenza ingannevole delle cose.
-Karl Marx-

Torniamo dunque alla seconda domanda posta nello scorso articolo: che cos’è l’economia e perchè è tanto importante?
La maggior parte delle persone, pur senza pensarci tanto su, ritiene che economia e capitalismo siano due termini sinonimi. Questo è un equivoco causato dal vivere nel mondo contemporaneo, in una delle società occidentali e ritengo che sia un punto importante da mettere in discussione e da cui partire. In realtà il capitalismo, come vedremo più avanti, è un modo di produzione fra altri. È sicuramente il modo principale di produzione e di distribuzione delle risorse nella nostra società, ma non è l’unico.
L’economia è qualcosa di più grande del capitalismo (se esiste qualcosa di più grande del capitalismo) e di più necessario. Penso però che l’equiparazione fra il termine economia e il termine capitalismo sia un automatismo che ha radici profonde nel nostro modo di pensare e che è anche condiviso da tutta la letteratura specialistica sul tema.
Negli ultimi decenni ci sono stati anche aggiornamenti importanti su questo orientamento, per lo più dal punto di vista tecnico e applicativo, che ammettono che l’economia possa essere gestita in maniera “mista”, cioè utilizzando capitalismo e intervento di Stato, ma già così concedendo si perpetua l’idea che fuori dal capitalismo non sia possibile neanche pensare un modello economico. Forse in questo modo di pensare ha contribuito anche l’opera di Marx, il quale è stato l’autore che ha definito il termine capitale e le caratteristiche del capitalismo, proprio per identificare quel sistema (economico, politico, culturale e sociale) che affliggeva i proletari e l’umanità intera.

Per capire di cosa stiamo parlando si devono tenere a mente almeno tre aspetti della questione economia.
1- Esistono centinaia di azioni pratiche quotidiane che si compiono nel corso della propria vita che hanno natura economica. Alcune sono facili, piccole e quasi banali come comprare un caffè al bar o fare un regalo a un amico. Altre sono più impegnative come comprare casa o fare un prestito a un amico. L’economia riguarda e deriva da ognuna di queste azioni che compiamo, noi, le imprese o lo Stato.
2- Al contempo l’economia è anche una materia di studio che molti, compreso Marx, ritengono abbia natura scientifica, composta cioè da regole e costanti che si possono scoprire e definire.
3- Infine l’economia è un campo di azione politica e uno dei principali, basti pensare al fatto che di 5 delle materie di competenza politica che l’UE ha centralizzato e estromesso dal controllo dei singoli Stati, 4 sono di natura economica1.

Non esistono però definizioni precise di cosa possa intendersi per economia. Etimologicamente il termine deriva dal greco (oikos = casa + nomos=discorso) e può essere tradotto con l’espressione “amministrazione della casa”, ma questa non è una definizione molto utile.
Storicamente fino al 1700 non esiste neanche una materia di studio esclusivamente economica e sebbene esistessero teorie e proposizioni economiche, queste erano appannaggio di altre materie, quali la filosofia, la politica o la religione. L’economia come materia di studio nasce solo in epoca moderna, con l’affermarsi del modello capitalistico di produzione, aspetto importante che ne definisce fin di partenza i caratteri ideologici.
Per cercare una definizione, possiamo rivolgerci, all’analisi marxista e dire che si parla sicuramente di economia quando parliamo di modo di produzione. Il modo di produzione, secondo Marx, è quello che deriva dalla relazione fra forze produttive e rapporti di produzione2. Definizione molto astratta e complicata, ma sintetica abbastanza da suggerrire che esistono vari modi di produzione possibili.
Detto questo però Marx e tutti gli economisti principali si sono interessati principalmente del capitalismo, trascurando gli altri forse perchè considerati come secondari. Infatti specie negli autori classici, che avevano ancora una concezione progressiva e teleologica della storia, il capitalismo è visto come la fase conclusiva e compiuta dello sviluppo economico.
Anche noi ci atterremo principalmente a questa tradizione, parlando perciò di produzione capitalistica, ma tenendo ben presente che “la proprietà privata da parte di un singolo capitalista dei mezzi di produzione” non è l’unico rapporto di produzione possibile.
Marx, proprio in virtù del suo metodo storico-materialista, sapeva bene che esistono vari modi di produzione. Per esempio, il feudalesimo era un modo di produzione, oltre che un periodo storico. Il capitalismo è un modo di produzione molto diverso e il socialismo è, o sarà, un modo ancora diverso. Inoltre, studiando il capitalismo emergeva che durante una determinata epoca storica ci sono vari gradi di sviluppo attraverso cui passa e si afferma un determinato modello.
Su questo tema ci sono stati autori, principalmente storici o scienziati sociali, che si sono molto interessati alla diversità dei sistemi economici. Citiamo al riguardo il lavoro di Karl Polanyi, un autore poco conosciuto e molto polemico che si è occupato di generalizzare tre modelli economici, considerando come distintivo il modo in cui vengono distribuite le risorse, piuttosto che il modo in cui vengono prodotte.
Nella preistoria era predominante una forma economica chiamata della reciprocità basata sulla gratuità e sulla condivisione delle risorse: un gruppo sociale mette tutte le “ricchezze” e i beni prodotti in comune, senza chiedere alcun corrispettivo economico per il consumo degli stessi. Oltre all’epoca preistorica, oggigiorno questo modello sopravvive principalmente fra le quattro mura di casa, in famiglia, dove le relazioni economiche non sono basate sullo scambio, ma appunto sulla condivisione e reciprocità, solitamente3.
Esiste poi la forma della redistribuzione, nella quale le risorse vengono accaparrate da un centro amministrativo che le redistribuisce a suo gradimento e qui gli esempi sono numerossissimi di società che accentrano le risorse in questo modo. Per cui il feudalesimo ha una predominanza di questo tipo, ma anche lo Stato-nazione o il socialismo.
Infine esiste lo scambio di mercato il quale, al pari degli altri modelli, è sempre esistito anche in epoche in cui erano predominanti altri sistemi e che si afferma come forma principale attraverso il capitalismo. Secondo l’analisi di Polanyi questo predominio si realizza attraverso tre grandi trasformazioni, che oggi però non tratteremo4.
Quello che va tenuto presente dell’analisi di Polanyi, più che la predominanza di una forma o l’altra è il fatto che queste possano convivere contemporaneamente in uno stesso sistema economico, a gradi diversi di importanza, cosa che l’analisi di Polanyi concepisce dato che questo autore ha sempre lavorato più in ambito antropologico che in quello economico.

Abbiamo detto che in economia, ruolo di primo piano lo ha lo studio del modo di produzione capitalistico. In questo una delle categorie più importanti che gli economisti si dedicano ad indagare è quella del valore, facendo una distinzione fra quello che viene chiamato valore d’uso e valore di scambio.
Utilizzeremo spesso questi concetti, ma avvertiamo il lettore fin da subito che l’introduzione di queste categorie nel pensiero economico ha spalancato l’universo.
Non ci attarderemo sulla diatriba classica della preferenza che si può accordare al valore d’uso, piuttosto che al valore di scambio, almeno non nei termini in cui è stata posta originariamente. Diciamo solo che il valore d’uso è un termine che rispecchia il concetto di utilità e che non ha di partenza una possibilità di essere misurato. Il valore di scambio, invece, è precisamente il tipo di qualità che assegnamo alle merci per numerarle e ordinarle in ordine di importanza e grandezza. E il valore di scambio realizza questa numerabilità con il denaro. C’è cioè una corrispondenza profonda fra prezzo, valore di scambio e ricchezza accumulata (cioè capitale).

Fatta questa breve premessa su alcuni dei termini e delle definizioni che compongono il mondo economico, possiamo procedere.
Siccome il mondo della teoria economica è vastissimo, noi possiamo limitarci a trattare solo alcuni aspetti in questa introduzione. Forse non quelli più importanti dal punto di vista dell’attualità, ma su alcune questioni non possiamo limitarci a fare lunghi giri attorno, ma bisogna entrare nel merito del problema. Quindi intanto specifico il mio intento che so già verrà bollato come utopistico, anche se i compagni che lo faranno, dovranno spiegarmi qual è l’alternativa.
Io penso che quando parliamo di economia, così come quando parliamo di politica, dovremmo riuscire a creare un sistema di pensiero e di azione alla nostra portata e condiviso. Innanzitutto, infatti, l’economia è anche quella che impariamo giorno per giorno dall’esperienza quotidiana ed è anche da questa osservazione che deriva la familiarità che possiamo pretendere di avere sulle materie economiche. La conoscenza da sempre è la leva per l’azione politica e per l’emancipazione e quella dei meccanismi economici non fa differenza.
Questo mio intento non è lo stato dell’arte attuale, ma un obiettivo puramente politico.
Viceversa oggi l’economia è demandata a un manipolo di esperti “burocrati”, “finanzieri”, “imprenditori” ed “economisti” (sempre di buona famiglia) che sostiene candidamente, con la faccia come il culo, che solo loro sanno che cosa bisogna fare. Quasi l’economia fosse da intendersi alla stregua di un’antica religione, fatta di misteri e profezie.
Ma la cosa più divertente di questa loro profezia è che con la stessa protervia con cui dichiarano che solo loro sanno che cosa fare, sono pronti a dirti che non sanno niente e non hanno un’idea chiara di quanto accade e di come e quali sono le leggi dell’economia.
Io invece penso che dovremmo interessarci delle questioni economiche, dalle più piccole, alle più grandi. Non sto suggerendo che si debba fare finanza creativa, che si possano usare i soldi come se non avessero valore, né tanto meno che si dovrebbe deregolare tutto perchè tanto l’economia si regola da sé. Solamente credo che conoscendola, si possa anche orientarla in maniera diversa.
E da questo lato ci sono tantissime proposte da recuperare e integrare e che saranno fondamentali nella società che verrà e che vogliamo costruire. Insomma, il socialismo va bene, ma dobbiamo anche pensare a come vorremo produrre nel socialismo.

Torniamo alla storia del pensiero economico, e diamo un’occhiata a due o tre dei temi più importanti.
In generale gli economisti hanno sempre avuto dei propri obiettivi personali, legati ai problemi economici principali della loro epoca. Keynes per esempio si pone l’obiettivo di risolvere il problema della disoccupazione e della distribuzione del reddito in maniera meno diseguale. E lo fa col presupposto che siano produzione e consumo a generare ricchezza. Non solo con questo presupposto, ma certo non prevede l’economia del risparmio (per esempio).
Invece gli economisti precedenti sono tutti interessati a scoprire il meccanismo della formazione dei prezzi e quindi del valore e anche noi di questo oggi ci occupiamo.
Si potrebbe pensare che questo sia un problema un po’ banale, ma è stato per molti secoli, e per molti aspetti anche oggi rimane, la questione principale dell’economia. Perchè dalla formazione dei prezzi deriva il potere di acquisto delle persone e quindi con una consequenzialità un po’ forzata, anche la distribuzione della ricchezza a tutti.
Successivamente allo studio del valore, che ha impegnato tantissima gente, è arrivata la questione della valorizzazione (del capitale) nel tempo, cioè lo studio del tasso d’interesse e il ruolo della moneta.
Insomma dei problemi oggettivi (povertà, guerre, imperialismi) l’economia si è sempre occupata molto poco, perchè per lungo tempo il principale interesse è stato lo studio dell’arricchimento personale e a chi non frega niente di arricchirsi non ha gran che di movente per studiare i fenomeni economici.
Certo ci sono state persone sensibilissime ai temi sociali.
Anche Ricardo, iniziatore della teoria del valore, aveva una certa sensibilità a questi temi, ma poiché dalla maggior parte degli studi degli economisti derivava la convinzione che non ci fosse soluzione al problema della povertà, allora gli economisti alzavano le mani e si limitavano a dire, che prima o poi, lasciando agire le forze di mercato – così come loro le avevano scoperte – tutti i problemi si sarebbero risolti da soli.

Rivolgiamoci dunque a spiegare la formazione del valore e dei prezzi, almeno nelle coordinate principali. Avviso qui che si tratta proprio di un riassunto ai minimi termini, che ad entrare nel merito delle questioni servirebbero decine di articoli.
Alcune cose le abbiamo già dette in vari articoli passati, per cui è inevitabile che a volte mi ripeterò e a volte tralascerò qualcosa che ho già detto.

Ci eravamo fermati, prima della lunga digressione di chiacchiere, alla distinzione fra valore di scambio e valore d’uso. L’argomento sembra ormai superato e parecchio stantio, ma non è così.
Questi termini sono stati introdotti, come pure molti altri, da uno dei capostipiti della scuola classica, cioè Adam Smith. Il quale però non riesce a darne una definizione chiara.
I due tipi di valore non devono essere confusi o sovrapposti.
In generale, il valore d’uso è una qualità delle merci non quantificabile (anche se vedremo nei prossimi articoli che qualcuno ha provato a misurarla) che esprime la capacità del bene in questione di soddisfare un bisogno o un’esigenza.
Il valore di scambio, invece, è quantificabile e viene espresso, in prima approssimazione, dal prezzo ed è tale perciò solo in un’economia basata sul mercato. La quantità che esprime è inizialmente comparativa cioè indica la proporzione con cui un bene si scambia con un altro bene e si determina e “assolutizza” per il tramite del prezzo e cioè del denaro.
Il valore di scambio è in parte legato al valore d’uso, ma non in maniera deterministica. Diciamo piuttosto che il valore d’uso è precondizione perchè esista il valore di scambio, ma non lo definisce.
Facciamo qualche esempio per chiarire il concetto.
Una sedia. Una sedia ha un determinato e lampante valore d’uso: serve a sedervisi sopra. Cioè ha una qualità non misurabile e mantiene questo suo valore sia quando andiamo a comprarla al mercato, sia quando ce la mettiamo in casa. Almeno fino a che non si rompe, la sedia manterrà il suo valore d’uso.
Il valore di scambio della sedia è invece espresso dal prezzo a cui la compriamo (o vendiamo) e si esaurisce nel momento stesso dell’acquisto (o vendita). Una sedia può costare 20, 50, 100 euro o più.
Se il valore d’uso è precondizione del valore di scambio, da che cosa dipende questo valore di scambio? Perchè il prezzo varia da sedia a sedia, da prodotto a prodotto?
Facciamo un altro esempio. L’acqua. O l’aria, perchè no. È chiaro che sono cose che hanno un altissimo valore d’uso, ma il loro valore di scambio è molto basso o nullo. Anche se, per quanto riguarda l’acqua, oggi le cose sono cambiate sensibilmente.

Ogni merce quindi ha una sua particolare proprietà che misura il suo valore (d’ora in poi tutte le volte che useremo la parola valore si farà implicitamente riferimento all’espressione più lunga “valore di scambio”).
Abbiamo visto che per decenni gli economisti hanno cercato di scoprire quale fosse la fonte e l’origine del valore. Per noi uomini del XXI secolo che già sappiamo la risposta il dibattito può sembrare noioso, ma lo ripercorriamo lo stesso, perchè alla fin fine anche noi uomini (e donne) del XXI secolo non abbiamo una risposta chiara.
Ribadiamo che la problematica nasce solo con la definitiva affermazione del modo di produzione capitalistico – anche se non pienamente sviluppato – come modo di produzione dominante nella società e cioè con l’affermazione della classe borghese al governo degli Stati, il cui principale obiettivo era quello di favorire l’arricchimento di se stessi medesimi.

Ci sono 3 posizioni in ordine di tempo.

1- La prima posizione data 1700, ad opera dei fisiocratici e a me è sempre stata simpatica. È molto semplice.
Secondo i fisiocratici l’origine del valore è tutta nella terra. Dicono loro che tutte le altre lavorazioni che vegono effettuate successivamente a che una cosa viene strappata dal grembo della madre terra si limitano a trasformare il prodotto, ma non creano niente. Nell’intero globo terraqueo l’unica sostanza in grado di generare dal niente (da quel po’ di acqua, minerali ed energia solare) qualcosa di materiale è la terra. Le mucche mangiano l’erba generata dalla terra e noi possiamo farci formaggi e vestiti di cuoio.
Qualcuno dei fisiocratici più moderni, fa rientrare fra i prodotti della terra, anche i metalli e le riserve energetiche e così il gioco è fatto.
A creare valore è la terra, tutto quello che segue è mera trasformazione.
Ovviamente i fisiocratici erano tutti proprietari terrieri, mica dicevano cose a vanvera.
La spiegazione non regge però alle critiche. Intanto quando i fisiocratici sostengono che l’origine del valore sia la terra, non distinguono fra valore d’uso e valore di scambio e anzi sembra che propendano piuttosto per il primo che non per il secondo. Così è chiaro che materialmente tutto quello che ci circonda viene dalla Terra, ma accettando una definizione di questo tipo ci resterebbe ancora da spiegare come mai alcuni uomini diventano ricchi e altri poveri e da cosa dipende questa differenza.
Inoltre se ci perdiamo nel concetto di semplice trasformazione, anche la terra può essere vista come un laboratorio chimico che combina gli elementi a sua disposizione per creare qualcosa di altro. Insomma quella fisiocratica è una teoria che ha anche degli aspetti importanti, da un lato introducendo il principio di produzione e ricchezza come surplus, dall’altro inaugurando di fatto la materia economica come ambito di riflessioni specifiche. I fisiocratici vedono, forse per la prima volta, la ricchezza come frutto di un processo circolare. Cioè da una visione molto medioevale di ricchezza come accumulo di oro e generi preziosi, si passa a considerarla nella sua sfera dinamica che innerva l’intera società, ma qui le loro riflessioni si fermano.

Come anticipato bisogna aspettare la fine del 1700 e poi tutto l’800 perchè si iniziasse a porre la questione del valore in termini diversi e fin a partire da Adam Smith e poi con David Ricardo e infine con Karl Marx si definisce di preciso da che cosa origina il valore di scambio: dal lavoro!
Tutti questi 3 economisti citano il lavoro come origine del valore, aspetto che complica molto la questione su chi sia da preferire all’altro.

2- Per Adam Smith, forse, più che il lavoro come forza fisica applicata, la questione della creazione del valore sembra dipendere dalla divisione del lavoro.
Adam Smith è importante anche per altre questioni, oltre alla teoria del valore, che meritano di essere richiamate brevemente. In particolare Smith è il celebre creatore della frase sul mercato come “mano invisibile”. Secondo questa definizione il mercato e l’economia, per il tramite del perseguimento dell’interesse e del beneficio individuale e egoistico di ciascuno, raggiungono anche il benessere collettivo.
Strenuo sostenitore del laissez-faire – sempre in opposizione ai mercantilisti, i quali invece chiedevano l’intervento dello Stato per regolamentare il commercio internazionale – Adam Smith sosteneva che lo Stato facesse sempre dei danni in economia e che se anche il mercato senza regole non era equo, otteneva risultati comunque migliori di quelli dello Stato.
In secondo luogo Smith ha introdotto due contributi fondamentali.
Il primo relativo alla scoperta del funzionamento della concorrenza – da cui la mano invisibile – l’altro relativo alla divisione del lavoro.
Quanto alla concorrenza il meccanismo descritto da Smith è semplice: ogni venditore persegue il proprio interesse personale di arricchimento, ma grazie alla concorrenza che si fanno l’un l’altro, i prezzi si adeguano al minimo possibile, in quanto se fossero troppo alti e quindi troppo profittevoli, ci sarebbero altri produttori che si immetterebbero nel mercato e venderebbero a un prezzo migliore, togliendo clienti a chi pratica il sovraprezzo e costringendolo pertanto ad abbassarlo.
È una bella descrizione, bisogna ammetterlo, ma regge soltanto finchè parliamo di piccoli artigiani sulla piazza del mercato (ricordiamoci che il mercato è sempre esistito come forma di distribuzione delle risorse, secondo Polanyi) e non è in grado di spiegare l’avanzata dei monopoli, limite che già Adam Smith stesso paventava della sua teoria e che lo portava a dire che in alcuni casi l’intervento della Stato, forse, era necessario.
L’altro contributo importante è quello appunto relativo allo studio della divisione del processo lavorativo. Adam Smith non era uno sciocco e si rendeva ben conto di vivere in un’epoca di cambiamenti. Capì dunque che il successo della nascente manifattura industriale era dovuto alla specializzazione del processo produttivo. Per cui un prodotto che necessita di varie fasi di lavorazione, viene scomposto in queste fasi e ognuna assegnata a un operaio diverso. Il risultato è che nello stesso periodo temporale e con lo stesso numero di lavoratori, il numero delle merci prodotte cresce sensibilmente. Un po’ grazie alla specializzazione degli operai, e un po’ grazie al fatto che ogni operazione di lavoro viene resa più semplice. Quindi quando Adam Smith vede nel lavoro l’origine del valore, in realtà parla della divisione del processo produttivo e sostanzialmente dello sviluppo della produzione capitalista.
Prova poi a collegare questo tipo di produzione con la formazione dei prezzi, ma non ci riuscirà mai chiaramente.
Marx, invece, descriverà questo processo di specializzazione della produzione legandolo non alla formazione dei prezzi, ma proprio allo sviluppo storico del capitalismo tramite il cosidetto processo di sussunzione del processo produttivo. Cioè in una prima fase si ha l’accentramento della produzione nelle mani del singolo capitalista, seppure identico nelle forme al modo di produzione precedente e artigianale (sussunzione formale dell’economia), e poi subentra l’organizzazione e la divisione del processo lavorativo stesso, ad opera del capitalista, in quei passaggi produttivi che descriveva Adam Smith (sussunzione reale dell’economia). Che è il modo in cui si realizza il passaggio dal modo di produzione precedente a quello capitalistico.
Possiamo dire comunque che con Adam Smith le basi della moderna teoria economica (e intendo proprio quella attuale) sono poste. Da un lato la concorrenza fra produttori, dall’altra la produttività (e quindi i costi) del processo produttivo stesso.

3 – Passiamo infine a David Ricardo.
Ricardo è l’esponente principale dell’economia classica e molte delle sue enunciazioni vengono tutt’ora insegnate come corrette. Molte sono state criticate, ma nonostante questo riscuotono tutt’ora grande successo.
Quanto alla teoria del valore, Ricardo compie un deciso passo in avanti, almeno a livello di proposizione. E afferma risolutamente che il valore di una merce dipende dalla quantità di lavoro necessario a produrla. Bisogna aspettare Marx perchè questa “quantità di lavoro” diventi “unità di tempo” e per capirne la formazione, ma la questione viene posta già in Ricardo.
Ci sono però dei problemi grossi nella teoria ricardiana, che sono rimasti e tali rimangono nell’economia classica. La cosa buffa è che l’economia accademica sa di questi problemi, ma continua in qualche modo ad ignorarli. Certo, è comprensibile che non si sia sposata la teoria marxista in contrapposizione all’economia classica, ma neanche Keynes che pure odia Ricardo con tutte le sue forze, è riuscito a scalfire significativamente il paradigma libero-scambista alla base del modello ricadiano.

David Ricardo innova e definisce la teoria economica sotto vari profili. I temi principali sono quello già citato della teoria del valore; il tema dei rendimenti decrescenti e dei conseguenti costi marginali crescenti e infine la teoria del vantaggio comparato a livello del commercio internazionale.
Partiamo dall’unica parte della teoria che è ancora in piedi, cioè da quella dei rendimenti decrescenti. Teoria complicatissima per altro.
Di premessa è da tenere presente che Ricardo espone la sua analisi spiegando che esistono 3 classi e 3 fonti di reddito: quella dei proprietari terrieri – che percepiscono una rendita; quella dei capitalisti – che percepiscono il profitto e quella dei proletari – che percepiscono il salario.
Proprio così dice: esistono 3 classi.
Perchè compia una distinzione fra proprietari terrieri e capitalisti non è chiaro, se non perchè aveva simpatie per i capitalisti e i profitti e disprezzava i proprietari terrieri e la rendita (pur essendo lui stesso un latifondista). Quindi elabora la sua teoria sui rendimenti decrescenti, riferita esclusivamente al rendimento della terra, anche se è poi stata estesa successivamente a tutti i settori di produzione.
La teoria dei rendimenti decrescenti recita così: se un fattore della produzione viene progressivamente aumentato, mentre gli altri rimangono uguali, il tasso d’incremento del prodotto finito è via via minore.

Per spiegare, facciamo l’esempio della coltivazione delle carote.
Se io ho un campo di carote e ci metto a lavorare un contadino quello mi produce 10 carote, se ce ne metto a lavorare 2, me ne producono 20, ma se continuo ad assumere contadini oltre un certo limite (che in economia chiamano “margine”) non mi produrrano più 10 carote a testa, perchè il campo sarà ormai tutto coltivato, quindi magari me ne produrrano 25, e se ne aggiungo ancora uno forse arriverò a 26, cioè il rendimento, in relazione alla forza lavoro applicata, è decrescente. E se voglio aumentare il rendimento dovrò anche aumentare i campi da coltivare.
Apriamo anche una parentesi sul tema della rendita, concetto che forse potrebbe tornarci utile. Secondo Ricardo la rendita, che è la parte di torta che si accaparrano i proprietari terrieri, è dovuta alla differenza che si genera fra terreni più produttivi e terreni meno produttivi. Aumentando infatti la domanda e crescendo il bisogno di produrre, si andrebbero a coltivare anche i campi meno produttivi. Perciò i proprietari dei campi più produttivi potrebbero disporre di una maggiore quantità di prodotti da vendere, ma potrebbero tenere il prezzo al livello di quelli che producono in campi meno produttivi, e certamente lo farebbero. Il sovrappiù così generato sarebbe la rendita.
L’esempio delle carote non è del tutto casuale, dato che Ricardo era proprio del rendimento della terra che parlava. In termini generali significa che via via che cresce la domanda di cibo, si andranno a coltivare anche terreni meno produttivi, che di partenza non producono le 10 carote che produce un terreno di buona qualità, ma solo 9. Cosicchè la teoria dei rendimenti decrescenti spiega perchè uno stesso prodotto riesca a stare sul mercato anche quando altri capitalisti/proprietari terrieri producono in maniera più efficiente, ma qui si aprirebbe al tema della domanda e andremmo fuori strada. Fatto sta, che una delle componenti del prezzo deriva proprio dal rendimento decrescente.
Introduciamo, per completezza di esposizione, anche la questione riflessa, cioè quella dei costi crescenti, o meglio dei costi marginali crescenti. Che è lo stesso ragionamento della rendita marginale decrescente, ma visto in termini di costo. La teoria dei costi marginali crescenti afferma che “per produrre una quantità in più del prodotto” – per esempio 1 carota – si sostengono costi che non crescono proporzionalmente, ma da un certo punto in poi, crescono in maniera più che proporzionale.
Ne approfittiamo dunque per aggiustare in questa sede la proposizione sull’offerta descritta nell’articolo di aprile. So che sto complicando molto il discorso, ma vi assicuro che si gira intorno, ma è sempre lo stesso discorso.
Dunque mentre abbiamo detto la domanda segue la legge che allo scendere del prezzo, la quantità domandata aumenta5. Quella di offerta funziona all’inverso, all’aumentare della quantità prodotta il prezzo di vendita aumenta6. Infatti l’andamento della curva di offerta è legato alla teoria dei costi crescenti che servono per produrre un’unità aggiuntiva di prodotto. Per questo nessuno pagherà mai una carota in più al costo del salario richiesto dall’ultimo operaio per produrla. Perchè vorrebbe dire pagare per una carota l’equivalente di un mese di stipendio di un operaio. Cosa un po’ eccessiva.
Precisiamo qui che stiamo parlando molto in astratto. Oggigiorno, infatti, l’esempio del campo di carote non è più così illuminante e con l’avvento della rivoluzione industriale le cose si sono un po’ complicate e la teoria dei costi crescenti è un po’ entrata in crisi. Ma senza macchine, le cose stanno più o meno così come vi ho detto7.
Questa riflessione sui rendimenti decrescenti è stata in seguito riscoperta e ampliata ed applicata anche alla grande industria. Si capisce bene già da questo esempio posto poco sopra, che se viene riferita al problema alimentare può assumere ancora aspetti attuali importanti e sicuramente ha un portato storico importante, in quanto può spiegare l’andamento delle crisi alimentari (cosa che in realtà a Ricardo interessava relativamente, lui invece voleva “sconfiggere la rendita”). Già spostarla o riferirla alla grande industria però significa perdere qualche cosa dei suoi aspetti originari a favore di una visione basata sui rendimenti decrescenti della produzione tout-court e quindi sui correlati costi crescenti.

Fatto questo riassunto sui rendimenti decrescenti, torniamo dunque alla teoria del valore di Ricardo.
Come abbiamo detto per Ricardo il valore di scambio di una merce dipende dalla quantità di lavoro necessaria a produrlo. Non credo che Ricardo si spinga poi molto avanti nell’analisi di questa relazione fra lavoro e merce, infatti si occupa principalmente di definire come il salario incida sul prezzo finale del prodotto.
All’epoca, avevano una teoria veramente bizzara per definire da che cosa dipendessero i salari, che era la teoria del fondo-salari.
Praticamente dicevano che i salari dipendono da un rapporto fra il totale del capitale accumulato diviso il numero dei lavoratori8. Come se i capitalisti il loro profitto lo accumulassero tutto per “redistrubuirlo” o “investirlo” nell’assunzione di manodopera.
Se basi una teoria su una bugia così manifesta, poi è chiaro che non torna niente della tua teoria. Allora diventa plausibile qualunque affermazione, anche che il profitto della classe dei capitalisti sia una cosa a vantaggio dei lavoratori, che la loro affermazione trascini con se, goccia a goccia, piano piano, anche la classe lavoratrice.
Non subito, chiaramente, ma certamente nel lungo periodo.
E vedendo che le sue previsioni di un futuro radioso per l’umanità non si realizzavano a Ricardo non restò altro da fare che: 1- rammaricarsi coi capitalisti perchè tenevano bassi i salari; 2- accettare una teoria pessimista dello sviluppo della popolazione, cioè quella malthussiana, che ammetteva che se anche si fosse andati ad alzare i salari, alla fine si sarebbe giunti lo stesso a una situazione di miseria economica.

Per spiegare questo passaggio dobbiamo rifarci al contributo di Malthus.
Ora, non dico una bugia, c’è proprio scritto nei libri di storia del pensiero economico: Malthus e Ricardo erano amici, si scrivevano lunghe lettere di teoria economica ed erano insieme nella commissione parlamentare che doveva studiare la legge sul grano9.
La teoria malthussiana della popolazione è nota, importante e difficile da contrastare. Da un’analisi storica, magari non accurata come potremmo fare oggi, ma comunque sensata, Malthus aveva capito che c’era una costante nello sviluppo della popolazione.
Ad un progresso delle tecniche agricole, seguiva prima una grande espansione demografica e subito dopo, inevitabilmente, una contrazione drastica della popolazione che si poteva manifestare in varie forme: carestie; epidemie; ecc… Perchè, secondo lui, lo sviluppo agricolo cresceva in maniera aritmetica (1-2-3-4) mentre la popolazione cresceva in maniera geometrica (1-2-4-8).
Esagerava.
Ma non tantissimo.
E il problema della sovrappopolazione in relazione alle risorse disponibili è stato, e rimane reale. Chiaro, anche in campo agricolo è arrivata la rivoluzione industriale, che ha scompaginato i calcoli malthussiani, in più la relazione da lui indicata era veramente troppo pessimista, bigotta e retrograda. Secondo lui, in sintesi, come si alzano un minimo le condizioni alimentari, le persone, e in particolar modo i proletari, iniziano a riprodursi e procreare, e non facendo un figlio o due, ma proprio aumentando il numero di figli in maniera sproporzionata via via che cresce la disponibilità di cibo. Credo che sia stato il primo caso di fervente cristiano che si è messo a proclamare la liberalizzazione degli anticocezionali e dell’aborto per il bene dell’umanità.
Un pazzo scappato di casa.
Uno dei miei preferiti.

Comunque secondo la legge malthussiana, nell’interpretazione datane da Ricardo, sarebbe accaduto che se nel breve periodo si fossero pagati più alti salari, la popolazione sarebbe cresciuta, quindi il denominatore del fondo-salari sarebbe aumentato e i salari sarebbero inevitabilmente ridiscesi.
Portando in basso anche il prezzo della merce e il suo valore10
Insomma, un valore ben strano. Non c’è che dire.

Andiamo a dare un’occhiata all’ultima parte della teoria di Ricardo, quella sugli scambi internazionali.
Anche questa parte della teoria ricardiana viene cosiderata ancora valida, seppure gli siano state mosse critiche feroci che dovrebbero far dubitare dell’ostinatezza con cui viene portata come dimostrazione scientifica e inappellabile dei benefici del libero commercio. È una teoria difficilissima e quasi impossibile da sintetizzare. Si chiama “teoria del vantaggio comparato”.
Sostiene questo: nel commercio internazionale, cioè fra paesi diversi, se ogni stato si specializza in una produzione specifica e scambia i suoi prodotti specializzati con un altro stato, la somma dei beni prodotti e disponibili aumenta in ciascuno stato, rispetto alla situazione in cui ogni stato si produce tutti i beni di cui ha bisogno all’interno dei propri confini.
Sennonchè durante il periodo post-coloniale qualcuno iniziò a metterla in dubbio. Ci si accorse cioè che la specializzazione promossa e che si era effettivamente sviluppata non andava nella direzione di accrescere il benessere degli stati in maniera perfettamente proporzionale.
Certo c’è un vantaggio comparato, ma comparato a favore di chi?
In sintesi alcuni stati avevano un enorme vantaggio comparato e altri solo un misero vantaggio comparato. E gli stati che lo avevano enorme erano i paesi imperialisti e quelli che lo avevano misero erano i paesi coloniali.
Ci sono due forme (o molte di più, ma sempre in un’unica direzione) che si sono affermate nel commercio internazionale: la prima è quella di promuovere nei paesi coloniali la specializzazione nella produzione di materie prime (agricoltura, minerali e fonti energetiche), che poi venivano esportate nei paesi imperialisti i quali in cambio esportavano prodotti finiti nei primi, in maniera sicuramente insufficiente, e creando un rapporto di dipendenza economica difficile da mettere in discussione.
La seconda è quella di delocalizzare anche la produzione finita, trasferendo parti di imprese intere e però portandosi via i profitti, quindi azzerando la possibilità di avviare il processo di sviluppo industriale innervato alla società che nei paesi occidentali/imperialisti abbiamo e che è stato la chiave del nostro progresso (o possibilità molto ridotte, che passano cioè solo per gli stipendi degli operai).
Vi lascio pertanto con la dimostrazione critica del vantaggio comparato ricardiano, caso mai dovreste trovarvi di fronte un sostenitore del libero mercato internazionale, può tornarvi utile.

Ci sono due Stati: Portogallo ed Inghilterra. I quali producono due prodotti, vino e tela, nelle proporzione indicate nelle tabelle sottostanti.
Ci sono due ipotesi e due scenari che valutano il commercio internazionale.
L’ipotesi 1 considera la situazione del vantaggio assoluto, già teorizzata da Adam Smith, in cui da un lato, il Portogallo, si specializza nella produzione del vino, cioè là dove ha un vantaggio evidente di produzione rispetto all’altro paese, mentre l’Inghilterra in tela. Il risultato è che spostando i lavoratori al settore dove c’è il vantaggio, la produzione totale cresce, per cui è possibile commerciare.
La seconda ipotesi è quella ricardiana del vantaggio comparato, la quale afferma, in maniera apertamente coloniale la situazione che avviene nelle tabelle 2a e 2b. Si ipotizza che in Inghilterra ci sia stato un forte incremento delle forze produttive per cui la produzione di entrambi i beni è triplicata. Ora, dunque, l’Inghilterra ha un vantaggio assoluto in entrambe le merci prodotte. Esiste ancora un vantaggio a commerciare? Per verificarlo occorre in questo caso uguagliare le forze lavoro in campo. E siccome il rapporto più basso è quello del Portogallo, in cui servono 8 litri di vino per produrre 1 metro di tela, poniamo il caso che si moltiplichi la forza lavoro per 8.
Dopo la specializzazione avremo la situazione per cui l’Inghilterra si trova in una condizione ottimale per commerciare. Dunque cosa fa? Decide di esportare 24 metri di tela. Questi 24 metri di tela, in Portogallo liberano altrettanta forza lavoro, che può così andare a specializzarsi nella produzione di vino. Senza il commercio internazionale i 24 operai in questione si sarebbero equamente divisi fra l’industria della tela e quella del vino. E in particolare in quella del vino avrebbero prodotto 96 litri di vino, producendone il doppio con la specializzazione possono dunque esportare in Inghilterra i 96 restanti. Il risultato è indicato nella tabella 2b.
In questo caso la produzione mondiale di vino e tela è aumentata, ma la sproporzione – e si tratta di una sproporzione grossa – si realizza nella forza lavoro impiegata dai due paesi per raggiungere una situazione di equilibrio, che in realtà è a solo vantaggio dell’Inghilterra. Ricardo pensava di aver scoperto i vantaggi del commercio internazionale in ogni caso in cui si dà un vantaggio comparato e invece aveva spiegato solo le catene dello sfruttamento coloniale. Infatti risulta abbastanza evidente che quello che l’Inghilterra ottiene nei confronti del Portogallo è di usare i lavoratori del Portogallo per produrre vino a un costo inferiore di quanto sarebbe nel suo paese.

È sufficiente questa dimostrazione per dire che bisognerebbe bloccare il commercio internazionale in ogni caso in cui non esista un vantaggio assoluto?
Bo, non ne ho idea! Data la vastità di motivi per cui si commercia, non tutti strettamente economici. E daltronde non so come si potrebbe fare a verificare dov’è che esiste un vantaggio assoluto, piuttosto che uno comparato. Di fatto la storia del commercio internazionale ha più un risvolto empirico che teorico. Seppure è la teoria che nella storia ha fatto aprire e chiudere le frontiere degli Stati, sposare o rigettare posizioni protezionistiche, dubito che sia facilissimo stabilire a priori se in certi rami esiste un vantaggio assoluto a commerciare o sia preferibile chiudere le frontiere. È però forse utile a capire a posteriori che se il commercio non arricchisce il paese in questione, allora forse si è incappati nell’inghippo del vantaggio comparato e pertanto valutare se esistono ragioni non economiche sufficienti per continuare il commercio.

Postfazione. Questo articolo, quelli precedenti e quelli che seguiranno trattano di economia. Non abbiamo una linea determinata nel trattare la questione economica e anche se l’autrice è una sedicente comunista, questo non assicura che quanto viene scritto sia corretto dal punto di vista dell’analisi.
Ci possono essere degli errori. Sicuramente ci saranno semplificazioni e difficilmente riuscirò ad essere esaustiva. Il motivo è che pur amando la materia economica, sono una semplice autodidatta: non ho luoghi e tempi di confronto con altri appassionati del genere letterario in questione e onestamente trovo un po’ difficili gli argomenti, sia da studiare, tanto più nello spiegarli.
Insomma questi appunti, da quelli più didascalici a quelli più arditi, sono appunti di un viaggio che mira a scoprire i meccanismi dell’organizzazione economica della nostra società e a dare un orientamento per l’azione pratica.

 

Bibliografia:
A. Smith – La ricchezza delle nazioni
Fineschi – Marx
Gattei – Per conoscere il nostro imperialismo
Keynes – Teoria generale dell’occupazione, ecc..
Landreth & Colander – Storia del pensiero economico
Malthuss – Saggio sulla popolazione
Marx – Il capitale, libro I
Polany – La grande trasformazione
Ricardo – Teoria generale dell’imposta, ecc…
Sloman – elementi di economia politica.

 

1Unione doganale; regole sulla concorrenza del mercato interno; politica monetaria; politica commerciale comune. Il quinto invece è sulla conservazione biologica del mare (la pesca, ecc..)

2Nel marxismo le forze produttive sono le capacità produttive espresse dalla società in un dato momento storico, cioè tutto, dal numero dei lavoratori, alle conoscenze tecniche e scientifiche, alle infrastrutture. Mentre i rapporti di produzione descrivono la relazione in cui si trovano le forze produttive, in particolare, con riguardo al possesso dei mezzi di produzione. Nel capitalismo il rapporto di produzione principale è la proprietà privata dei mezzi di produzione da parte di una singola classe, per cui si formano capitalisti e proletari.

3Attenzione però ad esaltare facilmente il modello basato sulla reciprocità, il quale non è esente da problematiche. Se anche solitamente non è fonte di problematiche particolari, molti autori hanno comunque sottolineato svariati problemi che potrebbero svilupparsi in un modello economico e sociale basato sulla reciprocità. Il dono porta con sé un legame fra il donatore e il beneficiario basato sulla dipendenza e la sottomissione. Dire che non esiste alcun corrispettivo economico, non equivale infatti a dire che non esiste alcun corrispettivo. Molti modelli di malavita, per esempio, si basano su una retorica della reciprocità.

4Si tratta delle grandi trasformazioni che si compiono (o che il capitalismo compie) nel modo di intendere la terra, il denaro (cioè la moneta) e il lavoro. Che da essere categorie, attività o oggetti d’uso quotidiano si trasformano in merci, trascinando l’intero mondo con sé in quello che potremmo anche chiamare, un nuovo paradigma.

5Sull’analisi della domanda torneremo ancora.

6 Nell’articolo di aprile avevamo detto che questo era dovuto al fatto che altri produttori si sarebbero aggiunti a produre a un prezzo tanto conveniente-profittevole, cosa vera, ma a quali costi?

7Se volete, ci sono anche dei grafici che spiegano tutti questi passaggi, ma ve li risparmio se non del tutto necessari.

8Salario reale = fondo-salari / forza lavoro, cioè salario reale = capitale accumulato / forza lavoro

9Tralascio qui la storia della legge sul grano, anche se storicamente è stata importante.

10Preciso qui che non conosco così bene Ricardo e riporto solo quanto trovato sui libri di economia.

 

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Ma non lo avevo già scritto?

Che cos’è il tasso d’interesse?

Ma non limitiamoci alle domande meschine. Chiediamoci proprio, che cos’è l’economia?

Quanto alla prima domanda, che cos’è il tasso d’interesse, non sentiamoci scemi se non sappiamo rispondere a questa domanda, dal momento che anche i più alti teorici dell’economia faticano a capirci qualcosa.
Nell’ultimo articolo, di aprile 2023, dicevo che il tasso d’interesse indica il costo del denaro, considerato in un singolo Stato o Unione di stati con la stessa moneta, e più precisamente il costo del debito.

È una parte della definizione, ma non completa.

Infatti quello è il tasso d’interesse della moneta, preso come valore a se stante deciso dalle banche centrali.

Prima di andare avanti specifico cosa intendo dire quando parlo di tasso d’interesse della moneta. La moneta, il denaro cioè, è una categoria particolarissima dell’economia. Con cui peraltro tutti abbiamo familiarità avendola sempre fra le mani (non tanta quanto ci piacerebbe). Quindi non dirò niente di nuovo ricordando che le caratteristiche principali, a livello di uso quotidiano della moneta, sono 1- quella di tesaurizzazione della ricchezza e cioè di mantenere inalterato nel tempo il valore del risparmio, cosa utilissima per differire a piacimento il consumo o l’investimento; 2- quella di fungere da universale equivalente e cioè da merce di scambio che tutto può scambiare. Cioè 8 ore di lavoro per una cena fuori; per una spesa per una settimana; per un paio di scarpe; per una bolletta del telefono, ecc… Tutte le altre merci del mondo trovano nella moneta l’equivalente con cui poter essere scambiate1.

La moneta, per queste sue qualità, resterà in ogni sistema economico al momento pensabile. Come si costruisce la moneta, la sua storia e le svariatissime forme che ne esistono è materia vasta che richiederebbe competenze economiche, storiche, antropologiche e certamente politiche, nonché artistiche, dato che la moneta è anche un simbolo.

Nella nostra parte di mondo “moneta” non è solo quella rappresentata dalle banconote, ma ci rientrano anche i depositi bancari e certi titoli “statali” che possano essere convertiti in contante in un lasso di tempo breve – fino a 6 mesi – e cioè quell’ammontare di denaro caratterizzato da un certo grado di liquidità. M1 viene chiamato dalle banche centrali l’ammontare di questi titoli, depositi e circolante. M2 comprende mi pare anche i titoli a più lunga scadenza tipo un anno. Ma qui non sono ferratissima.

Fatto sta che quando dico che il tasso d’interesse della BCE riguarda il valore della moneta, è perché si tratta del tasso applicato dalla Banca Centrale a dei titoli suoi particolari che possiedono caratteristiche se non proprio di liquidità, almeno non di immobilizzazioni, come sarebbe l’investimento in azioni o in investimenti in economia reale direttamente.

Moneta dunque, e non finanza.

Di questo si occupa infatti la BCE2.

Ci chiediamo a questo punto: che succede al tasso d’interesse monetario se ci troviamo in un contesto caratterizzato dall’inflazione?

Perchè il tasso d’interesse proposto dalle banche centrali è quello di offerta, diciamo così. Cioè quello che offrono le banche centrali. Ma il tasso d’interesse comparato all’inflazione, temo che potrebbe venir considerato il tasso d’interesse reale.

Mettiamo il caso che io abbia 100 euro da investire (e quando mai?). Vado sul mercato mondiale (la borsa valori) e mi guardo in giro. E vedo che la BCE offre titoli al vantaggioso tasso di 4,25% (annuo? Diciamo di si, ma potrebbe essere semestrale o “annuo, ma che deve essere stipulato per un minimo di 3 anni”, o simili).

Abbiamo detto che il tasso d’interesse della BCE è sicuramente garantito in quanto la BCE, per legge dell’Unione degli Stati, è la prestatrice di tutte le banche nazionali europee, per cui può chiedere e sicuramente chiederà questo tasso d’interesse alle sue stesse consociate quando gli presta denaro; le quali a loro volta possono chiedere e sicuramente chiederanno lo stesso tasso d’interesse ai privati… i quali a loro volta… niente. I privati cittadini non possono rivalersi su nessuno per rientrare del tasso d’interesse. Ma, quanto alla BCE, tramite questo meccanismo può garantire “sicuramente” di restituire il 4,25% di quanto “offerto” a prestito.
Nel mondo dell’economia, composto da teorici pazzi, però il tasso d’interesse monetario non è l’unico tasso d’interesse presente. Ne esistono a centinaia e migliaia.

Diciamo pure che ogni merce ha il suo peculiarissimo tasso d’interesse. Si tratta cioè del profitto realizzato se si fosse in grado oggi di prevedere quanto profitto su ogni produzione si potrebbe raggiungere.

Tutti questi tassi d’interesse stanno in relazione fra loro e il variare dell’uno comporta il variare dell’altro. Per esempio, sembra che il petrolio garantisca un certo tasso d’interesse. Certo, nel senso che sicuramente si realizzerà.

Io, però, che ho in tasca i miei bei 100 euro da investire, devo ancora fare due cose prima di decidere se dare o meno i miei risparmi alla BCE e sono: 1- valutare il tasso d’interesse di altri beni capitali rifugio (azioni in aziende); 2- valutare il peso dell’inflazione.

Quanto al valutare il tasso d’interesse di altri beni rifugio, essendo io un povero investitore ignorante o, come si dice con linguaggio tecnico, “con asimmetria informativa” che non può conoscere le sorti dell’economia mondiale, non avrò gran che su cui basarmi.

Certo posso pensare che investire in tecnologia informatica possa essere più profittevole, dato che dobbiamo tutti usare gli smartphone, i computer, il 5G, instagram, netflix e compagnia bella; oppure che investire in beni energetici con la guerra in corso che fa lievitare i prezzi di petrolio e gas sia una figata notevole, ma ormai per entrare in quella partita mi troverei molto in difficoltà; oppure potrei essere “very green oriented” e investire in rinnovabili o nel settore delle auto elettriche, ma mi basterebbe venire a sapere che tutta questa tecnologia e le materie prime per costruirla sono in mano alla Cina comunista, perché i miei sogni di diventare ricco si infrangano in niente. Insomma se voglio proprio speculare potrei anche rischiarmela a investire nel mercato del grano, solo però confidando che la guerra fra Russia e UE/USA vada avanti a tempo indefinito, ma poi forse la coscienza mi presenterebbe il conto che il mio arricchimento dipenderebbe dalla morte diretta di centinaia e migliaia di esseri umani.

Alla fine andrei a considerare sempre i soliti noti: Stato e BCE, che mi offrono tassi così vantaggiosi.

A questo punto però dovrei chiedermi che peso ha nel mio investimento la percentuale di inflazione. Infatti tutti sanno che l’inflazione riduce in valore percentuale l’ammontare del mio reddito, qualunque origine esso abbia. Cosicché se l’inflazione è al 10% e il tasso d’interesse al 4,25% io comunque ci perdo un 6% quasi.

Non sono scemo infatti, non saprò che cos’è il tasso d’interesse, ma non mi aspetto neanche che la BCE miri ad offendere la mia intelligenza quando dice che il mio investimento in titoli al 4.25% permetterà di frenare l’inflazione.

Non solo investitore, dunque, ma anche eroe della patria? Direi che è spararla un po’ troppo grossa!

Abbiamo detto che i privati che si trovano applicato un tasso d’interesse al 4,25% sui loro prestiti (mutui, cessioni, altri prestiti), essendo gli ultimi della catena, non possono scaricare questo aumento delle rate dei prestiti su nessun altro. Ma a questo punto occorre fare una distinzione. Quando si parla di “privati” in economia ci si riferisce a due soggetti diversi: privati cittadini e imprese. Fra i privati cittadini ci rientrano tutti, dall’operaio, all’ingegnere del CNR, diciamo comunque che si tratta nella grande maggioranza dei casi di lavoratori dipendenti. E anche con riguardo alle imprese non ci sono ulteriori distinzioni, da quelle di grosse dimensioni con 1000 o più dipendenti a quelle individuali, quali artigiani o commercianti, ci rientrano tutte. E così come privati cittadini facoltosi o imprese di grosse dimensioni avranno più disponibilità di rientrare dei tassi d’interesse applicati dalle banche e anche meno necessità di ricorrere ai prestiti, specularmente sono i privati cittadini non facoltosi e le imprese di piccole dimensioni che subiranno maggiormente la sciabolata dell’aumento dei tassi. E questo è un dato certo.

La distinzione fra cittadini e imprese, quando si parla di privati, serve però a rammentare una cosa: e cioè che le imprese essendo agenti economici intermedi, che cioè producono una merce per la vendita, cercheranno di rientrare dell’incremento dei costi dei tassi, aumentando i prezzi. Fra queste, buona parte delle imprese non riuscirà neanche aumentando i prezzi a pagare le rate dei prestiti, alcune ci riusciranno e potranno farlo, appunto, solo alimentando la spirale inflazionistica.

Sempre per completare il quadro attuale, diciamo pure che i mutui e i prestiti in generale si differenziano in mutui a tasso variabile e mutui a tasso fisso. Che significa? I mutui a tasso fisso applicano una percentuale di interesse stipulata nel contratto per tutta la durata del mutuo, a prescindere dalle variazioni del mercato. I mutui a tasso variabile, invece, da rata a rata ricalcolano il costo totale degli interessi usando come riferimento il tasso d’interesse di volta in volta deciso dal mercato.

Non abbiamo idea di quanta gente abbia stipulato un mutuo a tasso variabile, perché è da moltissimi anni che sappiamo che i mutui a tasso variabile sono strumenti di usura vera e propria e non molti si saranno affidati a cuor leggero a questo sistema. Qualcuno però c’è e sarebbe da chiedersi se non sia il caso di farsi qualche domanda sugli operatori che hanno proposto questi mutui ai loro clienti, perché nessuna banca sensata proporrebbe un mutuo di questo tipo sapendo che nella durata media trentennale di un mutuo è molto probabile che avvenga un aumento del tasso e quindi di andare incontro a grosse problematiche di insolvibilità.

Quanto ai mutui a tasso fisso, invece, il problema non si pone sui prestiti già stipulati, ma su quelli nuovi, che prendono a riferimento, come già abbiamo detto, il tasso d’interesse deciso dalla BCE. Quindi andare in banca oggi a chiedere un prestito anche a tasso fisso è praticamente improponibile per chiunque non abbia grosse garanzia di solvibilità, cioè precisamente coloro che non hanno gran che bisogno di prestiti, avendo già nella loro disponibilità case, imprese, titoli e affini.

Fra questi pochi che hanno la disponibilità a stipulare questi prestiti si tratterà comunque delle imprese e delle attività che hanno un potere monopolistico sul mercato per vari motivi. Le quali possono implementare attività dannose o speculative. Aziende sorrette da artefatti motivi di guadagno, insomma. Non di imprese produttive efficaci ed efficienti. Ed è anzi da chiedersi precisamente su imprese efficaci ed efficienti quale sarà il contraccolpo di non poter più accedere al credito o di poterlo fare solo a prezzi speculativi. Insomma si tratta di un incentivo all’approfittazione. E di un incentivo significativo.

Questo è lo scenario attuale per quanto riguarda il mercato dei prestiti. Cerchiamo però brevemente di capirne cause ed evoluzioni.

Parliamo delle cause, che sono prettamente e, in questo caso, miseramente politiche.

L’unico motivo per cui la BCE e le altre banche centrali possono decidere di applicare un aumento del tasso d’interesse è precisamente per conservare il “valore” del capitale. Non ne esiste nessun altro.

In sintesi, abbiamo già detto e visto, che la spirale inflazionistica attuale non è stata originata da un incremento sregolato dell’attività produttiva – per altro in nessun modo auspicabile, stante la crisi ambientale in corso – ma invece da un incremento dei prezzi, principalmente deciso dalle grandi imprese monopolistiche e in particolare di gas e petrolio.

Ma non solo, ci sono anche altre imprese che nella fase attuale registrano profitti smisurati ottenuti proprio grazie all’aumento dei prezzi, ne enumeriamo qualcuna: multinazionali del farmaco; produttori di materie prime rare e necessarie per il settore dell’elettronica; e ultimi, ma non per importanza, immobiliari di vario tipo. Per esempio in Italia abbiamo una legge che prevede di applicare in automatico un incremento degli affitti, sui contratti da rinnovare, legato al valore dell’inflazione. Così. Senza neanche dover stare tanto a mercanteggiare.

L’inflazione quindi genera una diminuzione del valore di quello che viene chiamato capitale monetario, i soldi per intenderci. I miei risparmi di un anno fa valgono oggi almeno il 10% in meno. Se avevo 100 euro, nominalmente ne ho ancora 100, ma il loro valore è di 90. Per spiegare meglio il ragionamento diciamo che se un anno fa coi miei 100 euro potevo comprare 100 chili di grano e per qualche stupido motivo non l’ho fatto, oggi ce ne posso comprare solo 90. Se l’inflazione continua inesorabile, fra un anno, sempre ammesso che io non mi decida a comprare oggi i 90 chili in questione, dilapidando tutto il mio risparmio, l’anno prossimo ne potrò comprare solo 81 chili e via di seguito. Cioè il valore del mio denaro, anche se nominalmente è identico (100 euro), espresso in termini di grano ha perso il 10%.

Questo vale per tutto il denaro soggetto alla spirale inflazionistica. Quindi euro di sicuro e in particolare euro in Italia. Ma dato che la mossa inflazionistica è stata guidata dai produttori di petrolio e gas e in particolare dai produttori che vendono nel mercato occidentale mondiale, diciamo pure che è la ricchezza di tutto l’occidente che si è impoverita del 10%.

E’ da domandarsi però? Anche quella dei produttori di petrolio si è impoverita?

E con questa domanda entriamo un po’ più nel dettaglio di che cosa è il tasso d’interesse reale, quello a cui badano i capitalisti. Giacché, anche la spiegazione data sopra cioè che il tasso d’interesse sia il valore del costo del denaro, e più precisamente del costo del debito corretto al valore dell’inflazione è incompleta. Diciamo invece che ogni merce (grano, petrolio, titoli della BCE, e perfino denaro) ha un suo specifico tasso d’interesse. Ma poiché l’economia è tutta integrata, il tasso d’interesse di una merce si ripercuote su quello di qualunque altra merce.

Diciamo dunque che sono saliti i prezzi delle energie fossili perché i produttori, in buona compagnia, 1- o hanno approfittato della situazione di distrazione mondiale generata dalla pandemia e dalla guerra in corso in Ucraina; 2 – oppure perché un giorno si sono svegliati e hanno detto “poffarbacco, siamo dei monopolisti, possiamo applicare i prezzi che vogliamo” mentre prima non ne avevano idea; 3 – oppure perché si sono resi conto che la produzione con la vecchia tecnologia non bastava più a soddisfare la domanda di petrolio attuale e per implementarne una nuova – che faccia solo sembrare che ci sia tanto petrolio quanto prima, anche se un po’ più costoso – hanno alzato i prezzi (e stiamo parlando dei rigassificatori, del fraking e delle trivellazioni delle scureggine del mediterraneo – cioè di quelle sacche di gas naturale molto ridotte, ma numerose che ci sono nel mediterraneo).

Per uno qualunque di questi motivi, essendo il petrolio e il gas naturale, i beni principali da cui dipende, se non il valore, certamente il costo di ogni altra merce prodotta, l’aumento dei prezzi di questi prodotti ha comportato una spirale inflazionistica. É poi da vedere quanti di questi extra-profitti finiranno in investimenti e quanti invece andranno ad incrementare gli utili degli azionisti.

 

Questa spirale inflazionistica come si ripercuote sul valore del capitale degli stessi produttori di petrolio?

Bè… come dire. Io ritengo che il tavolo su cui giocano i grandi capitali e il tavolo su cui gioca la gente normale siano molto diversi. Un capitalista può certo finire in miseria se non amministra bene il suo denaro e investe tutto in un’impresa folle, ma nella stragrande maggioranza dei casi, il capitale accumulato è più che sufficiente a compensare sbalzi inflazionistici del 10%.

Mettiamo che loro abbiano aumentato il prezzo di un 5%. Il quale 5% si ripercuote su ogni passaggio produttivo. Dal produttore al consumatore, come si dice.

Io sono ENI e vado al tavolo dell’ente che acquista e distribuisce il gas a livello locale, mettiamo Enel e gli dico: “l’anno scorso ti ho fatto pagare 100 euro un mese di petrolio, quest’anno te lo faccio pagare 105, prendere o lasciare”. Poiché però Enel deve pagare in anticipo un anno intero, dovrà sborzare 60 euro in più sull’unghia. E siccome Enel questo contratto, invece di firmarlo a gennaio, lo firma in luglio e di tempo per rientrare delle spese ne ha solo 5 o 4 mesi, applica un aumento del 20%. La grande industria si prende un colpo vedendo aumentare i costi del 20% da un mese a quell’altro, parla ai suoi azionisti, cerca di rassicurarli che certo quest’anno non ci saranno tanti utili quanti previsti, ma che l’anno successivo andrà sicuramente meglio e applica un aumento sui suoi prodotti del 10%, noi compriamo questi prodotti che costano il 10% in più.

L’azionista di ENI dunque ha visto i suoi profitti incrementarsi del 5%, ma il valore del denaro diminuire del 10%. A differenza dei comuni mortali ci ha dunque rimesso solo il 5%.

Ripetiamo che ritengo che il tavolo dei grandi capitali e il tavolo della gente normale, quando si parla di ricchezza, capitale o valore, sia molto differente, qui lo trattiamo come se fosse unico per semplicità.

Inoltre ritengo che l’aumento dei tassi d’interesse serva proprio a tutelare il valore dei grossi capitali e che la BCE stia semplicemente cercando di uguagliare tutti quei profitti che non sono aumentati del 10%, portando il capitale a rivalutarsi del 10% come somma fra profitti e titoli. Per questo sostengo che le cause sono unicamente politiche e non economiche.

Cosa faranno nel futuro, poi non è dato di saperlo. Gli scenari sono molteplici: ENI può usare l’incremento dei profitti per andare a trivellare in giro (cioè investire), ma lì poi bisogna vedere se trova o non trova il gas, che se lo trova ha investito i suoi utili, se non lo trova ha sperperato i suoi risparmi. Allora poi magari l’anno dopo si presenta al tavolo e dice “quest’anno ti vendo a 110, prendere o lasciare”. Eccetera.

Se fossimo indovini potremmo chiederci davvero se queste fluttuazioni non siano segnali di cambiamenti registrati nell’economia reale. Ma non siamo indovini.

E come tutti leggiamo i dati finanziari e non ci capiamo un tubo.

Ci domandiamo però e pensiamo sia un domanda più che lecita: cosa dovrebbe fare un imprenditore onesto o un lavoratore impiegato a tempo pieno per restare sul mercato senza ricorrere a miseri trucchetti quali spostare i suoi risparmi dall’economia reale a quella finanziaria o accettare diminuzioni del salario, per quanto camuffate, andando a vivere sotto i ponti?

Se i grandi capitali possono mantenere il loro valore inalterato, perché la stessa cosa non può avvenire per la gente normale?

Se la teoria economica non ha una risposta a questa domanda e anzi solertemente si adopera a fare l’opposto, allora la teoria economica è sbagliata.

 

 

1Cnfr. Marx libro I, cap. 1 de “Il Capitale”

2Da tenere presente tuttavia che lo studio dell’economia politica applicata alla politiche statali prende il curioso nome di “scienza delle finanze” come se si occupasse davvero solo di soldi astratti e non anche di diritti.

 

 

 

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Inflazione e tasso d’interesse. Quanto è buia la notte?

Nei prossimi mesi posterò articoli su questioni economiche, perdonatemi. Spero di riuscire a farlo in modo da interessarvi alla materia, ma più probabilmente vi annoierò. Questa serie di articoli mi terrà impegnata per un po’, questo almeno è il mio intento attuale, ma non so per quanto riuscirò a mantenerlo.

Iniziamo.

Negli ultimi mesi il dibattito economico si è concentrato su alcune questioni principali. Le enumero tutte, ma ne tratto solo alcune.
La ripresa dell’inflazione; l’incremento del tasso di interesse applicato dalle banche centrali; il problema del lavoro povero con i temi connessi dell’introduzione di un salario minimo legale e dell’incremento degli stipendi; il taglio del reddito di cittadinanza; il carovita.

Di tutti questi temi tratto in questo articolo solo dei due aspetti “inflazione” e “tasso di interesse”.
A premessa c’è da dire che questi termini riguardano un campo dell’economia che solitamente viene definita “macroeconomia” e che potremmo anche tradurre in termini marxisti con “capitalismo di Stato” e l’altra premessa è che questi temi non sono affrontati dall’analisi marxista, quindi per forza di cose per parlarne dovremo ricorrere ad alcune generalizzazioni fatte dall’economia borghese.

Si dice che l’economia borghese da Ricardo in poi non abbia prodotto niente di buono, ma è un affermazione un po’ esagerata. Fino a Ricardo (fisiocratici e poi Adam Smith) arrivano a definire alcune leggi generali dell’economia e quindi proprio a creare la materia di studio in sè, ma con Ricardo si arrivava a svelare che la base dell’arricchimento materiale del capitalista dipendeva dalla forza lavoro impiegata nel processo produttivo. Da Ricardo e Marx in poi l’economia non può più fare finta che questa contrapposizione non generi un conflitto insanabile e quindi l’economia borghese entra in grossa difficoltà e diventa di fatto un campo di contesa.
Da un lato si sviluppano le scuole liberiste più sfrenate che “dematerializzano” la materia economica e iniziano a parlare solo di finanza; dall’altro lato però, specie con l’avvento dell’URSS che apre le porte all’intervento diretto dello Stato nell’economia, si apre un nuovo campo di indagine nell’economia borghese che cerca di “curare” i mali del capitalismo con l’intervento statale, ma rimanendo sempre nel modo di produzione capitalista.

Di questa corrente non si può dire che sia inutile. Se non altro perchè ha elaborato tutta una serie di concetti, fra cui i due di cui oggi ci occupiamo, la cui analisi è di aiuto anche ai marxisti per capire i segnali di nubi nere che si addensano all’orizzonte. Che purtroppo le nubi nere del capitalismo, molte volte sono ancor più nere per i proletari.

Quindi iniziamo spiegando brevemente che cos’è la macroeconomia e in che cosa si differenzia dalla microeconomia o economia classica.
La microeconomia, in dialettica borghese, è quella che riguarda esclusivamente il settore degli scambi. Come gli scambi avvengono da sé, in pieno liberismo. Cioè come si regola il mercato da solo. Domanda, offerta, consumo, preferenze, salario, costi di produzione, profitto, cartelli, oligopoli, monopoli, esternalità e ovviamente prezzo delle merci, tutto ciò rientra nel campo di indagine della microeconomia.

La macroeconomia, invece riguarda fenomeni aggregati di microeconomia e le scelte politiche, quindi le nozioni di ciclo economico, la domanda e offerta aggregata, l’inflazione, il tasso d’interesse (deciso da organi politici); la bilancia dei pagamenti (importazioni ed esportazioni); il tasso dei cambi, rientrano nel settore della macroeconomia.

La macroeconomia come scienza è stata inaugurata in maniera compiuta da Keynes.

John Maynard Keynes è stato un’economista britannico, nato nel 1883 e morto nel 1946, la cui teoria è stata determinante per affrontare le crisi della prima metà del ‘900 e improntare i piani di ricostruzione successivi alla seconda guerra mondiale.
La sua teoria è nota. Lo Stato deve sostenere la domanda aggregata: pagare buoni salari, attraverso questi sostenere la domanda interna di tutto il resto dei produttori e le tasse, sfruttando una famosa legge economica, da lui inventata, che si chiama “moltiplicatore del reddito” secondo la quale il reddito totale di uno stato (il PIL) cresce in proporzione a un moltiplicatore trainato dalla domanda aggregata. Cioè dai consumi. Cioè ancora un operaio che crea un’automobile, anche se l’automobile non ha un valore d’uso immediato per lui né per nessuno dei suoi familiari, riceve un salario molto alto, che va a spendere nel mercato interno (cibo, vestiario, macchine, casa, ecc…) spingendo in questo modo la produzione interna a produrre e a pagare salari molto alti agli operai che lavorano in altri settori che non sono quelli delle automobili e che a loro volta andranno a consumare nel mercato, trainando in questo modo la produzione, il reddito e chiaramente anche le tasse che su ognuno di questi passaggi stanno.
Quindi 1 euro investito in automobili alla fine dell’anno ha fatto 10 giri, ha cioè generato 10 euro di ricchezza in più e l’economia prospera.

Quando all’indomani della crisi del ’29 Keynes si infervorò sostenendo che lo Stato sarebbe dovuto intervenire in economia per alimentare la domanda aggregata, a chi gli chiese per produrre che cosa, finì per rispondere in modo celebre: “non importa che cosa lo Stato decida di produrre, può anche mettere gli operai a scavare buche e poi ricoprirle, purchè gli paghi un salario che traini la domanda”.

Negli USA negli stessi anni in cui Keynes scriveva in Inghilterra, con Franklin Delano Roosvelt, presidente USA dal 1933 al 1945 ed unico presidente USA ad essere stato eletto 4 volte consecutive – muore nell’aprile 1945 – si attuano politiche passate alla storia col nome di New Deal che hanno molto a che vedere con la teoria keynesiana.
Non ci sono conferme che Roosvlet studiasse le indicazione di Keynes, ma neanche smentite. E in fin dei conti, il dibattito economico dell’epoca ruotava intorno a queste questioni.
Le politiche del New Deal non mettono gli operai a scavare buche per poi ricoprirle, ma invece a costruire grandi opere pubbliche di cui c’era bisogno: strade, ferrovie, case ed ospedali e il moltiplicatore si impennò, facendo fare un balzo gigantesco all’economia statunitense, ineguagliato per decenni da qualunque altro stato.

È sempre da questa teoria infatti che nasce il problema del consumismo, ma avremo altre occasioni per riparlarne e ora ci porterebbe fuori strada.

Infatti non abbiamo ancora parlato di inflazione e tasso di interesse.

Iniziamo con una tabella dell’inflazione degli ultimi anni in Italia (fonte ISTAT).

 

Per spiegare la tabella diciamo alcune cose. La tabella è divisa per anno e ogni anno è diviso in due colonne. La colonna in nero indica l’incremento dell’inflazione rispetto al mese precedente, mentre quella in rosso l’incremento sullo stesso mese dell’anno precedente. Ho poi evidenziato in grassetto quelli che sono i valori fuori scala, cioè superiori ad un incremento del 2% e messo fra parentesi la differenza per evidenziare l’aumento fuori scala, cioè “abnorme”. Infine la colonna finale indica la somma dei valori fuori scala per dare un indice globale dell’aumento dell’inflazione.

A questo punto è forse il caso di entrare nel dettaglio del perchè ho scelto questi valori e di che cosa è l’inflazione.

L’inflazione indica, molto semplicemente, l’aumento percentuale dei prezzi. È un dato aggregato elaborato dagli istituti di statistica, in Italia l’ISTAT (ente pubblico), costruito secondo alcune regole. Viene costruito monitorando il prezzo di un certo numero di beni, in Italia oltre 1500 fra merci e servizi, che viene chiamato “paniere” e che potremmo tradurre col termine “carrello della spesa”. Ci sono dentro vari tipi di beni, anche non primari, quali smartphone e servizi sportivi per i figli, ma che vengono tutti considerati più o meno necessari al consumo di uno stile di vita medio. I beni primari, necessari alla sopravvivenza, sono però pesati maggiormente nel paniere, quindi un loro incremento del prezzo determina un aumento più che proporzionale dell’inflazione, mentre quelli meno importanti hanno un valore direttamente proporzionale. Si dice poi, infine, che nel calcolo dell’inflazione non rientrano direttamente gli aumenti energetici, ma di questa questione non terremo conto nella presente trattazione, perchè come abbiamo spiegato in precedenti articoli, l’aumento del costo delle energie fossili si trasmuta direttamente nei prezzi dei beni al consumo, che sono invece monitorati dall’ISTAT.

Rispetto alla tabella ci sono anche altre questioni da segnalare.

Negli anni antecedenti alla pandemia e per tutta la pandemia l’inflazione è sotto controllo, cioè praticamente non c’è. La pandemia ha avuto anzi un leggero effetto deflattivo (cioè scendevano i prezzi al consumo), ma sostanzialmente si è mantenuta in linea con gli anni precedenti. Il problema in pandemia era piuttosto dovuto al fatto che erano i redditi ad essersi ridotti, quindi nelle famiglie, anche se i prezzi dei beni al consumo erano uguali o lievemente più bassi, essendoci meno entrate, nella percezione corrente i soldi mancavano lo stesso per fare la spesa.

Risulta poi chiaro lo scarto che c’è stato nell’ultimo periodo in cui per tutti gli ultimi dodici mesi si registrano valori di inflazione superiori al 10% e che quindi rendono anche la media annuale effettiva intorno a questo valore.

Ma quale aumento dei prezzi al consumi può considerarsi effettivamente come inflazione fuori scala?

Solitamente, viene definita inflazione quella che supera una certa soglia. Io ho scelto il 2%, anche se per la teoria economica classica, questo valore, invece, è considerato fisiologico intorno al 3%. E’ vero che quando fu fissato questo limite l’inflazione era un fenomeno reale dell’economia capitalista che viaggiava su scale solitamente molto più alte, ma oggi che usciamo da oltre un decennio di prezzi stabili, considerare il 3% come valore limite sarebbe falsante del dibattito, quindi io ho preso il 2% che mi sembra più realistico.

L’ultima cosa da evidenziare rispetto alla tabella è l’incremento che si è registrato nel mese di ottobre 2022 in cui c’è stato un salto veramente importante da un mese all’altro e che è stato direttamente causato dall’aumento del prezzo del gas, dalla speculazione sulla fluttuazione dei prezzi del gas e dalla paura dei produttori che hanno anticipatamente alzato i prezzi prima di vedere le bollette del gas invernale (questa è analisi personale).

Fatta questa panoramica, arrischiamoci a spiegare che cosa sia l’inflazione, dividendo l’analisi in cause e conseguenze.

Partiamo dall’analisi delle cause, che è quella che crea più incertezze.

Secondo la teoria economica politica classica1 la spiegazione dell’inflazione ha cause veramente incredibili nella loro ingenuità. L’inflazione sarebbe infatti dovuta unicamente allo sviluppo impetuoso dell’economia. Cioè quando l’economia va a gonfie vele, si produce, si vende, si consuma, l’inflazione si innalza.
Ecco questa è l’unica spiegazione che l’economia politica riesce a dare dell’inflazione.

Un esempio recente di questo tipo di inflazione si è avuto con riguardo ai beni informatici il cui consumo durante la pandemia è aumentato significativamente. I produttori, pur vendendo milioni di device informatici, non tenevano il passo della domanda, dato che l’intera economia mondiale si era spostata in smart-working, e così il prezzo dei beni informatici è salito.

Certamente i beni informatici rientrano nel paniere istat, ma un po’ che le esigenze post-pandemia sono rallentate, un po’ che c’era una massa di merci informatiche già presenti nelle case dei consumatori, un po’ che non essendo beni primari o materie prime sono ponderati in maniera minore, con tutto questo non c’è verso che l’inflazione nei prodotti informatici abbia portato a un’inflazione generale.

Uscendo dal caso specifico è bene chiedersi se può essere stato l’aumento di una domanda aggregata di tutti i beni in commercio la fonte della nostra inflazione?

Verrebbe da dire di no, dato che a gennaio, sempre l’istat ha certificato che il consumo generale dei beni sul mercato è diminuito sensibilmente – proprio a causa dell’inflazione, aggiungiamo – quindi non si registra un motivo di sovrarichiesta che generi inflazione.

Detta così potrebbe sembrare una pazzia che l’inflazione sia data da un generale incremento dei prezzi dovuto a una maggiore domanda aggregata, ma non scordiamoci che questa teoria è stata elaborata all’indomani della seconda guerra mondiale in cui effettivamente sia la produzione che il consumo sono enormemente cresciuti e per cui i prezzi aumentavano. Quindi questo tipo di spiegazione poteva essere plausibile all’epoca.

Oggi, però, la cosa non è altrettanto credibile.

C’è stato certamente un incremento della domanda rispetto alla fase della pandemia, ma è improbabile che questa sia maggiore della fase ante-pandemia in cui già eravamo arrivati a un livello di consumismo allarmante. Ora, può darsi, che mi manchi una osservazione di dettaglio e può darsi che dopo lo schock pandemico invece di tornare al loro consumo abituale alle persone gli abbia dato di balta il cervello e si siano messi tutti a viaggiare come pazzi, comprare, mangiare, buttare cose senza averle utilizzate, ma a quanto posso vedere coi miei occhi, questo scenario è piuttosto improbabile.

Bisogna quindi guardare la cosa ampliando un po’ lo sguardo sulle cause.

Abbiamo detto: la spiegazione classica dell’inflazione è quella di una carenza dell’offerta, rispetto a un’accresciuta domanda.

Altre cause dell’inflazione, ma di natura diversa da uno squilibrio fra domanda e offerta in un mercato stabile, possono dipendere da una crisi nell’approvvigionamento delle risorse produttive. Per esempio quando c’è una carestia o una crisi produttiva di qualche tipo nella produzione alimentare si impennano i prezzi. E qui iniziamo ad avvicinarci un po’ di più a una parte della spiegazione se guardiamo allo scenario internazionale che con la guerra in corso può aver causato una diminuzione della produzione dei beni alimentari, stile grano prodotto in Ucraina, che fa alzare per questo i prezzi di questi beni.

Sempre su questa linea di spiegazione possiamo considerare la riduzione degli scambi internazionali causata dalla guerra. Questa diminuzione senza che ci siano altre fonti di approvvigionamento porta a una diminuzione dell’offerta e a un innalzamento dei prezzi.

C’è poi una spiegazione basata sulla scarsità delle forze produttive (infrastrutture, industrie e tecnologia della produzione) e nel nostro caso specifico distruzione delle infrastrutture e loro sostituzione con infrastrutture molto più costose.

Sempre per richiamare lo scenario della guerra, in questa parte della spiegazione ci sta la distruzione del gasdotto Nord-Stream e la sostituzione del gas russo, almeno in Italia, con quello americano, con la messa in opera dei rigassificatori di Ravenna e Piombino, che sappiamo essere molto più costoso. Non saprei dare una stima, ma direi che si aggira almeno al doppio del prezzo del gas naturale russo, se non il triplo.

Ma Nord-Stream è stato distrutto solo recentemente, quindi a voler essere ottimisti i risultati sull’inflazione di questo attacco ancora non si sono pienamente dispiegati e li vedremo probabilmente intorno a novembre.
Rimane poi il motivo speculativo: aumento arbitrario dei prezzi delle materie prime (petrolio e gas). Su questo fronte, un po’ che ci sono le inchieste della procura che hanno fatto luce; un po’ che c’è una legislazione in merito alla distribuzione dell’energia il cui prezzo non può fluttuare liberamente sul mercato (speriamo); un po’ infine che alle imprese sono stati fatti tantissimi sconti sulle tasse negli ultimi anni, con tutto questo non possono lamentare un incremento eccessivo del costo dei fattori produttivi e quindi un conseguente calo dei profitti, per giustificare un innalzamento dei prezzi sopra il 2-3% in generale.

Insomma in ordine di importanza, metterei le cause dell’inflazione e dell’incremento dei prezzi in questo ordine: 1- speculazione non del tutto messa sotto controllo e non ancora riassorbita; 2- frenata dei commerci internazionali in un momento come quello attuale, post-pandemico, in cui la domanda aggregata non aveva motivo di essere inferiore; 3- distruzione di materie prime e di prodotti finiti e stop della produzione ucraina; 4- riconversione della produzione russa in direzione guerrafondaia; 5- mancanza e interruzione di politiche keynesiane, quindi di sostegno al welfare; 6- incremento dei consumi post-pandemici a cui la produzione mondiale non riesce ad adeguarsi…

Di tutti questi fattori le decisioni politiche si concentrano unicamente sull’ultimo aspetto, che abbiamo detto essere il meno probabile e importante. Quindi, “in teoria”, anche le politiche per “risolvere” questo problema, saranno inefficaci.

Entriamo però nel dettaglio del perchè la spiegazione tradizionale dell’inflazione sostiene che la causa sia quella di un’accresciuta domanda aggregata a cui l’offerta aggregata non tiene il passo.

Per domanda aggregata si intende la somma della richiesta di merci, beni, servizi e – aggiungo io – investimenti in economia reale che una società esprime in un dato momento. Per offerta aggregata, specularmente si tratta della somma di merci, beni e servizi che il mercato offre in un dato momento.

Queste due funzioni si comportano in maniera simile a quanto solitamente si intende riferendosi alla legge della domanda e dell’offerta2.

Questa legge infatti in microeconomia riguarda l’offerta e la domanda di una singola impresa produttiva, ma la somma di tutte le funzioni di offerta e domanda delle imprese e dei consumatori di una società dà la funzione di offerta e domanda aggregate.

La domanda, come già precisato altrove, segue più o meno la logica che “più aumenta il prezzo di un bene al consumo, meno si è disponibili a comprarlo”. (Mentre quando il prezzo diminuisce se ne compra fino a una certa soglia che viene chiamata d’indifferenza, in cui non serve un’unità in più di prodotto al singolo consumatore e quindi glielo possono anche regalare, ma il consumatore non lo prenderebbe perchè non gli serve3).
L’offerta invece è di difficile spiegazione, ma solitamente viene rappresentata come una curva inversa a quella domanda, cioè all’aumentare del prezzo, l’offerta cresce. Ci sono varie spiegazioni possibili di questo andamento della curva: nuovi produttori si immetteranno nel mercato per produrre il bene richiesto a un prezzo tanto vantaggioso; se il prezzo cresce ci sono margini di profitto maggiori per cui conviene produrne in maggior quantità; ecc… ma la realtà è che la funzione di offerta è scritta male e disegnata sullo stesso grafico della domanda solo per un’estetica matematica.

In realtà l’offerta non si comporta in questo modo, non è trainata dal prezzo, ma da altre variabili (in primo luogo i costi) ed è l’offerta che dipinge il panorama concretamente disponibile di merci e servizi. Ci può essere anche un incremento fortissimo della domanda di risorse energetiche alternative al petrolio e la gente può essere disponibile a spendere fior fior di quattrini in pannelli solari e strumentazioni simili, ma finchè i produttori non si convincono che l’economia si deve riconvertire e abbandonare il fossile non ci sarà nessun incremento dell’offerta. Tanto più che quando esiste una vastissima domanda aggregata insoddisfatta, se qualcuno si metterà a produrre con tecniche efficienti il bene richiesto, inevitabilmente finirà per generare economie di scala e le economie di scala hanno questo svantaggio di abbattere il prezzo del bene prodotto, non di incrementarlo. Motivo per cui è così difficile smuovere i capitalisti da occasioni di profitto garantito nel quadro di offerta dato e convincerli a investire in campi alternativi.

Quanto all’andamento dell’inflazione rispetto alla curva dell’offerta aggregata, la spiegazione classica è questa: se di un bene domandato, per una serie di motivi, c’è scarsità di offerta il prezzo si innalza e genera inflazione.

Ma questa spiegazione sarebbe valida in due scenari differenti “normali”: 1- Un bene viene domandato tantissimo, ma non ci sono i mezzi di produzione adeguati4 o il numero di aziende sufficienti ad esaudire la domanda (spiegazione classica); 2- un bene viene domandato anche in maniera normale, cioè non tantissimo, ma i produttori lo vendono comunque al prezzo da loro deciso per motivi speculativi.
Secondo l’economia classica non è possibile che questo secondo scenario si sviluppi perchè la concorrenza spingerebbe altri produttori a immettersi nel mercato e vendere a un prezzo più basso.

Ecco, a persone che fanno affermazioni come queste, noi affidiamo le sorti della nostra economia, quando sappiamo benissimo che questa è la strada dei monopoli, dei loghi, delle multinazionali che non sono entità astratte che non esistono “perchè altri produttori si immettono nel mercato”, ma le condizioni normali di operare della nostra economia.

A questo punto, cosa c’entra il tasso d’interesse? E qui si va su un campo minato di discussione di cui anche i tecnici hanno difficoltà a parlare.
Intanto possiamo dire che il tasso d’interesse è cresciuto. Lo hanno detto tutti i giornali.

Se due anni fa foste andati a comprare casa vi avrebbero fatto un mutuo con un interesse all’1,5%. Oggi se andate a stipulare un mutuo vi propinano come vantaggioso un interesse al 4%.

Che cos’è il tasso d’interesse? Direi il costo del denaro, o per essere più precisa, quello del debito. Vuoi fare debito per un qualunque motivo (comprare o ristrutturare casa, mettere i pannelli solari, comprare una macchina)? Il tasso d’interesse ti dice quanti soldi in più di quelli che ti sono stati prestati dovrai rendere. 100 euro all’1% sono un euro l’anno. Se lo ammorti in 100 anni devi restituire 100 + 100 euro, il doppio… più o meno. Se il tasso d’interesse è del 2% in 100 anni ne devi restituire 300, eccetera.

Certo sarebbe un prestito da folli fatto così, ma è un esempio per far capire i termini della questione e per sottolineare che il piano di ammortamento di un prestito ha diverse variabili da tenere in considerazione: il tasso d’interesse (fisso o variabile); l’importo della rata di ammortamento e il tempo totale di ammortamento. Questi sono tutti aspetti che vengono decisi alla stipula del contratto.

Ma chi decide il tasso d’interesse?

In prima battuta sarebbe la banca o il finanziatore in questione che presta i soldi.

Ma poiché banca e finanziatori vari sono tutti debitori nei confronti delle banche centrali, alla fine sono le banche centrali che decidono il tasso d’interesse generale.

Soffermiamoci: le banche sono debitrici nei confronti della banca centrale? Si.

Perchè? Non lo so.

Si tratta comunque di un mercato particolare, chiamato “mercato della moneta” il quale ha caratteristiche specifiche che non possiamo trattare in questa sede.

Semplifichiamo dicendo che, di fatto, tutta la moneta circolante è emessa dalle banche centrali che l’hanno data in prestito alle varie banche sparpagliate per il mondo, quindi sono tutte debitrici. E avendo un debito ad un tasso d’interesse deciso dalle banche centrali (BCE e FED), a loro volta possono fare prestiti solo al minimo del tasso d’interesse da cui hanno preso a prestito o, più spesso, superiore.

O meglio: siccome il tasso d’interesse deciso dalle banche centrali, è quello di riferimento per tutte le operazioni economiche e finanziarie, nel caso delle banche locali, anche quelle finanziariamente solide, il tasso d’interesse viene traslato nei prestiti che fanno a imprese e cittadini. Questo perchè se andassero invece ad investire in obbligazioni o altri titoli che seguono il tasso d’interesse della banche centrali ci guadagnerebbero proprio quella cifra, quindi quando offrono i soldi in prestito a cittadini e imprese della stessa cifra vogliono rientrare.

Quale che sia il motivo per cui le banche cosiddette commerciali, cioè quelle dove teniamo il conto corrente, decidano di alzare il tasso d’interesse di prestiti e mutui a seconda del tasso stabilito dalle banche centrali, il risultato è lo stesso: se BCE e FED alzano i tassi d’interesse questi si riflettono sull’economia reale, rendendo più costoso il debito.

A questo punto, non solo il debito di famiglie e imprese diventa più costoso, ma anche quello dello Stato, perchè se tutti gli operatori finanziari si adeguano al tasso d’interesse delle banche centrali, gli Stati, forti della loro posizione preminente sul mercato, potranno emettere titoli di debito lievemente inferiori, garantendo una maggior sicurezza del prestito e quindi una certa restituzione, ma non potranno scostarsi più di tanto, quindi lo aumenteranno anche loro. Chiaramente però avere interessi più alti sul debito pubblico (che poi in parte rilevante sono proprio le banche centrali ad acquistarlo – come a dire che contrattano prezzo di domanda e di offerta in pieno stile liberista) comporta a sua volta una riduzione delle possibilità di spesa dello Stato che è impegnato invece a ripagare gli interessi.

Che questa manovra sia stata fatta in un momento, come quello attuale, in cui arrivano i soldi del PNRR (che sono a tasso d’interesse quasi nullo) e quindi gli stati europei solo parzialmente dovranno ricorrere a nuovo debito al tasso d’interesse maggiorato è solo vanamente di consolazione, dato che sappiamo che non riusciremo a spendere i soldi del PNRR perchè vincolati e i governi non sono bravi a spendere secondo piani non decisi da loro stessi.

Quindi come conseguenza probabilmente a partire da dicembre dell’anno prossimo, torneremo a sentir parlare di austerità, tagli ai servizi pubblici, tagli alle prestazioni, imprese con crediti statali non saldati, default di comuni e regioni (oltre quelli già attualmente in default) e, ovviamente, spread.

Tutta festa!

A questo punto non possiamo però pensare che le banche centrali siano tutte pazze a fare manovre come queste. E quindi rivolgiamoci di nuovo alla teoria tradizionale per spiegare come mai abbiano deciso questo incremento dei tassi.

La spiegazione tradizionale dice questo: il tasso d’interesse è la variabile fondamentale per portare in equilibrio i 3 principali mercati di uno Stato (o insieme di stati). Il mercato delle merci; il mercato monetario e il mercato dei capitali (obbligazioni o altre azioni di questo tipo).

Se due di questi mercati sono in equilibrio, secondo la teoria, anche il terzo si riequilibrerà.

Dunque non importa il perchè si decide di fare una politica di alti tassi d’interesse. Diciamo che per la teoria economica si va col pilota automatico. Giacchè nel mercato delle merci non c’è equilibrio (inflazione), allora loro stringono i cordoni finchè non raggiunge l’equilibrio.

Non si preoccupano costoro di andare a vedere se c’è disequilibrio negli altri mercati e a chiedersi il perchè dell’inflazione, desumono la strategia da attuare dal semplice fatto che sia in disequilibrio il mercato delle merci.

Con questo facendo fare grossi affari solo a una parte di capitalisti. Cioè a coloro che hanno capitali da investire. Al momento attuale, infatti, rendono più vantaggioso l’investimento in depositi finanziari di qualunque tipo, piuttosto che in economia reale.
Si preoccupano se poi chi offre questi tassi d’interesse riuscirà sicuramente a restituire i soldi?

Se si tratta di cittadini che devono stipulare un mutuo, sicuramente si e vanno a vedere requisiti, stipendio, conto in banca, stili di consumo e colore delle mutande, ma se si tratta di fondi di investimento x chi controlla? Nessuno.

Il che aprirebbe al problema della liquidità, ma questo è un altro problema, peraltro complesso, e nuovamente, ci porterebbe fuori strada.

Quindi, andiamo direttamente, a vedere le conseguenze di questi due fenomeni macroeconomici sulle tasche dei cittadini.

Per la scuola classica questo aumento dei tassi dovrebbe frenare l’inflazione. E dovrebbe accadere una cosa come questa: dal lato dei cittadini un aumento del tasso d’interesse porterebbe ad evitare di fare prestiti e stringere invece i cordoni del risparmio individuale, cioè usare il risparmio individuale per far fronte alle spese correnti, ma anche cercare di spendere meno. Le imprese vedendo una diminuzione della domanda, inizierebbero ad abbassare il prezzo dei beni prodotti, si raggiungerebbe un equilibrio fra domanda e offerta e l’inflazione si frenerebbe. Effetto che peraltro l’inflazione già genera di per sé, ma ammettiamo pure che i cittadini siano lenti ad accorgersene e abbiano bisogno di un segnale più chiaro da parte delle banche.

Dal lato delle imprese, l’aumento del tasso d’interesse, porta a un’emigrazione dei capitali dall’investimento nell’economia reale a quello finanziario. I prestiti diminuirebbero di numero e verrebbero fatti solo per attività economiche bellissime, efficientissime e very very green. Così quando solo le imprese produttrici salde et sane et vigorose et fortemente italiche, anzi no, estere, avranno preso il controllo dell’apparato produttivo si potrà chiedere ai lavoratori di lavorare con più bassi salari. A quel punto i magazzini saranno pieni di merci invendute ai prezzi correnti e, finalmente, fra un 5 o 6 anni si decideranno ad abbassare il prezzo.

Nel frattempo ci saranno macerie dappertutto e del sistema di welfare non resterà in piedi neanche più l’ombra. Ecco… ci vuole un genio per elaborare un piano di questo tipo. Ma a quanto pare di geni non scarseggiamo.

Quanto alla realtà il meccanismo però è questo, già descritto mille volte, per cui non mi dilungo eccessivamente. Aumenta il costo della vita, quindi diminuisce il valore dei salari reali. Se non ci sarà nessun incremento dei salari (e la BCE si è messa a tuonare per tempo contro questa possibilità), chi potrà permetterselo eroderà i risparmi. Chi non potrà farlo chiederà prestiti ai tassi d’interesse attuali, quindi si inguaierà maggiormente.

Alla fine andranno a rubare nelle case dei ricchi. Passerà una legge per la legittima difesa e poi torneremo felicemente nel far west. Oppure si suicidano. Per la BCE fa lo stesso.

Quanto al mercato immobiliare (quello delle case) che pure è importante, seppure non molto affidabile come visto durante la crisi del 2008, dovrebbe succedere le seguenti cose. Con tassi d’interesse elevati sono poche le persone che potranno permettersi di comprare casa. Il mercato immobiliare ha però, purtroppo, vari canali di sfogo per fare fronte a questa crisi. Da un lato secondo la teoria, poiché nessuno compra, dovrebbero scendere i prezzi degli immobili e in più si avrà un immissione significativa sul mercato, di tutti quegli immobili che verranno venduti per rientrare dei debiti (aste giudiziarie in primis). Questo incremento dell’offerta dovrebbe far scendere i prezzi e permettere a varie persone di comprarsi casa. Cosa che poi finisce lì, perchè comunque c’è il mutuo da pagare al 4%, quindi nessun risparmio nelle tasche dei cittadini. Ma gli immobiliari possono anche farsi forti della loro posizione monopolista e decidere di destinare vari immobili oggi in vendita al mercato degli affitti, maggiorando la pigione, chiaramente, di un 10-15% per rientrarci del mancato investimento. Con questo otterrebbero ovviamente di aumentare l’inflazione.

Vorrà la BCE continuare ad alzare il tasso d’interesse per sconfiggere l’inflazione?

Lo vedremo nelle prossime puntate.

Chiedo scusa per la prolissità, ma bisogna pur avere delle coordinate per non farsi prendere solo in giro.

 

1Precisiamo qui che per economia classica intendiamo quella branca dell’economia che viene chiamata “economia politica” e che di fatto coincide con la definizione di “macroeconomia” data sopra e che è quella universalmente accettata dalle università di tutto il mondo. Lo studio di questa branca dell’economia, ripetiamo, è stato inaugurato dal buon John Maynard Keynes col suo testo principale “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”. Scopo dell’economia politica è quello di aggregare quello che si muove in tutte le altre branche dell’economia (finanziaria, microeconomia, bancaria e regole del bilancio o cd aziendale) e dare strumenti alle istituzioni per governare l’economia generale.
2Questo non è vero secondo Keynes che traccia una distinzione proprio fra mercato della singola impresa o consumatore e mercato aggregato. Le due dimensioni, micro e macro, per l’economista britannico si comportano in maniera differente.
3 La curva d’indifferenza non funziona altrettanto bene a livello aggregato
4Per mezzi di produzione si intendono gli strumenti, le tecnologie e le conoscenze secondo i quali è organizzato il processo produttivo (fabbriche, linee di montaggio, macchinari, robot, ecc…)
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Aggiornamenti

Ho aggiornato un po’ il blog.

Cioè più precisamente l’ho revisionato, aggiungedo vecchi post che stavano sul vecchio blog.

Ho corretto qualche errore grammaticale qua e là in alcuni post.

Infine ho aggiunto dei grafici – mooolto artiginali – al post “petrolio e tasse sotto al sole” https://unaltrastoria.noblogs.org/post/2021/11/23/petrolio-e-tasse-sotto-il-sole/
che risultava essere incomprensibile nella parte finale, ma non sono sicura di aver fatto un gran che di passo avanti.

Penso comunque che così il blog sia un po’ più fruibile e corretto.

Saluti.

 

 

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